A rruttê Urrieri, il 18 aprile 1860 e la Fiera incantata

Dalla Strata longa si arriva alla Matrice nuova percorrendo la via che il popolo chiama a stratâ matrici e che dal 1882 si chiamò ufficialmente via Parrocchia. Cadendo il centenario della nascita di Giovanni Cucco (foto 1), benemerito medico che molto fece per la copertura e la bonifica del Burrone Fontanelle, per l’istituzione del Molino popolare a porta san Paolo (foto 2) e del sanatorio antitubercolare a Liccia (foto 3), il tratto di strada compreso fra piazza Parrocchia e via Garibaldi fu a lui dedicato. Accadde, però, che il rimanente tratto, fino alla Strata longa, si continuò a chiamare via Parrocchia, con evidente incongruenza.

 

foto 1 – Giovanni Cucco (1861-1920)

 

Nella stessa via, angolo via Garibaldi, nel 1853 era nato Luigi Failla Tedaldi, grande raccoglitore di coleotteri e lepidotteri, autore di diversi articoli scientifici e di un glossario entomologico.

foto 2  – La porta san Paolo nelle adiacenze della quale, alla fine dell’800, sorse il Molino popolare

 

foto 3 – Il convento degli agostiniani a Liccia che, dai primi del ‘900, ospitò la Colonia alpina Margherita per i bambini gracili e malaticci

 

Allievo di Francesco Minà Palumbo e co-fondatore della prestigiosa rivista Il Naturalista Siciliano, le sue ricchissime collezioni furono visitate e citate dai più celebri entomologi dell’epoca. Luigi Failla Tedaldi classificò molti insetti delle Madonie e per i suoi meriti molti insetti furono a lui dedicati. Per la sua frenetica attività di raccoglitore di farfalle (foto 4-5), il popolo finì col chiamarlo u farfarìeddru, soprannome che si estese a tutta la sua famiglia. Le sue collezioni entomologiche furono smembrate e una parte, confluita nella collezione di Lord Rothschild, si trova al British Museum di Londra. In occasione del 150° anniversario della nascita, il primo tratto di via Parrocchia è stato intitolato a Luigi Failla Tedaldi eliminando così la vecchia incongruenza “di una via Parrocchia che non conduce ad alcuna parrocchia”.

 

foto 4-5 – farfalle della collezione Luigi Failla Tedaldi custodite nel museo di zoologia dell’Università di Palermo

 

In questo modo, la via Giordano (foto 6), cancellata dalla toponomastica locale nel 1967 per essere intitolata a Luigi Failla Tedaldi, ha potuto riprendere la sua antica denominazione, com’era giusto che fosse, a perenne ricordo del sacerdote Lorenzo Giordano (1744-1804) che dedicò l’intera sua vita all’assistenza dei poveri e dei bisognosi, istituendo, fra l’altro, il Granaio del popolo, grazie al quale, in qualche modo, riusciva a soddisfare, si può veramente dire pp’amurû Signuri, i bisogni di quanti pativano la fame.

 

foto 6 – Il Palazzo Turrisi all’angolo fra corso Umberto e via Giordano

 

Nel punto in cui a stratâ matrici interseca la via Collotti anche l’occhio distratto vi scorge un particolare curioso. Sul muro della casa ad angolo è incastonato un viso di terracotta (foto 7). E’ strano, ma si tratta con ogni probabilità di una copia di uno dei tre bbabb’i lìtria (foto 8). L’accostamento è stato possibile allorché in una casa privata mi venne mostrata una statuetta, identica a quella di centro dei bbabb’i lìtria, che per lungo tempo fu ubicata in una nicchia nel muro esterno della stessa casa. Dunque, anche il misterioso volto di terracotta è una statuetta di quella serie che in origine si trovava in una nicchia, poi quasi completamente murata.

 

foto 7

 

foto 8

Non si saprà mai perché quelle tre statuette raffiguranti santi siano penetrate nell’immaginario collettivo come i bbabb’i lìtria. Da sempre a Castelbuono, volendo rimarcare la faccia da scemo di uno gli si dice: u sa ca assumigli ê bbabb’i lìtria. Successivamente, quando di fronte alla chiesa dell’Itria furono attivi i merciai Coco, che di soprannome facevano Patàcchiu, lo stesso modo di dire divenne: ma u sai ca nn’ai assai di chiddri nfacci i Patàcchiu. Ma di uno che ha tante fisime si dice anche: assai nn’avi nfacc’i Patàcchiu.

Dove la strada della Matrice si allarga sorgono, adiacenti alla sacrestia, le case che furono dei Galbo e dei Carabillò. Questi ultimi furono artigiani del bronzo e del rame e per questa specifica attività vennero detti i Quararara. I loro antenati avevano costruito diverse campane che squillavano nelle chiese di Castelbuono e dei paesi limitrofi. Erano abbastanza ricchi, avendo fatto fortuna con quel mestiere, e i castelbuonesi, sempre avvezzi all’ironia e qualche volta all’autoironia, quando le cose non vanno come invece dovrebbero, amaramente constatano: eh!, a furtunê Quararara!, intendendo dire che solo ai Quararara le cose giravano per il giusto verso.

Muru ccu mmuru con i Carabillò abitavano i Galbo il cui antenato Giovanni Galbo (foto 9) fu un valoroso garibaldino. Combatté con l’eroe dei due mondi a Palermo, a Messina, al Volturno divenendo forse il più celebre fra i castelbuonesi che parteciparono all’epopea dei Mille al punto che, da allora, i Galbo furono detti i Migliarara.

 

foto 9

 

Il commendatore Giuseppe Galbo (foto 10), figlio di Giovanni, era una persona assai conosciuta in paese, benché avesse insegnato a lungo a Melegnano.

 

foto 10 – Peppino Galbo, l’arciprete Francesco Cipolla, Alfredo Cucco e Ciccio Failla durante i festeggiamenti per il centenario dell’insurrezione antiborbonica

Totò u Spropòsitu, invece, era un pittoresco personaggio, anch’egli assai noto, che non di rado si faceva vedere in piazza sfoggiando un pigiama di raso rosso. Ci fu addirittura un periodo in cui il suo incedere era collegato in parallelo a quello di un porcello che conduceva al guinzaglio. Accadde che entrando nel famoso e fumoso “bar di Bonomo” col suo partner, il gestore, un altro personaggio di rilievo, gli sbarrò il passo e, indicato il suide, disse: il signore può entrare, quindi rivolto a Totò: il porco no.

Un giorno Totò, che non per niente era detto u Spropòsitu, incontrato Giuseppe Galbo lo fermò e gli disse: – Lei m’a llivari na curiusità: ma cu cci u fici commentaturi?

–          Antonio scherza, rispose un po’ sorpreso il commendatore.

–          No, no ca supra u sèriu stai parranni!!!, ribatté contrariato Totò.

Ritornando ai fatti risorgimentali, è noto che il capo degli insurrezionali a Castelbuono fu il barone Francesco Guerrieri Failla (foto 11).

foto 11 – Il barone Francesco Guerrieri Failla (1831-1900)

 

Il 18 aprile 1860 scrisse e affisse sui muri del paese il suo ormai celebre proclama ai castelbuonesi (foto 12) con il quale incitava alla rivolta antiborbonica. Quindi salito sul campanile della chiesa di sant’Antonio Abate, sopra il ponte, (foto 13) vi inalberò il tricolore e cominciò a suonare le campane a martello per richiamare i suoi concittadini che in breve riempirono la piazza, da quel giorno detta piazza del Popolo.

 

foto 12 – L’incipit del proclama ai castelbuonesi composto dal barone Guerrieri

 

foto 13 – La chiesa di sant’Antonio Abate sopra il ponte e il campanile dove, il 18 aprile 1860, sventolò il tricolore

Ricorrendo il centenario dell’insurrezione di Castelbuono (foto 14), per ricordare i fatti epici di quei giorni ormai lontani, lo slargo adiacente alla già demolita chiesa di sant’Antonio, cioè largo Mustafà, fu rinominato largo 18 aprile 1860 mentre la salita Parrocchia, su cui prospetta il palazzo dei Guerrieri (foto 15), fu intitolata al barone Francesco Guerrieri, poeta e patriota.

 

foto 14 – Corteo in occasione dei festeggiamenti per il centenario della rivolta antiborbonica, 24 aprile 1960

 

foto 15

I Guerrieri erano una famiglia di antica nobiltà. Antonio Guerrieri (1802-1871), padre del rivoluzionario barone, ironia della sorte, fu un funzionario borbonico ma anche un appassionato naturalista e probabilmente possedeva una consistente collezione di uccelli imbalsamati. E’ certo che di alcuni di questi esemplari, o forse di tutti, sono esistite delle belle tavole iconografiche, a quanto pare disegnate e colorate dal pittore castelbuonese Rosario Drago, delle quali parla Francesco Minà Palumbo nel suo Catalogo degli uccelli delle Madonie.

Alla fine del ‘700, a seguito di fatti mai bene chiariti, forse di usura, forse di lotte fra famiglie nobiliari o addirittura con il clero ostile ai Guerrieri, il padre di Antonio Guerrieri fu barbaramente ucciso, i figli costretti a fuggire e a rifugiarsi a Napoli e a Palermo, i beni immobili saccheggiati, i beni mobili distrutti, biancheria, gioielli e derrate rubati. Questa tragedia, rimasta scolpita nella memoria dei castelbuonesi, passò alla storia come a rruttê Urrieri e, fino a qualche decennio fa, a distanza di 300 anni, parlando di una grave sciagura o, semplicemente, di un furto subìto con la casa trovata a soqquadro si soleva dire: e cchi cc’è a rruttê Urrieri

Il sei gennaio, Epifania, alla fine della cerimonia del battesimo del bambinello, il parroco dal pulpito vannìa i festi di l’annu, cioè ricorda ai fedeli quali sono le feste comandate dell’anno appena iniziato. L’espressione si vanniari i festi di l’annu è penetrata nel parlato comune per dire che due, altercando, se ne sono dette di tutte i colori.

Vuole la leggenda che a Castelbuono, ogni sette anni, la notte dell’Epifania, a mezzanotte, si apre la montagna per mostrare una ricca fiera sfavillante di luci e di colori, popolata di gente che si aggira per le logge. E’ la Fiera incantata (foto 16). In bella mostra su un podio sta un maestoso gallo, simbolo dell’incanto. Chi, transitando per quella montagna la notte dell’Epifania si trovasse fra le logge della fiera, chiedendo di volere comprare il gallo, romperebbe l’incantesimo. A quel punto tutto si rischiara, si illumina di ricca luce, diventa un luccichio d’oro e l’ignaro avventore diventa proprietario di tanta ricchezza, dell’oro della Fiera incantata.

 

foto 16 “In una notte di luna, le montagne innevate delle Madonie che incoronano Castelbuono, il bosco e la zona climatica: l’oro della Fiera incantata….”

La sera dell’Epifania, tradizionalmente, comincia il carnevale. Un tempo, già appena fatto buio, si sentivano i mascarati, gente vestita in maschera, girare per le strade e chiedere: trrrr, cci nn’è ssùonu? Per tutto il periodo di carnevale si passavano le serate a furriari i rrarutti, a girare il paese alla ricerca di feste da ballo, di case in cui si tinìeva u sùonu. I mascarati salivano, facevano un paio di balli, quindi andavano a cercare altri posti. Succedeva che con il pretesto del ballo il mascarato approfittasse per stringere a sé la ragazza scelta (eh, mmascaratu!). Ma accadeva anche che il genitore navigato, capita la briscola, gli bussasse sulla spalla dicendogli, con terminologia mutuata dal gioco della scopa: asu e asu!, per dire: qui si balla tra maschi.

 

Il carnevale com’è noto culminava con il veglione e con la smància delle maschere, dapprima nel Teatro comunale (ma anche nelle case della borghesia), poi alle Fontanelle, quindi al cinema Astra. Infine in desolati capannoni. Quest’anno non si sa ancora dove. Il vostro stralunato narratore di storie, con il Gruppo 2001, ancora una volta cercherà di imbastire le storie dell’ultimo anno nella maniera che sapete. Per fare ciò deve momentaneamente accomiatarsi da voi, gentili ed attenti lettori, dandovi fin da ora appuntamento, su queste stesse pagine, a partire da metà febbraio. O forse prima.

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