Ascesa e caduta del vecchio Teatro comunale di Castelbuono

Ascesa e caduta del vecchio Teatro comunale di Castelbuono

 

La mancanza, ormai da tempo, di uno spazio scenico adeguato e congruo alla plurisecolare tradizione teatrale di Castelbuono pone ciclicamente e sempre più drammaticamente il problema del reperimento di un sito per la rappresentazione di pièces teatrali, specialmente di quelle satiriche che si mettono in scena a carnevale.

Sembrerà paradossale, ma anche se dal 1984 manca un luogo altamente idoneo per la rappresentazione delle maschere, la tradizione della smancia, che incarna mirabilmente lo spirito dei castelbuonesi, anziché affievolirsi, fino a spegnersi, ha invece ripreso vigore nonostante, nel corso di questi lunghi anni, ci si sia dovuti adattare, di volta in volta, a locali di fortuna. Ciò grazie alla tenacia dei gruppi mascherati (che oggi, in virtù di un linguaggio in via di imbarbarimento, vengono chiamati di satira locale, come se fossero formaggi, vini o salumi prodotti in loco) che, seguendo il solco profondo tracciato dai gruppi più anziani, sono riusciti a perpetuare questa significativa e per certi versi singolare forma d’arte.

I più giovani e intraprendenti componenti dei gruppi di oggi, ai quali l’intelligenza stimola la curiosità, chiedono con sempre maggiore interesse delle maschere di una volta e del Cine-Teatro Le Fontanelle, così come i giovani degli anni ’60 e ’70 andarono alla ricerca di notizie sulle maschere e sui veglioni tenutisi nel vecchio Teatro Comunale (foto 1). In particolare, molti e per molto tempo, non hanno smesso di cercare fotografie del suo interno che fino ad oggi non sono state rintracciate anche se, di recente, si è saputo che queste foto – scattate prima della demolizione del Teatro nel 1953 – esistono. Il problema, non proprio di facile risoluzione, è quello di convincere il proprietario a metterle a disposizione.

 

foto 1. A sinistra una parte del prospetto est del vecchio Teatro

foto 1. A sinistra una parte del prospetto est del vecchio Teatro

 

Intanto sono stati rintracciati dei documenti di altro tipo che, composti con ciò che è stato raccolto oralmente, permettono una ricostruzione del Teatro Comunale e della sua storia, non certamente fedele ma neppure vaga (foto 2). Il frutto di queste ricerche è stato pubblicato sul sito web del Gruppo 2001 (www.gruppo2001.it) e il nucleo di esse, arricchito di nuovi particolari, viene qui offerto agli attenti ed esigenti lettori di CastelbuonoStorie.

 

foto 2. Pianta e alzata del vecchio Teatro. In questo rilievo, realizzato prima della demolizione, stranamente, non viene contemplata la parte destinata ai camerini.

foto 2. Pianta e alzata del vecchio Teatro. In questo rilievo, realizzato prima della demolizione, stranamente, non viene contemplata la parte destinata ai camerini.

 

Sulla base di quanto recentemente pubblicato da Orazio Cancila, emerge che già alla fine del ‘500 a Castelbuono, accanto al teatro colto, promosso dall’Accademia dei Curiosi, esistevano forme di teatro popolare. Infatti nel 1596 fu ingaggiato “l’attore napoletano Decio Della Rursana, ut dicitur in comedia et in banco di trastullo, ossia perché recitasse come attore in teatro sino al primo giorno della successiva quaresima, quindi per tutta l’estate, l’autunno e l’intero periodo di Carnevale”. Non è azzardato ipotizzare, perciò, che nelle recite carnevalesche di allora si possono rintracciare le forme primigenie dell’attuale maschera che si mette in scena a carnevale. Il carattere laico di queste rappresentazioni teatrali e la loro periodicità quasi regolare, portano il professore Cancila a ritenere che le stesse non si “tenessero all’interno delle chiese, tanto più che gli spettacoli non erano occasionali ma si prolungavano per un’intera stagione, periodo di Carnevale compreso”. Tutto ciò fa pensare, conclude Cancila, “all’esistenza di un locale adibito a teatro, anche se nella documentazione di esso non c’è alcuna traccia”.

 

Un “locale adibito a teatro”, soprattutto per la frequenza delle rappresentazioni, è difficile immaginarlo non solo all’interno di una chiesa ma anche ubicato all’interno di qualche casa patrizia dell’epoca o all’interno dello stesso Castello. Se si tiene conto che il vecchio Teatro Comunale sorse sull’area occupata dalla chiesa di san Filippo, sostanzialmente la trecentesca Cappella di Corte dei Ventimiglia, e che questa a un certo punto fu sconsacrata e trasformata in scuderia, appare possibile che nel corso del ‘500, essendosi reso necessario dotarsi di un adeguato spazio scenico per il soddisfacimento delle crescenti esigenze culturali, quella vetusta chiesa abbia potuto subire un ulteriore cambiamento di destinazione d’uso e adibita dai Ventimiglia, sia pure in via provvisoria, a teatro. La completa trasformazione in un vero e proprio teatro sarebbe avvenuta solo più tardi.

La data della sua costruzione è abbastanza incerta, talvolta si parla dei primi decenni del ‘600 talaltra dei primi anni del ‘700. In un documento del 1869 si legge che “in origine il Teatro fu formato dal Conte Marchese dei Geraci” e che l’anno di fondazione “si sconosce perché rimonta ad epoca immemorabile”. Ma ciò non chiarisce granché anche se farebbe propendere più per l’ipotesi seicentesca. In questa sede, però, non importa precisare né l’esatta datazione del Teatro né come e quando la proprietà passò dai Ventimiglia al Comune di Castelbuono.

 

Cerchiamo, piuttosto, sulla base delle fonti scritte e dei pochi documenti iconografici pervenutici, di farci un’idea di come doveva essere.

 

Il vecchio Teatro comunale, che aveva una pianta non perfettamente rettangolare (foto 3) a causa della sporgenza del corpo fabbrica destinato ai camerini, si estendeva per 30 metri in lunghezza e per 10 metri in profondità (precisamente 10 metri in corrispondenza del foyer e della platea e 16 metri in corrispondenza del palcoscenico). Il suo prospetto si elevava metri sul piano della strada, risultando, quindi, decisamente più basso di quello dell’attuale edificio (foto 4). L’ingresso, non certo sontuoso, era confinato nell’angolo del cortiletto adiacente all’arco sant’Anna.

 

foto 3. La pianta del vecchio Teatro in un rilievo del 1940 (Gent. conc. Arch. Pierlucio Raimondi)

foto 3. La pianta del vecchio Teatro in un rilievo del 1940 (Gent. conc. Arch. Pierlucio Raimondi)

Con la commissione toponomastica nominata dal sindaco Ciolino si pensò, per questo, di rinominarlo Cortile del Teatro ma i successivi amministratori che saccheggiarono a proprio piacimento quel lavoro si guardarono bene dal seguire quell’indicazione, d’altra parte Cortile del Teatro, a differenza di altre intitolazioni, non avrebbe permesso loro di procacciarsi alcun voto.

 

foto 4. Queste due foto rendono l'idea di come il volume del vecchio Teatro comunale non interferisse con il prospetto del Castello

foto 4. Queste due foto rendono l’idea di come il volume del vecchio Teatro comunale non interferisse con il prospetto del Castello

Tre scalini esterni (foto 5) permettevano di colmare il dislivello di quote fra il piano del cortile e quello del foyer. Questo era, più che altro, un androne di estensione sproporzionata, soprattutto se confrontato con la platea la quale, a conti fatti, aveva una superficie non superiore a 70 m2 e una capienza di circa 80 posti a sedere (in qualche documento si parla di 106 posti (foto 6)) distribuiti su due file di poltrone separate da un corridoio centrale.

 

foto 5. Il cortiletto e, in fondo, l'angusta entrata del vecchio Teatro

foto 5. Il cortiletto e, in fondo, l’angusta entrata del vecchio Teatro

 

foto 6. Pianta dei palchi e della platea in un disegno del 1853 dove i posti a sedere in platea sono stimati in numero di 106.

foto 6. Pianta dei palchi e della platea in un disegno del 1853 dove i posti a sedere in platea sono stimati in numero di 106.

 

Tutt’attorno alla platea si sviluppavano tre ordini di palchi, di colore avorio e guarniti con velluto rosso pompeiano. I palchi del primo ordine erano 12, quelli del secondo e del terzo ordine (i cosiddetti palummara) erano 13 e 11 rispettivamente (foto 7). Il palco di centro del primo ordine, ovviamente, era di proprietà dei Ventimiglia e, alla fine dell’Ottocento, fu acquistato dal Barone Guerrieri. I quattro palchi di proscenio furono aggiunti nel corso dei lavori di restauro del 1853. Risulta da documenti d’archivio che in occasione di questi lavori la pittura dei palchi fu affidata al castelbuonese Rosario Drago, valente artista del pennello, autore, fra l’altro, di alcune belle tavole di uccelli entrate a far parte dell’Iconografia della Storia Naturale delle Madonie di Francesco Minà Palumbo.

 

foto 7. La pianta dei tre ordini di palchi del vecchio Teatro in un disegno del 1862.

foto 7. La pianta dei tre ordini di palchi del vecchio Teatro in un disegno del 1862.

Ai palchi si accedeva dai corridoi e dalle scale che si dipartivano dal foyer con l’eccezione di quelli di proscenio del primo ordine ai quali si accedeva dalle adiacenze del palcoscenico. I palchi del primo ordine avevano una sola uscita di sicurezza su Piazza Castello, attraverso una porta adiacente agli archi del terrazzino di casa Spoleti (foto 8), mentre quelli del secondo ordine avevano una uscita di sicurezza dalla parte del quartiere Salvatore e una su Piazza Castello, entrambe attraverso scale esterne (foto 9). Complessivamente i palchi avevano una capienza di non più di duecento spettatori per cui il Teatro ne poteva contenere al massimo trecento. Succedeva spesso, quindi, specialmente durante gli spettacoli più partecipati, e fra questi il Veglione di Carnevale, che molta gente rimanesse fuori. I castelbuonesi, sempre smanciusi, canzonavano in questo modo chi non riusciva ad assicurarsi un posto in sala: Parasaccu, Bbacìccia e Palluni si nni ìeru ô vigliuni a ttaliari u purtuni, dove Parasaccu, Baciccia e Palluni erano tre personaggi tipici dell’epoca. Puppinu Parasaccu, in particolare, perennemente sbronzo, lo si poteva trovare puntualmente riverso su qualche marciapiede.

 

foto 8. Particolare del prospetto est del vecchio Teatro Comunale con le uscite di sicurezza. In basso quella della sala e la scala esterna per il deflusso dai palchi del secondo ordine.

foto 8. Particolare del prospetto est del vecchio Teatro Comunale con le uscite di sicurezza. In basso quella della sala e la scala esterna per il deflusso dai palchi del secondo ordine.

 

foto 9. Le scale e le uscite di sicurezza del vecchio Teatro (Gent. conc. Arch. Pierlucio Raimondi)

foto 9. Le scale e le uscite di sicurezza del vecchio Teatro (Gent. conc. Arch. Pierlucio Raimondi)

 

Dal centro della volta, su cui era dipinto lo stemma araldico dei Ventimiglia, pendeva un grande lampadario a candelabro, la cosiddetta ninfa del teatro, con illuminazione a candele steariche. In un documento del giugno 1878 si legge che il sindaco Mario Levante e i membri della Deputazione del teatro comunale (chissà, forse gli antesignani della Commissione Pubblici Spettacoli recentemente uscita, se non dal cilindro, dalla crapa del sindaco Tumminello o di chi per lui), si sono riuniti “onde discutere sulla convenienza, o non, di togliersi la ninfa esistente affissa al centro della volta di questo Teatro”. Poiché “sul riflesso che detta ninfa anziché servire di ornamento al teatro medesimo, ne scema l’apprezzo, ed è stato causa, per come in atto è, di continuati rancori, mentre impedisce la visuale ai palchi di mezzo, e rende inappigionabili più che sei posti dei migliori nella platea” e tenuto anche conto del fatto che “oggigiorno la illuminazione a gas olio riesce in miglior modo di quella dei ceri sinora eseguita, apprestando maggior luce”, si decise di eliminare la ninfa e di sostituirla con tanti lumi a petrolio che vennero sistemati a mo’ di appliques sulle pareti, nei pressi dei palchi. Naturalmente la ninfa fu venduta. Gli stessi lumi a petrolio, poi, non ebbero vita lunghissima perché nel 1928 furono rimpiazzati con lampade elettriche.

 

foto 10 Storica fotografia scattata sul palcoscenico del vecchio Teatro nel corso dell_ultimo veglione che vi si tenne, nel 1948 ritrae i membri del Gruppo X.

foto 10. Storica fotografia scattata sul palcoscenico del vecchio Teatro nel corso dell_ultimo veglione che vi si tenne, nel 1948 ritrae i membri del Gruppo X.

 

Il palcoscenico (foto 10 e 11), che si raggiungeva dalla sala, sorgeva a ridosso del prospetto nord, cioè dalla parte del Castello, si sviluppava per tutta la larghezza dell’edificio ed era profondo 8 metri circa. Il lato ovest del palcoscenico metteva in comunicazione con i camerini e, quello opposto, nella zona occlusa dai palchi di proscenio, era stato ricavato un magazzino adibito a retropalco con una porta di servizio che sboccava sulla gradinata del Castello. Fra la ribalta e la platea era situato il “palco della musica”.

 

foto 11. Altra fotografia scattta sul palco del vecchio teatro nel 1943  in occasione di uno spettacolo teatrale (Archivio Le Madonie)

foto 11. Altra fotografia scattta sul palco del vecchio teatro nel 1943 in occasione di uno spettacolo teatrale (Archivio Le Madonie)

 

La copertura (foto 12) era costituita da un tetto a due spioventi in corrispondenza della sala e del palcoscenico e da un tetto a una falda, pendente da est verso ovest, in corrispondenza del foyer.

 

foto 12. La copertura a una e a due falde del vecchio Teatro

foto 12. La copertura a una e a due falde del vecchio Teatro

 

All’interno del teatro vigeva il seguente regolamento al quale tutti dovevano attenersi scrupolosamente:

 

  1. Tutti coloro che si porteranno a teatro devono usare la massima decenza e non si ammetteranno persone senza vestire un soprabito qualunque.
  2. E’ vietato a chicchesia di entrare con cani o con fuoco o di fumare sigari sì nella platea che nei palchi e corridoi
  3. Ognuno dovrà essere vestito decentemente secondo la sua condizione, restando proibito assolutamente di coprirsi il capo con berretta
  4. All’alzarsi del sipario ciascuno dovrà sedere al proprio posto, dovrà scoprirsi il capo, e così rimanere durante l’azione;
  5. E’ proibito di fermarsi in piedi all’ingresso della platea o nel corridoio intermedio della medesima. Nessuno potrà trattenersi nei corridoi delli palchi, i quali devono stare sgombri per dare libero il passaggio a coloro che devono entrare nei medesimi;
  6. Sono proibiti in platea i bastoni di qualunque sorta
  7. E’ vietato agli spettatori lo strepitare, l’interrompere qualunque parte della rappresentazione o turbare in qualsivoglia altra maniera l’Ordine Pubblico
  8.  i contravventori a tali ordinative saranno assoggettati alle pene di polizia, cioè: detenzione, mandato, ammenda.

Se i documenti ci aiutano in parte a ricostruire la forma e la struttura del teatro, nulla ci dicono invece dei Veglioni di Carnevale e delle maschere di quell’epoca. Il Veglione di inizio Novecento, scrive Alfredo La Grua nel suo Polittico castelbuonese, era un gran ballo in maschera nella platea del Teatro comunale, riservato per così dire ai civili, alla élite castelbuonese in cui si faceva sfoggio di eleganti costumi d’epoca (foto 13).

foto 13. Esponenti di famiglie aristocratiche castelbuonesi in costume in occasione di un Veglione di Carnevale

foto 13. Esponenti di famiglie aristocratiche castelbuonesi in costume in occasione di un Veglione di Carnevale

 

Ma accanto ai balli c’erano anche le rappresentazioni satiriche, messe in scena dai vari gruppi. Le maschere di allora erano assai diverse da quelle che siamo abituati a vedere oggi. Queste hanno cominciato a fare capolino soltanto nel secondo dopoguerra. Allora la maschera era a base di poco testo e molta musica, coreografie e soprattutto scenografie allegoriche. La maschera, fino agli anni ’30 fu dominata dalla presenza nei gruppi mascherati di numerosi artigiani molti dei quali erano maestri nella realizzazione di enormi mascheroni di cartapesta (foto 14) “con le fattezze in caricatura di taluni personaggi pubblici (ma anche l’indiano, il negro, il cinese) o con grottesche forme allegoriche di animali (la scimmia, u sceccu, la giraffa, la mucca)”.

 

foto 14. Esempio di realizzazione di mascheroni di cartapesta. Qui in occasione di un carro allegorico realizzato per la festa delle ciliege 1953

foto 14. Esempio di realizzazione di mascheroni di cartapesta. Qui in occasione di un carro allegorico realizzato per la festa delle ciliege 1953

 

Una volta, negli anni ’20, fu realizzata una enorme gallina in cartapesta che andava deponendo le uova in ognuno dei quali era contenuta una parodia. Questo soggetto fu poi ripreso a metà degli anni ’50. Un’altra volta fu realizzata una enorme mano che stringeva tanti piccoli esseri umani che simboleggiava la Giuria che stritolava i gruppi mascherati. In uno degli ultimi veglioni nel vecchio Teatro comunale fu messa in scena la leggenda della fiera incantata con tutte le montagne che sovrastano Castelbuono montate fra il palco e la platea che si aprivano, come accade, secondo la leggenda, la sera dell’Epifania. Come si vede, in quelle maschere, l’importanza della cartapesta equivale a quella delle battute, della rima e della metrica di oggi.

 

Nei primi mesi del 1949, il Teatro comunale (che dal 1923 era diventato anche cinema), nonostante il massiccio intervento di ristrutturazione del 1935, venne momentaneamente chiuso per apportarvi i necessari miglioramenti strutturali. Accadde, invece, che quel Teatro, vecchiotto sì ma pur sempre un gioiellino, fu ignominiosamente cancellato dalla faccia della terra. Erano appena entrati gli anni ’50 accompagnati da un modernismo che in breve tempo, con la forza devastante di un fiume in piena, assieme al Teatro, avrebbe trascinato con sé, la Porta san Paolo, la Strata longa, la Porta degli Angeli, il Municipio, il terrazzo della Nebrodese, la vecchia area castellana, la chiesa di sant’Antonio abate Sopra il ponte e una infinità di altre cose ancora.

Iscriviti per seguire i commenti
Notificami

2 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments
2
0
Cosa ne pensi? Commenta!x