2001, Ciack!, si gira! – Appunti per una storia della maschera
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(Di Massimo Genchi) – Si avvicina carnevale, ritornano le sale, i balli, i coriandoli, a test’ô turcu… No, quella no, perché la fanno pure per Sant’Anna senza capire che non gli potrà mai venire buona come quella di carnevale. Ritorna u rrisu ntaanu e, inevitabilmente, ritorna il tema della maschera e della sua storia, che, a mio avviso, si rende sempre più necessario mettere su carta, prima che sia troppo tardi. Ma, prima o poi la scriveremo, come è stato promesso. Anzi: Promitto e iuro. Facendo in modo che non vogliano l’infinito futuro, come in latino, ma il futuro semplice. O, per meglio dire, il futuro prossimo.
Intanto ritorniamo alla maschera di oggi e al tema della sua innovazione che fu già toccato in occasione della puntata dedicata a Tabarè ’73 e ai Figli di nessuno.
Se Tabarè ’73 fu una rivoluzione nei testi, nella essenzialità di scene e costumi, nelle canzoni caratterizzate da ritmi e controvoci ben armonizzate, che i giovani degli anni Sessanta non faticheranno ad assimilare, con i dovuti paragoni, a quelle di Crosby, Stills, Nash & Young, pochi anni dopo, nel 1981, arrivava un’altra maschera epocale: «2001, Ciack!, si gira!». Qualcosa di mai visto prima, che anticipava di un decennio l’importanza e la forza delle immagini nella comunicazione di qualsiasi tipo.
A dire il vero, il 3 marzo 1981, il Gruppo 2001 chiudeva il cerchio abbozzato due anni prima, nel 1979, con l’arrivo delle prime immagini in assoluto sul palco: le gigantografie dei personaggi oggetto della satira, poste a corredo delle carte siciliane, che ispiravano il titolo di quella maschera «A carte scoperte». Il gradimento della quale fu veramente alto, grazie anche, ma non solo, alle fotografie di grande formato.
L’anno seguente, 1980, fu la volta della proiezione di diapositive a corredo della recitazione, con i primi immancabili fotomontaggi: un’altra maschera indimenticabile. A quel punto, cosa fare era ovvio, bisognava completare la trilogia e fare un film. O, meglio, brevi sketch filmati, che chiamammo filmini non certo per ammiccare, o forse sì, a certi filmini piccanti che, allora, al Cine Astra, venivano dati a iosa, ma si dovrebbe dire a minchia china, facendo registrare ogni sera il tutto esaurito. E il film fu.
Le riprese cinematografiche non furono per niente facili, noi non eravamo né Paul Newman, né Giancarlo Giannini e neppure Franchi e Ingrassia ma andò bene, anzi benissimo. Emilio fece un lavoro pazzesco filmando con la sua cinepresa in Super 8 e, ancora più prodigioso, ciò che fece Cucco in fase di montaggio: il risultato fu eccellente nonostante i vari set, allestiti alla buona, fossero alquanto sgangherati, prima ancora che improvvisati. Non potendo chiudere alcuno spazio urbano si cercò di non dare nell’occhio e se una ripresa fu fatta in un interno, una in aperta campagna e un’altra ê Culunneddri, quando girammo â Chiazza nnintra, di prima mattina, e poi Ncap’u ponti, sia pure nel primo pomeriggio, non potemmo tenere alla larga i tanti occhi indiscreti e ben presto si seppe che si stava preparando qualcosa di grosso, non solo perché venne girata la scena di una rapina al Banco di Sicilia con Mario Bonomo nei panni di un gangster che scendeva da una macchina in corsa con impermeabile svolazzante, cappello a larghe tese in testa, occhiali scuri e un mitra spianato che lo facevano sembrare degno di C’era una volta in America, sebbene tre anni prima.
Ricordo, come se fosse ieri, Emilio che proiettò la pellicola appena montata e noi che saltavamo di gioia come dei bambini: in effetti avevamo tutti meno di ventitré anni. Anche i Figli di Nessuno avevano tutti ventitré anni all’epoca di Tabarè ’73 per cui, con una punta di enfasi, verrebbe spontaneo dire che certe maschere, se non le hai fatte entro quell’età, non le farai mai più.
Dirò subito che la forza dirompente di «2001, Ciack!, si gira!» risiedeva nella novità, cioè nella narrazione e nella comicità affidate alle immagini. Forse l’unica volta, in tutta la pluridecennale storia del Gruppo 2001, in cui il testo non fu preponderante nell’economia della rappresentazione. Anche se, e certamente non è un caso, il pezzo più bello, di quella maschera si riscontra proprio in quella parte che venne lasciata priva di filmati. È la narrazione – a modo nostro – della indimenticabile nevicata dei primi giorni del 1981 e delle sue conseguenze, comiche o da noi ricondotte a tali. Ma procediamo con ordine.
Questa maschera, fino a oggi, è rimasta avvolta in un alone che le conferisce un non so che di misterioso e di mitico al tempo stesso. Un’araba fenice, insomma. Tutti ne hanno sentito parlare, ma solo pochi l’anno vista, a parte i duemila spettatori di quel martedì di carnevale alle Fontanelle. Momò, la registrò, come sempre faceva, io fui fra i pochissimi ad averla ascoltata, ma prima di poterne fare una copia la cassetta si dissolse e non si trovò più. Qualcuno giura di averla vista nelle mani di chi col Gruppo 2001 c’entra come i cavoli a merenda, e continua a detenerla. Certo, non ci sarebbe neanche bisogno di chiedergliela per vedersi opporre una negazione. E vabbè. In virtù di ciò, i filmati qui inseriti e le relative colonne sonore sono gli originali, le parti recitate e cantate, invece, sono quelle eseguite alle Fontanelle nel 1981 ma sono tratte da una riproposizione del 1999.
Quella sera, sul palco delle Fontanelle, accanto a Paolo Cicero e a Pasqualino Spallino, che quella sera imbracciavano le chitarre, c’erano Enzo e Antonello Sferruzza, Vincenzo Perrini e chi scrive. A sipario chiuso fu mandata l’ouverture che, dato il Gruppo 2001 e il tema del film, non poteva che essere la traccia sonora di “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrik, ossia Also Sprach Zarathustra di Richard Strauss, una sinfonia che in qualunque stato d’animo si ascolti dà la sensazione di assistere al passaggio dalla notte, all’alba, all’irrompere del sole, simboleggiando, in qualsiasi contesto, il passaggio dal buio alla luce.
2001, Ciack!, si gira! Viene qui riassunta in quattro tempi, in quattro scene, tralasciandone per forza di cose alcune altre.
Scena 1. Farmacia. Nel corso del 1980 venne inaugurata la nuova sede della farmacia del dottore Enzo Sottile, che all’epoca suscitò tante mirabilie per l’enormità degli spazi interni, assolutamente straordinari, la qual cosa portava chiunque a realizzare facili fantasticazioni. Noi immaginammo che la sterminata farmacia ispirasse, a parte tutto, anche dei componimenti poetici, come quello che facemmo scaturire dalla vena dello stesso farmacista. Il titolo non poteva che essere l’Infinito, non tanto per Leopardi, quanto per la largasìa.
Scena 2. Banco di Sicilia. Nello stesso 1980 un accadimento squisitamente radical-paesano ebbe un formidabile rimbalzo mediatico da fare sussultare financo la borsa di New York: l’arrivo nella locale filiale del Banco di Sicilia di Liborio Noce, un personaggio che avrebbe riempito i copioni delle maschere per i decenni a venire. E non solo perché in banca per un bel po’ di tempo anziché parlare di tassi di ammortamento e di sconto si parlò esclusivamente d’azzubbagliari i pìecuri e del perché le vacche â Cassanisa fossero perennemente ntavirizzi ma, soprattutto, perché i risparmiatori temevano fortemente che Liborio, mpapalunutu com’era, con tutti quei discorsi pastorali, ntôn cùorp’i cunfusioni, avrebbe potuto tranquillamente devolvere i loro depositi come contributi agricoli dell’olio di Lanzirìa.
Ma era la vigilanza armata del Banco di Sicilia, nata nello steso periodo, e affidata alle provvide mani di Mario «Scaccia e mancia», che pur non destando grandi preoccupazioni, incuteva pur sempre un certo timore. E se un giorno dei malintenzionati dovessero fare una rapina, si chiedeva la gente? Certo ci sarebbe stato poco da ridere. Noi, però, per sdrammatizzare, volemmo immaginarla così:
Scena 3. L’automazione ante litteram. Sempre in quel 1980, o così pare di ricordare, arrivarono in paese i primi distributori automatici di sigarette che ebbero un grande successo. Noi, come tutti, all’epoca e diversamente da oggi, eravamo dei grandi e curiosi osservatori. Ora, uno dei più grandi personaggi pubblici di allora, molto rappresentato nelle maschere, persona assolutamente di spirito, era il geometra Cristoforo Raimondi, inteso Rucchello, che nella nostra parlata ha una accezione assai positiva, coniugando la vivacità, la simpatia e la giovialità del portatore del soprannome. Il geometra Raimondi, nell’immaginario collettivo, veniva rappresentato, riduttivamente, come una persona un po’ tirata ed essendo un grandissimo fumatore, noi, mettendo insieme le due cose, realizzammo che il distributore delle sigarette nei suoi confronti avrebbe dovuto usare un trattamento di riguardo, impensabile per qualunque altro utente. Non ci credete? Guardate!
La cosa pazzesca di questo video girato quasi cinquant’anni fa è che non disponendo di moviole e diavolerie varie, dovemmo costringere il povero geometra Raimondi a girare la scena compiendo quella sequenza di movimenti automatici in ordine inverso, mentre Peppe, dietro lo schermo, proiettò il filmato portandolo preventivamente alla fine e facendo poi muovere la pellicola in retromarcia. Insomma, follie giovanili.
L’ultimo non è un ciack ma un quarto tempo. Un tempo da lupi.
Un tempo come non se ne è più visto da allora. Primi giorni di gennaio 1981.
Una nevicata fiabesca in virtù della quale il tempo sembrò fermarsi e anche i rumori tacquero, non solo quelli delle attività, tutti. Si fermò la quotidianità. Provammo l’ebbrezza di vivere, per quasi due giorni, senza l’ausilio dell’energia elettrica, ricorrendo ai lumi a petrolio e alle stearine – che andarono a ruba mentre i prezzi salivano alle stelle – e scaldandoci al fuoco amorevole e amicale del braciere, ma facendo la dovuta attenzione a controllare che il fuoco fosse sbraçiato perché, in caso contrario, il monossido di carbonio non sarebbe stato per niente amicale con noi, dal momento che ccû fìet’u carvuni, si mori, come è noto, senza che te ne accorgi.
Dato che l’accaduto era friscu friscu, appunto com’a niv’i innaru,ed essendo il carnevale alle porte, scrivemmo quel pezzo, come si dice, in una tirata e, naturalmente, venne fuori con tutta la sua naturale comicità.
Questa era l’introduzione alla esilarante canzone costruita su presunti fatti accaduti in quei giorni di neve, dalla mancanza di pane nei forni, alla discesa in paese a piedi di Zerbo sulla neve alta, dove si guadagnò un solenne scivolone, all’azione preventiva di Rruina in bella esposizione nel suo atelier della piazza dove, incurante del fioccare della neve, rendeva pronte all’uso alcune bare che sarebbero certamente servite nei giorni seguenti, dato che con quei rigori eccezionali qualche vecchietto avrebbe deciso di andarsene a villiggiatura, come si soleva dire con una punta di malinconica ironia.
Calò il sipario fra molti applausi. Si parlò a lungo di questa maschera, qualcuno pronosticò che non saremmo mai riusciti a migliorarla e per un po’ di tempo fu così, sicuramente. Ma ostinarsi a confrontare una maschera del 1981 con una del 2015 o del 1963 è incongruo perché equivale a chiedersi se sia stato più forte Puskas, Maradona o Pelè. È, invece, più corretto riferire le maschere al periodo storico in cui vennero rappresentate e capire, rispetto allo standard di allora, cosa aggiunsero, in che cosa migliorarono il copione, le musiche, l’interpretazione, la concezione stessa della maschera. Ed è questo che deve importare, alla fine.
Oggi non ci facciamo gli auguri perché faremo un’altra puntata a carnevale con un altro taglio. Intanto ringrazio voi del gradimento e il mio fedele collaboratore Peppe Cucco per avere messo a soqquadro gli archivi, rendendo pronti per la pubblicazione di oggi materiali di quasi mezzo secolo fa. Ciao a tutti.