Ai primi del secolo a Castelbuono. Casalinga, in quel tempo: … che passione

Casalinga, in quel tempo: … che passione
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 1 marzo 1989]

In quei giorni, ai primi del secolo, a Castelbuono, non fiorivano, purtroppo, le fresche dorate mimose …

Non si discuteva ancora sulla parità dei diritti (… e dei doveri?) fra uomini e donne … non era stato lanciato e diffuso il vocabolo «unisex» …

Le donne non vestivano i calzoni, lasciandone la prerogativa agli uomini, ma la fadetta (gonnella), lunga fino alle caviglie; e gli uomini vigilavano molto attentamente per non farsela appioppare…

Tranne qualche rarissima eccezione le donne erano tutte casalinghe, fìmmin’i casa, arritirati

Non erano, insomma, di moda certi aspetti di arti, mestieri e professioni al femminile… e, forse, chissà!, anche altre mode…

Essendo andate a letto, la sera, abbastanza presto, sia per risparmiare il petrolio del lume, sia perché abbastanza stanche, la mattina, alle prime luci dell’alba, ô patrinnùostru, erano già a terra e, in quanto molto timorate di Dio, cominciavano la giornata recandosi alla prima Messa, quella detta appunto del «Padre nostro», che allora veniva officiata in una ventina di chiese, (erano circa duecento i sacerdoti in paese al principio del secolo!). Questa prima uscita e l’occasionale incontro con altre donne del quartiere serviva pure come scambio del «gazzettino del mattino»: era il primo notiziario, il primo giornale. Santificato così l’inizio, si addentravano nel loro quotidiano lavoro. C’erano da sbrigare in quell’epoca molte delle faccende di ordinaria amministrazione che vediamo ancor oggi, ma c’erano anche delle fatiche che oggi non ci sono più.

Secondo i casi si cominciava con cèrniri (setacciare) e annittari (vagliare) il frumento, tenendolo pronto per mandarlo al mulino, ovvero ci si metteva ad impastare il pane nella maidda (madia), oppure si provvedeva al bucato della settimana.

Sembrerebbe una cosa molto semplice, oggi, setacciare il frumento per togliere la polvere del terreno dell’aia, ma occorreva tanta forza di braccia… E poi pulire il frumento dalla luta (minuscole pietruzze e corpi estranei) e dai semi delle erbe selvatiche infestanti, particolarmente anitu (Pastinaca anethum L., critamo) cuculiddri (Ervum ervilia L., cocula) e veccia (Vicia sicula Guss.), (Vicia sativa vulgaris L.), richiedeva una buona caratura di vista e di…pazienza. Quando il frumento era ben nettato partiva sulla bestia per il mulino; ma, al ritorno, per la fretta del marito che doveva recarsi al lavoro, poiché i sacchi non osavano salire da soli fino in cucina, all’ultimo piano, occorreva, allora, s’intende, la casalinga che doveva fungere in definitiva anche da ultima trasportatrice…

Siccome la farina si doveva separare dalla crusca, si sentiva, quindi , il cadenzato «tric­trac» dell’altro apposito setaccio sulla scaliddra (scaletta) poggiata sulla madia, mentre i capelli, per niente adusi alla «messa in piega», venivano protetti dalla polvere della farina, alla meglio, con un ampio fazzolettone.

Preparare il pane: anche questo sembrerebbe semplice… Fatto il segno della Croce, la massaia creava nella madia un piccolo cratere di farina, vi versava poco alla volta l’acqua e si metteva quindi a frasculiari (granulare) bene la farina mescolando con il lievito ed il sale, aggiungendovi a più riprese la rimanente farina. Occorreva poi pugnare con tanta energia, vigoria e forza, e, alla fine, con le mani unte d’olio, si dovevano approntare le famose guasteddri, grosse pagnotte rotonde, che venivano sistemate in un «letto», fra tovaglie e coperte, sopra u catarrattu, caratteristico soppalco-ripostiglio, immancabile su ogni scala di accesso in cucina. Mentre cominciava la lievitazione, la massaia riponeva un po’ di pasta nella criscintera (vaso di terracotta smaltato), da servire per la prossima volta, e ricopriva la pasta con un leggero velo d’olio. Ma, frattanto, si doveva provvedere a salire dalla stalla a pianterreno anche la legna per riscaldare il forno: appiccicugli e frasca (fuscelli), e ligna grùossi, ed anche a questo chi provvedeva? Eh!. Già!,… s’era compreso … sempre la solita immancabile massaia …

Eppoi per àrdiri (ardere) il forno era necessario una tecnica speciale in quanto a massara cerni e mpasta, ma u furnu conza e guasta. Ed al punto giusto si doveva tirar fuori subito, alla svelta, con rastrello e pala di ferro, la brace. Bisognava metterla in un astutafùocu (spegnibrace), che serviva per trasformarla in carbonella, provvidenziale d’inverno per la cunculina (braciere); bisognava scupuliari (scopare) per benino il piano del forno ed infine infornare… aspettando che calassi a rosa (che le forme incominciassero ad indorare con rosei riflessi). Mah!… Intanto sul viso della massaia a rosa era già calata… senza alcun supporto di «maschera idratante!»…

Al momento dell’esatta cottura la massaia, per una settimana, poteva ben dirsi soddisfatta perché era riuscita a riempire con profumatissime guasteddri di pane fragrante la solita carteddra (cesta). Ma… e quando non c’era la panificazione? Si doveva pensare al bucato!… Anche questo costituiva un bel divertimento. Dopo aver fatto provvista di acqua, molta acqua, a volte recandosi personalmente ô canali, la fontanella più vicina, (a Castelbuono, l’erogazione idrica arrivò in casa solamente verso gli anni quaranta), la casalinga cominciava a stricari (strofinare) con il molle sapone color miele, capo per capo, la biancheria nella benemerita pila di legno, che, generalmente, era piazzata nella stalla e serviva pure, saltuariamente, per la pulizia del… corpo. Si passava quindi alla liscìa (rannata). Si mettevano i capi distesi uno per uno dentro u cufinu, un grandissimo cestone tessuto con verga di salice (Salix vitellina L.) e canne spaccate a listerelle sottili. Tutta la biancheria veniva ricoperta da un largo panno bianco che, a sua volta, era ricoperto da un cinniraturi di tela grossolana e ruvida, sul quale si stendeva uno strato consistente di cenere nuova. Il cestone della biancheria poggiava sopra u sculaturi (scolatoio) di zinco, che era sistemato sopra un piano rialzato. Ed iniziava un’altra parte della fatica: si doveva bollire nuova acqua pulita dentro il quadarunìeddru della tannura a vapuri e bisognava badare al fuoco. Giunta l’acqua ad ebollizione vi si scioglieva un pizzico di lisciuni (miscela di carbonato sodico e potassico) e quest’acqua lisciata (ranno) versata a più riprese sulla cenere, sul cinniraturi, cominciava a scolare lentamente impregnando la biancheria e raccogliendosi nello scolatoio che se ne liberava, attraverso un unico beccuccio, in una vaschetta sottostante. Spesso quest’operazione veniva completata dall’azzulata (immersione della biancheria nell’acqua dove era stato sciolto un pizzico di indaco). Infine si terminava passando a sguazzari (risciacquare), capo per capo, nella pila e sembra che non fosse agevole venirne fuori tanto presto da quel sapone, dalla saponata e dalla lisciata.

I capi erano così pronti per essere stinnuti (sciorinati) ntô curdinu! È bene ricordare, a proposito, però, che in caso di lutto la biancheria veniva stesa appena faceva buio e ritirata all’alba, oppure sciorinata all’alba e veniva ritirata con il buio… e ciò durava, in media un biennio, se frattanto non interveniva … altro lutto. Era considerata mancanza di rispetto al defunto, infatti, mostrarsi di giorno, anche se il motivo era un momento del lavoro di casa.

E quando, finalmente, la biancheria era stirata con il ferro a carbone (ed anche qui non era cosa da poco) la massaia poteva ben dire di aver sudato le sette fatidiche camicie.

..CONTINUA

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