10 aprile 1920. Il Comune si aggiudica all’asta il Castello dei Ventimiglia
10 aprile 1920. Il Comune si aggiudica all’asta il Castello dei Ventimiglia
Dice un vecchio detto popolare: Siddri unu un mori l’atru un si po vvìdiri lùsciu, vale a dire ‘la rovina di uno costituisce la premessa per il fiorire dell’altro’. Nella fattispecie, l’uno e l’altro sono rispettivamente il barone Luigi Fraccia di Favarotta e la comunità di Castelbuono.
Il barone Fraccia, nipote del marito dell’ultima discendente dei Ventimiglia ed erede universale di tutto ciò che rimaneva del patrimonio dei marchesi di Geraci, al pari di tutto il patriziato siciliano di quel periodo, dopo una vita di ozi e di sperperi, si trovava a pieno titolo – come si dice a Castelbuono – nei verbi difettivi, cioè era sull’orlo del tracollo finanziario. Il 28 febbraio 1913 aveva donato – o, più verosimilmente, venduto – alla Comune di Castelbuono «la reliquia di Sant’Anna e l’urna che la contiene, compreso il mezzo busto argenteo», firmando l’atto di donazione con il sindaco pro tempore Mariano Raimondi, al cospetto del notaio Giuseppe La Placa.
In caduta libera come doveva trovarsi e inseguito dai numerosi creditori, nel 1916 il barone Fraccia subì il pignoramento del Castello, che quindi sarebbe stato venduto attraverso un’asta giudiziaria. Nelle elezioni del 1912, com’è noto, il consiglio comunale era stato radicalmente rinnovato, erano usciti tutti i ‘cappelli’, gli aristocratici, che lo avevano a lungo impastoiato, rimpiazzati da una fresca e dinamica generazione di artigiani, commercianti e operatori del settore primario. Per la prima volta nella storia, quello di Castelbuono era non più un consiglio comunale di persone del ceto civile ma costituito da autorevoli rappresentanti, come si direbbe oggi, della società civile. Sindaco era stato eletto il grosso commerciante di manna Mariano Raimondi, figlio di un artigiano, che nel 1886 aveva voluto intraprendere quell’avventura nel campo del commercio e delle esportazioni del prodotto che, già allora, rappresentava una peculiarità per Castelbuono.
Si trattava di un insieme di alacri lavoratori che aveva contezza del senso dell’amministrare e grande capacità di farlo. Una classe politica, chiamiamola così, che capiva bene che un paese non è un insieme di case e di piazze e di vie e di gente che vi vive, ma necessita di interconnessioni, di cemento sociale e di tutti quei valori e simboli che lo fanno paese e quindi comunità.
E il simbolo civile, culturale, religioso per antonomasia di Castelbuono, di lì a poco, sarebbe stato messo all’asta e nessuno voleva rischiare che ad aggiudicarselo fossero altri, se non i soli che ne avessero titolo: i castelbuonesi. Il Comune, in ordine a disponibilità finanziarie, manco a dirlo, era dâ Misiricordia a ppinnina per cui l’unica via da seguire, apparve chiaro subito a tutti, era quella della colletta popolare.
Scrive Nzulo Cicero, avendo vissuto quei giorni, che fu costituito un comitato il cui presidente era l’assessore màsciu Iachinu Bruno che, fattivo com’era, si mise subito all’opera al fine di raccogliere una cospicua somma. Ma si era in piena guerra, senza dire che il popolo aveva ancora le piaghe aperte a causa della carestia del 1913. L’iniziativa, comunque, subì un deciso impulso alla fine della guerra, nonostante la spagnola. Per un tempo sicuramente non brevissimo, ogni giorno la Patrona venne portata in corteo per le strade del paese. Castelbuono fu letteralmente setacciata, quelli del Comitato non lasciarono porti a tuppuliari.
Il sindaco Raimondi, gli assessori, i componenti il Comitato e quanti si sentirono di dare una mano, fecero cerchio attorno all’urna d’argento contenente la reliquia dâ nannò, portata a spalla da rappresentanti delle congregazioni e accompagnata dal cappellano don Carmelo Morici, che peraltro era consigliere comunale. Racconta Nzulo Cicero che «l’obolo, modesto ma generale, sulla media delle cinque lire, veniva fatto cadere dalle finestre e dai balconi di ogni casa e mastro Gioacchino Bruno ne prendeva nota in un elenco generale, che fece poi stampare e rendere di pubblica ragione, come fatto storico degno di nota». Il trasporto dei castelbuonesi fu veramente notevole e generalizzato, ognuno fece la propria parte, quello che poteva: dalla Famiglia Gugliuzza che contribuì in ragione di mille lire (metà della base d’asta) al sindaco Raimondi che offrì cinquecento lire, fino a qualche liretta, versata dalla povera gente, che magari le tolse di bocca, in termini di pane, a sé e ai propri figli, per potere esaudire questo grandissimo desiderio popolare. Senza dire dell’enorme contributo dei numerosi castelbuonesi residenti in America che, alla fine, sarebbe equivalso all’incirca alla somma raccolta in loco: più di ventiquattromila lire.
Intanto si era saputo che l’asta era stata fissata per sabato 10 aprile 1920 e che la base d’asta era di lire 1900. Benché la somma non fosse elevatissima neanche per quei tempi, nessuno si faceva illusioni circa il fatto che il prezzo di aggiudicazione sarebbe rimasto basso anche perché la mafia aveva fatto sapere, in maniera neppure tanto implicita, di mostrare grande interesse per il Castello e ferma volontà di aggiudicarselo, nonostante l’edificio versasse in condizioni penose.
Ma gli amministratori di Castelbuono non avevano alcuna intenzione di perdere quella occasione storica ed erano così determinati che il sindaco Raimondi, e forse anche qualche suo assessore, era stato minacciato di morte.
Anzi, sostiene Nzulo, che la mafia vedendo che le minacce fino a quel momento non avevano sortito alcun effetto, sarebbe passata alle vie di fatto organizzando per la mattina del 10 aprile un agguato lungo la strada percorsa dalla corriera. Per fortuna, o così si narra, qualcuno fece una soffiata e per questa ragione il sindaco raggiunse la ferrovia per portarsi a Termini Imerese in incognito vestito con abiti da lavoro, percorrendo trazzere e viottoli di campagna. Non è difficilissimo immaginare l’itinerario che poté seguire anzi è assai probabile che, grossomodo, da San Paolo, passando ppâ Cunigliera, sia sceso ppi Cùozzu Valenti e poi giù fino ad arrivare ô ponti vìecchiu dâ çiumara; da qui deve essersi portato a Frassalenni e quindi a Pizzu Dùobbisu. Raggiunto u pontâ Bbutta, deviò per Turriggìliu e dopo avere attraversato Santannastasira scese ê Linati, da dove – infine – raggiunse lo scalo ferroviario.
Non sappiamo se i malfattori quella mattina assaltarono la corriera per sopraffare il sindaco rimanendo con un palmo di naso, avendo trovato – come si dice da noi – u nidu vulatu o se, invece, cambiarono i loro sciagurati piani. Ciò che è certo è che all’ora stabilita il sindaco Mariano Raimondi si trovò dove doveva essere: nell’aula delle vendite giudiziarie. Scrive Nzulo Cicero, che il sindaco vi trovò ‘i fatali’, giovani aitanti, di bella presenza, eleganti, in gambaletti di cuoio, giacca di velluto e coppola storta, â malantrina, magari di buone maniere ma che non mancavano di guardarti ccu l’ùocchi tùorti, per cercare di incutere timore. Avendo forse capito che il sindaco non era il tipo che si lasciava facilmente impressionare, cambiarono strategia e rimasero composti a sostegno del loro complice che partecipava all’asta, certamente un prestanome, che aveva avuto precise indicazioni sull’offerta massima. Dalla base d’asta di 1900 lire i due andarono avanti con le offerte fino a quella di 20.500 lire fatta dal sindaco Raimondi con la quale si aggiudicò, sia pure in via provvisoria, il Castello. Ma non era finita, anzi il bello doveva ancora venire.
Racconta ancora Nzulo che quando in paese si propagò la notizia che la missione del sindaco aveva avuto buon esito, in un niente migliaia di persone si raccolsero in via san Leonardo, sotto la sua casa, per esprimergli tutta la loro gratitudine e dimostrargli ancora una volta tutto l’affetto che nutrivano per lui. Raimondi si affacciò al balcone e comunicò ai suoi cari concittadini, felice e visibilmente commosso, che l’operazione era andata a buon fine ma non era stato facile, facendo riferimento ai travestimenti, agli itinerari che era stato costretto a seguire e a quei giovinastri di bella presenza che, invano, avevano tentato di intimorirlo, i fatali, appunto.
I fatali, abbiamo detto, avevano cambiato strategia e per questo decisero di non rialzare ulteriormente le offerte. La normativa in materia di aste giudiziarie prevedeva che nelle due settimane successive all’aggiudicazione provvisoria, chiunque avrebbe potuto depositare un’offerta di acquisto per un importo che superasse di almeno 1/6 il prezzo raggiunto nell’incanto, quindi almeno 3400 lire in più dell’ultima offerta. C’era, in altre parole, il serio rischio che per aggiudicarsi il Castello di Sant’Anna si dovesse arrivare a una cifra esorbitante. I castelbuonesi temevano che ciò potesse accadere, i fatali sapevano benissimo quali fossero le paure dell’intera cittadinanza. La mossa non si fece attendere e dopo pochissimi giorni al sindaco venne recapitata la seguente lettera:
«Sig. Sindaco rappresentante la Comune di Castelbuono. Il sottoscritto Leonarda e Compagni non concorse all’asta per la aggiudicazione del Castello, ma manifesto che urge alla di lui società il fabbricato dei due magazzini alla entrata. Se lor signori non vogliono sostenere concorrenza all’aumento di sesta bisogna concederci prima della aggiudicazione definitiva i fabbricati suddetti dei due magazzini con atto pubblico, caso contrario declino ogni responsabilità. Attendo risposta prima di domenica 18 aprile corrente. La ossequio. Devotissimo. Leonarda e Compagni».
Quindi la strategia di Leonarda & Co. era: noi ve la diamo vinta ma anche voi v’ati a ddòliri quindi noi desistiamo dal concorrere e non depositiamo l’offerta incrementata di un sesto ma voi, in cambio, prima dell’aggiudicazione definitiva, dovrete concederci i due magazzini all’entrata che oggi, non con poca pompa, si chiamano scuderie. In caso contrario, e qui Leonarda cerca di darsi un tono, può succedere di tutto. Infatti non successe niente. Intima, infine, al sindaco di esigere una risposta prima di domenica 18 aprile.
La risposta, il sindaco e la popolazione tutta, gliela diedero con largo anticipo giovedì 15 aprile allorché nella sala consiliare, allora posta al primo piano, in parte dove attualmente è ubicato l’ufficio del sindaco, invitati dal sindaco Raimondi e dall’Arciprete Cipolla, si riunirono le rappresentanze di tutti i sodalizi e delle congregazioni per discutere e deliberare «in ordine all’acquisto del Castello di Sant’Anna». Il sindaco aprì la riunione dando comunicazione e lettura delle pretese di Leonarda e compagni a una trasecolata assise le cui sensazioni e reazioni vennero affidate al verbale, che contiene anche il deliberato, redatto a fine seduta e firmato da centosei presenti, che dovevano essere anche di più visto che non risultano le firme dell’arciprete Cipolla e dell’assessore Gioacchino Bruno che certamente erano presenti.
«L’assemblea, udita la lettura con fremito d’indignazione, interprete del movimento intenso per l’acquisto definitivo del Castello dei marchesi Geraci che rappresenta per Castelbuono l’unione del sentimento sacro col sentimento civico, giacché per cinque secoli la cittadinanza castelbuonese ininterrottamente ha goduto del diritto ormai prescritto di esercitarvi gli atti di culto, di fede pubblica in tutte le ore del giorno e della notte verso l’Augusta protettrice Sant’Anna che per Castelbuono rappresenta il palladio più glorioso ove s’incontrano le tradizioni patriottiche, civili e religiose di Castelbuono, ad unanimità delibera: Resistere a qualsiasi sopraffazione e minaccia di qualsiasi natura e da qualsiasi parte possa provenire perché il Castello venga definitivamente aggiudicato alla popolazione di Castelbuono. A tal uopo dà mandato al signor Mario Raimondi sindaco e alla giunta, al reverendo parroco di Castelbuono, al reverendo vicario Morici e signor Bruno perché continuino a presenziare tutte le operazioni di asta presso il tribunale di Termini onde ottenere, nell’eventualità di aumento di sesta, con quei mezzi che crederanno opportuno, senza preoccupazione economica o di altra natura, l’attuazione della prima parte dell’ordine del giorno che suona garenzia di dritto secolare a vantaggio della popolazione di Castelbuono. Delibera di dare comunicazione del presente ordine del giorno ai quotidiani ed alle autorità per i provvedimenti del caso. Previa lettura e conferma si sottoscrive».
Non sappiamo se furono gli effetti prodotti da questo deliberato e dalla sua diffusione a mezzo stampa, ma dei fatali, di Leonarda e dei suoi compagni si persero le tracce per sempre, come si dice dalle nostre parti, un si nni seppi né vvecchia né nnova. E, naturalmente, nelle due successive settimane in tribunale non fu depositata alcuna offerta di incremento di un sesto dell’importo dell’aggiudicazione provvisoria per cui quest’ultima divenne definitiva. Si realizzava, così, il sogno di tutta la comunità di Castelbuono di donare il suo Castello alla Augusta Patrona Sant’Anna e che pertanto, da allora, assai significativamente, è chiamato u castìeddr’i Sant’Anna.
Se Mariano Raimondi come sindaco ebbe meriti enormi per ciò che seppe fare per suoi concittadini, fu certamente il ruolo di attore protagonista ricoperto nella vicenda dell’acquisto del castello – come documentano le due lapidi murate all’interno del castello e della cappella – che lo consacrò a imperitura gloria. I fasti di quell’aprile 1920 coincisero anche con il suo commiato dai suoi cari concittadini perché di lì a qualche giorno diede le dimissioni da sindaco sia per le sue condizioni di salute che andavano peggiorando di giorno in giorno sia per protestare con le Autorità che nell’assegnazione dei viveri, peraltro regolarmente pagati, privilegiavano smaccatamente il capoluogo e i centri della costa, a scapito dei paesi dell’interno. Cosa dobbiamo dire di questo immenso uomo? Niente, se non le due parole che disse di sé ai soci della Società Agricola: Ho seguito la legge del dovere e non merito elogi.