A rrua Fera, qualche conceria e u munnizzaru dâ Calìa

A rrua Fera, qualche conceria e u munnizzaru dâ Calìa

Tra le rrue cinquecentesche di Castelbuono vi era anche la ruga suttana che, innestandosi sulla ruga dell’inchiancato, il corso Umberto, correva lungo l’attuale via Collegio Maria, allora scarsamente edificata e, alla fine della discesa, in aperta campagna, sboccava a porta Pollina, che non sorgeva ancora a san Paolo. La ruga suttana era una striscia di terreno sopraelevata percorrendo la quale si dominava il grande giardino che, da sopra il ponte, andava al Rosario e oltre. L’esistenza di una ruga suttana implica chiaramente quella di una ruga suprana. Anche se i documenti non dicono niente di esplicito, certamente dovette esistere e, secondo Orazio Cancila, si configura con la via Benedettini.

Negli ultimi anni del Quattrocento, durante i lavori di ampliamento della Matrice vecchia verso la parte bassa della piazza, per salvare quello che per l’epoca era considerato lo scorrimento veloce per Pollina, i capimastri escogitarono di costruire la quarta navata scavalcando la ruga suttana con un sottopasso, ornato di archi a sesto acuto, colonne, capitelli e la copertura a volta. Quando più tardi, sotto la volta vi fu ubicata l’edicola votiva, quel posto divenne per tutti a Madunnuzzâ vota cioè la Madonnina della volta.

Soprattutto in quel periodo, per far sì che costruzioni e ampliamenti, soprattutto di chiese e conventi, non determinassero la necessaria occlusione di arterie stradali anche primarie, soluzioni analoghe a quella adottata per salvare la highway to Pollina, sarebbero state riprese anche nella costruzione del corpo più a valle del Convento dei Benedettini e dell’abside della chiesa del Monte.

A proposito di questa via, stupisce che nel caleidoscopico calderone di mirabili trovate che si arricchisce vieppiù, Aladino, confortato dal parere dello stuolo di autorevoli architetti di cui ordinariamente si cinge, non abbia inserito again la vecchia genialata della copertura a giorno di via Arcomonte per impiantarvici un mercatino di degustazioni e food vari. A meno che, a seguito delle ultime cogitazioni, non abbia ideato di incorporarla nell’escatologico progetto dell’area mercatale.

Parlando di rue, sorvolare non si può sulla più nota di esse, la rua della Fera, toponimo quanto mai longevo e tuttora vivissimo. Quando, nel 1882, venne fatto obbligo a tutti i Comuni di attribuire un nome alle strade urbane, questa fu fra le pochissime a mantenere l’antica denominazione popolare e fu chiamata, pertanto, via Fiera. Ma fino al 1932, allorché, in un impeto di esaltazione fascista, le fu dato l’attuale insuggestivo nome di via Roma.

I castelbuonesi, pur ossequiosi nei riguardi del fascismo, del duce e dell’impero, nelle pratiche, se ne fregarono alquanto di magnificare la grandezza di Roma e, in barba ad ogni imposizione, continuarono a chiamarla rrua Fera, esattamente come avevano fatto nei precedenti cinque secoli. A riprova di quanto questo toponimo sia profondamente radicato nel soul dei castelbuonesi, vale il fatto che – diversamente dalla famiglia del barone Minà e di quella dei Purpuri, che nella memoria collettiva hanno legato i rispettivi nomi alle strade che ospitavano i rispettivi palazzotti – la potente famiglia Levante, il cui palazzotto sorge a metà rrua Fera, non è riuscita a fare altrettanto con la via della Fiera.

Il nome rrua Fera trae origine dall’importantissima fiera di santa Venera che si svolgeva ogni anno in questa “lunga e ben larga via” il 26 luglio. Furono i Ventimiglia, dopo la costruzione del monastero di santa Venera, a istituire tale fiera nel giorno di santa Venera, allora patrona di Castelbuono. Si trattava di una fiera franca concessa dai Ventimiglia ai castelbuonesi, cioè di una fiera esente da gabelle. Nella concessione di fiere franche della Toscana del Trecento risiede anche l’origine del noto ‘farla franca’, si capisce nel senso del modo di dire e non certo nel senso dell’improbabile umorismo, che dovrebbe essere scovato con i cani da tartufo.

All’epoca di santa Venera patrona risale anche la cerimonia della bandiera che, all’alba del 22 luglio di ogni anno – ppâ Maddalena – a seguito di una poderosa maschiata, in grado di svegliare di soprassalto l’intero paese, viene esposta nel balcone della sacrestia della cappella di sant’Anna e per tutti i castelbuonesi significa ca trasivi a festa. La maschiata, per inciso, ricorda a rondini e rondoni, i quali – si capisce – lo ricorderebbero a prescindere, che è “tempo di migrare”. Allora li si vede volteggiare in cielo, e più volteggiano più si infittisce lo stormo, in quello che sembra un affettuoso e danzante rituale di commiato, finché prendono la rotta dell’Africa, spingendosi fino al Congo.

Un’altra strada che con le intitolazioni del 1882 mantenne la sua denominazione popolare fu la via Macello. Già nel Cinquecento, a valle della piazza e del quartiere del Salvatore, sorgeva il rione della “Bocceria”, a uccirìa, dove si macellavano gli animali e si vendeva la loro carne. E’ probabile che risalga a quell’epoca il detto tutto castelbuonese mulinu e vvuccirìa mannàcci ê cchiù mmìejji dâ inìa secondo il quale sarebbe opportuno che le faccende in cui si rischia di rimanere buggerati – come un tempo doveva accadere macinando il frumento o comprando la carne pesata con la stadera – fossero di competenza dei più scaltri della genia, ossia della famiglia.

Con le modifiche toponomastiche del 1967 l’antico nome di questa strada venne inopinatamente eliminato perché, si legge nella motivazione che accompagna la delibera consiliare, “senza interesse tradizionale”. Più verosimilmente, lo storico dell’epoca, che forse non sapeva neanche dell’esistenza della bocceria, pensò che tale denominazione fosse indegna della augusta storia di Castelbuono, secondo alcuni sbocciata e cullata esclusivamente all’interno della corte marchionale. A Roma esiste una via dei due macelli, a Bolzano una via del macello, a Spoleto una via del macello vecchio, a Lucca e a Pistoia una via dei macelli. Forse a loro che sono burini, crucchi, sub-perugini e bischeri questo toponimo non fa senso, ma a noi, animati come siamo da quella pomposa grandeur, la castelbuonesità, che in definitiva è un tarlo culturale, oltre che il marchio del nostro provincialismo, deve essere sembrato terribilmente repellente.

A proposito di sconcezze, nel piccolo trivio dove convergono la via Macello, la via Alduino Ventimiglia e la Chiazza nnintra sorgeva, underground, il frequentatissimo pisciatòiu, ricettacolo di piazzeggianti che, assaliti da inderogabili necessità, vi si inabissavano di corsa, scendendo gli scalini a tre a tre. Risulta, perciò, quanto mai evidente che un posto più adatto di questo difficilmente poteva essere individuato per erigervi un monumento alla… CORSA.

Ma questo ameno posticino fu anche l’esatto punto dove una sera, a metà degli anni ’70, finì la folle corsa di un ragazzotto, abbondantemente corpulento, che, partito da san Francesco e scendendo con la sua bicicletta per la rrua Fera ‘con forza cieca di baleno’, si accorse solo all’ultimissimo momento di avere rotto i freni e, urtato violentemente contro il bordo del marciapiede, venne sbalzato in aria e catapultato dentro il pisciatoio.

Uscendo dalla chiazza nnintra, e percorrendo la rrua Fera, superato quello che una volta si chiamava il vicolo del Rilievo, allora come oggi, era possibile deviare a destra e declinare lungo sentieri assai scoscesi, quasi a strapiombo sul fiume, che portavano a quella che può essere considerata la prima discarica di Castelbuono. Non sappiamo se abusiva, non sappiamo se gestita da una società in home, non sappiamo se retta da amministratori unici o in compagnia. Non sappiamo nemmeno se qualche volta fu chiusa, certamente non per ferie. Ecco, allora come oggi, non sappiamo nulla di nulla. Bene. Anzi male. Comunque, quel posto, nello slang paesano, ma anche negli atti ufficiali del Cinquecento, era comunemente detto u munnizzarâ Calìa. E non chiedetemi chi fosse tale Calìa perché non lo so. Successivamente fu semplicemente u munnizzaru, toponimo che resistette quasi fino all’avvento delle compostiere. Fino a pochi anni orsono, qualche vecchietta, per evidenziare lo stato di grande disordine in cui versava un ambiente domestico soleva esclamare: e cchi cc’è u munnizzarâ Calìa?, lasciando assolutamente stupefatti che un termine non di largo uso come questo, potesse essere sopravvissuto per mezzo millennio.

La zona che sovrastava u munnizzarâ Calìa, come è noto, già nel tardo Cinquecento, era sede di numerose concerie (nella cartina sotto è riprodotta la pianta di una di queste), ubicate proprio lì per la vicinanza del fiume, dal quale veniva prelevata l’acqua, mediante condotte volanti, costruite a monte, e nel quale si riversavano i liquami della lavorazione delle pelli conciate. L’inquinamento delle acque, come si vede, ha origini tutt’altro che recenti.

Più tardi, quattro concerie (→ mappa sotto) di proprietà D’Anna (B), Piraino (C), Santoro (D) e Cardella (E), sorsero a ridosso di Ncap’u ponti (tratteggio in rosso), per sfruttare il grande giardino (in verde) che si estendeva dal Collegio di Maria (in fucsia), alla fontana Grande, fino alla stecca di case limitata dalla via dei Giardini (in arancio), altro toponimo cancellato da una concezione miope della toponomastica. Ma soprattutto per l’alimentazione idrica offerta dai due corsi d’acqua: quello, assai noto, che scendeva dalla strata longa (in azzurro) e l’altro che, scorrendo da san Francesco, attraverso il giardino del convento, l’area su cui, tempo dopo, sarebbe sorta la Matrice nuova e l’attuale piazza, curvava verso la discesa non già per andare a prendere le sfince di san Giuseppe da Pinsino ma per attraversare la ruga dell’inchiancato, immettersi sotto la fontana Grande (in blu) o lambirla, e poi ancora giù, fino ad arrivare al grande giardino, nel quale si riuniva con l’altro corso d’acqua e da qui, dopo avere irrigato orti, insieme fino alla Fiumara dove, raccogliendo le acque provenienti dai Mulini di Dula, proseguivano verso il fiume Pollina, per sfociare, infine, nel Tirreno ‘finché il mar fu sopra lor richiuso’.

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