La testa di turco della mamma è la più buona
In molti, o forse tutti, a Castelbuono (e anche fuori) ritengono che a testô turcu sia un dolce esclusivo del luogo. Siccome non siamo il centro del mondo e il mondo non ci guarda, è giusto fare un po’ di chiarezza su questo intricato aspetto della nostra cultura alimentare. Diciamo subito che, in ordine a specialità culinarie, non solo in Sicilia, è difficilissimo – se non addirittura impossibile – individuare piatti che siano esclusivi della cultura di una singola comunità. Alcune peculiarità gastronomiche siciliane, come lo stoccafisso alla messinese e il cuscus del trapanese, dimostrano che i piatti difficilmente sono tipici di una singola località quanto piuttosto di un’area geografica.
A testô turcu non sfugge a questa legge. L’usanza regionale di preparare questo dolce a carnevale, è chiaramente uno sfottò nei confronti dei turchi, ma sarebbe più giusto dire degli arabi, e lo stesso nome allude al fatto che i siciliani ne han fatto un sol boccone. Il termine testa di turcu è già attestato nei vocabolari ottocenteschi siciliani dove risulta che è un “dolce di carnevale formato da uno strato di cialde fritte o di pasta sfoglia intrise di crema di latte o di cioccolato”. Più precisamente il dolce è attestato a Frazzanò (Me), a Pollina, a Modica a San Mauro. Pitré nel 1889 riferisce che testa di turcu è una “grande crosta della medesima pasta dei cannoli, a forma di turbante, le cui ripiegature sono ripiene della medesima crema”. Più recentemente, nel 1981, Coria, nel volume Il libro della cucina siciliana riporta tre ricette per la testa di turcu. La prima è quella panregionale dove le sottili sfoglie rettangolari vengono fritte (in modo da fargli assumere forma curva) e sistemate in appositi piatti con crema di latte e cioccolato grattugiato. La seconda, tipica del siracusano, richiama la forma di grossi bigné senza crema. La terza variante, tipica del palermitano, è il dolce a base di crema e sfoglia fritta che si prepara anche a Castelbuono. Come si vede, la letteratura in materia e le attestazioni geografiche, danno l’idea di un dolce diffuso, almeno nei tempi passati e sia pure con diverse varianti, in buona parte dell’Isola, dove è abbastanza frequente la versione del piatto a base di sottili sfoglie intrise di crema di latte.
Poiché gli usi, le consuetudini e le tradizioni di una comunità si modificano nel tempo, diversi piatti di consolidato uso locale sono caduti in disuso o addirittura scomparsi. Per la nostra cucina si potrebbe citare u rruminuni, una minestra estiva a base di frumento molito in casa con un’apposita macina, cotto con verdure (spec. smuzzaturi) e condito con olio, salsa di pomodoro e una spolverata di ricotta salata ma soprattutto i panzarùotti che sono dei ravioloni ripieni di ricotta e zucchero oppure ricotta sale, pepe e prezzemolo e cotti al forno o ancora le briosce, vale a dire dei timballi fatti con un impasto di farina e sugna e farciti con ogni ben di Dio, dal ragù alla carne sfilacciata, al cacio fresco e cotti a ffùocu di sutta e ffùocu di supra in un tegame naturalmente unto di strutto e olio.
Così come sono scomparse queste bontà dalle nostre mense, in molti dei paesi siciliani in cui era attestata è andata esaurendosi la consuetudine di preparare la testa di turco. E se a Castelbuono questa tradizione è addirittura consolidata, non significa che si tratta di un piatto esclusivo di questo paese ma di un relitto gastronomico. Se poi si fissa l’attenzione sul nome, cosa avrebbero dovuto festeggiare i castelbuonesi se al tempo della cacciata degli arabi dalla Sicilia il paese non esisteva ancora?
Quindi cerchiamo di non fare ridere i siddriati con l’esclusiva e, lasciando la tronfiezza a qualche personaggio pubblico, diciamo senza abbandonare la serietà, che la testa di turco è un dolce regionale che da noi resiste benissimo e siamo rimasti fra i pochissimi che continuano a produrlo. Anche se, fatto pure per sant’Anna sta diventando insopportabile.
La grande variabilità della ricetta della testa di turco all’interno del territorio di Castelbuono ci rende consapevoli del fatto che non esiste LA ricetta dâ testô turcu. Esiste, più semplicemente, a testô turcu (i cui ingredienti imprescindibili sono a scòrcia, la crema, il limone, la cannella e il cioccolato), che ognuno poi arrangia a proprio piacimento. Fermo restando, che testê turcu comi a chiddra di ma mà un nni fa nuddru, come ogni castelbuonese si sente titolato ad affermare con più di una punta di orgoglio.
Sulla base di quanto detto, risulta impensabile fornire tutte le varianti del nostro dolce, al massimo si potrà accennare solo alle più comuni.
La preparazione della sfoglia (scòrcia) si effettua impastando un uovo sbattuto con tanta farina bianca (maiorca) quanta ne prende. Ora l’impasto si lavora fino ad ottenere un pastoncino sodo e liscio che viene tagliato a pezzettini e ciascuno si stende col matterello (sagnaturi) sul tavolo cosparso di farina, fino ad ottenere delle sfoglie sottili. Queste hanno forma circolare o rettangolare e bisogna praticarvi due o tre tagli longitudinali col coltello o con la rotella (spiruni). Le sfoglie, fritte in olio d’oliva bollente, si mettono a riposare su fogli di carta assorbente (tempo fa nnâ carta dû pani) perché rilascino l’olio della frittura. Qui c’è da segnalare che in alcune famiglie la scòrcia si estrae dalla padella ben dorata, in altre appena un po’. La scòrcia, che si prepara il giorno precedente affinché perda gran parte dell’olio di frittura, si dispone in larghi cesti di fibre vegetali (cannisci) e tenuta fuori dalla portata di grandi e piccini per evitare che le incessanti incursioni possano determinarne l’esaurimento ancora prima della preparazione del dolce, come d’altra parte è successo più di una volta in diverse famiglie, se non addirittura in tutte.
Secondo alcune ricette, la sfoglia si impasta solo con i tuorli, in altre è prevista l’aggiunta alla farina di una noce di strutto, oggi di burro, in altre ancora si dolcifica la scòrcia aggiungendo un po’ di zucchero. Lo spessore della scòrcia è estremamente variabile: alcuni la preferiscono spessa, altri sottilissima. Ma, si sa, de gustibus non disputandum est.
La preparazione della crema è senza dubbio l’operazione più delicata e controversa. Il latte utilizzato tradizionalmente è quello caprino o bovino. Non sono state attestate, ma certamente ci saranno, preparazioni della crema con latte pecorino, perché troppo grasso. A questo punto intervengono tre ingredienti che mettono tutti contro tutti: le uova, l’amido e lo zucchero. La crema, infatti, secondo alcune ricette deve essere rigorosamente bianca, cioè senza aggiunta di uova, secondo altre deve essere gialla, cioè con i tuorli. E in quest’ultimo caso il numero varia da due a quattro per ogni litro di latte. Tenendo conto che nei numerosi ricettari di famiglie aristocratiche risulta che la crema è sempre gialla, sembra di potere dedurre che, almeno tradizionalmente, la crema fosse gialla presso le famiglie più benestanti e bianca presso quelle di contadini e di pastori.
Per quanto riguarda l’amido e lo zucchero, responsabile unico della confusione che si è venuta a creare è l’introduzione del sistema metrico decimale su tutto il territorio nazionale all’indomani dell’Unità d’Italia.
Cosa c’entri a testô turcu col sistema metrico decimale è presto detto. Fatta l’Italia, si sa, bisognava fare gli italiani unificando linguaggi e convenzioni e quindi estendendo il sistema metrico decimale a tutto il Regno d’Italia e abolendo le vecchie unità di misura locali. Le unità di misura dei pesi più ricorrenti erano il cantaro (cantaru), il rotolo (rrùotulu), l’oncia (unza). Un cantaru era formato da cento rrùotuli e un rrùotulu da dodici unzi. Poiché un cantaru equivale a 79,34 chilogrammi, un’unza equivale a 66,12 grammi. La dimostrazione del pandemonio pratico creato dalle nuove unità di misura ce la fornisce il noto modo di dire: unu è un cantaru e ll’atru cìentu chila che significa: i due si equivalgono. Ma ciò è chiaramente falso, essendo stata operata una grossolana approssimazione del cantaru (79,34 kg) al quintale. Un po’ quello che è successo con l’euro che, di fatto, equivale alle vecchie mille lire. Una approssimazione ancora più grossolana si è operata passando dall’unza all’ettogrammo. Il risultato è che in molti casi la vecchia ricetta, nella quale gli ingredienti previsti erano un’unza (66,12 g) di amido e quattro unzi (265 g) di zucchero per ogni litro di latte, è stata stravolta portando l’amido a 100 g e lo zucchero a 400 g. Di conseguenza, la crema risulta molto meno morbida e più stucchevole. Va da sé che molti preferiscono una crema assai consistente a quella più fluida.
A parte le differenze sul dosaggio dell’amido, ne esistono anche altre di non trascurabile importanza. Gli aromi, generalmente, si aggiungono quando il latte è ancora freddo. Le scorze di limone vanno tagliate a spirale in maniera da escludere l’albedo (u bbiancu) che conferirebbe un sapore amarognolo alla crema. Oggi, in molti casi, si preferisce aromatizzare la crema, grattugiandovi la parte più esterna della scorza di almeno due o tre limoni, ma chi procede così non saprà mai “che sapore ha il sapore” della crema leccata facendo scorrere la buccia del limone fra la lingua e il labbro alla fine della cottura. Altra differenza tranciante è il modo di aggiungere a canneddra. Mentre oggi si utilizza quella in polvere che francamente è di odore men che neutro, un tempo era di uso esclusivo la cannella intera in bastoncini (cannola). Nelle case si intavolavano delle vere e proprie sfide fra i più golosi per aggiudicarsi, alla fine della cottura, i cannola dâ canneddra che venivano doviziosamente leccati e succhiati per ripulirli della crema fortemente aromatizzata di cui erano intrisi.
A parte le dosi di amido, chi determina la consistenza della crema è il suo grado di cottura. Il latte deve essere continuamente girato perché la crema non si rapprenda in grumi e il giusto livello di cottura si raggiuge quando un po’ di crema, versato su una superficie posta in lieve pendio, a causa della sua viscosità, scivolando percorre solo un brevissimo tratto. In un vecchio ricettario si legge che “per la giusta densità basta immergere nella crema un fuscello di paglia, se questo non accenna a cadere si toglie la casseruola dal fuoco”.
A questo punto, in un grande piatto rotondo di terracotta (fangùottu), e mai di plastica, vergogna!, partendo da uno straterello di crema al fondo, si alternano vari strati di scòrcia e di crema (e non due soltanto!!!), stando bene attenti che l’ultimo strato di crema copra abbondantemente la scòrcia sottostante. In alcune varianti l’ultimo strato di crema è tenue perché in parte emerga anche la scòrcia. A rigor di termini, più spessa è la scòrcia e più abbondante deve essere ogni singolo strato di crema. A operazione ultimata, il fondo e le pareti del tegame rimanevano impregnate di crema, anche questa appannaggio dei più golosi della famiglia che lestamente la facevano propria, asportandola con l’indice che leccavano con vera goduria.
Secondo le ricette più antiche, il dolce veniva ricoperto con cioccolato grattugiato o tagliato a scaglie, zucchina candita (cucuzzata) anch’essa tagliata a pezzettini ed eventualmente cannella finemente triturata col pestello nel mortaio. Oggi, si utilizzano, insieme o separatamente, cacao, cannella in polvere e cioccolato a scaglie o grattugiato. Qualcuno suole anche aromatizzare il dolce con un po’ di liquore, specialmente maraschino. Talvolta è capitato di vedere versioni free prima ancora che assai improbabili della testô turcu con la copertura a base di diavulicchi o guarnita con motivi romboidali fatti con la crema di cioccolato e impreziositi all’interno di ciascuno di essi con una ciliegina candita.
Come si vede, nella preparazione dâ testô turcu la fantasia e la variabilità, a volte anche fortemente discutibili, si sprecano ma se a un qualsiasi castelbuonese si offre una razione di testê turcu, qualunque sia la sua qualità, la risposta sarà sempre la stessa: se, bbona è, ma mai-mai com’a cchiddra cchi ffa ma mà.