Briciole di tradizioni castelbuonesi scomparse | Anticamente: Quaresima e Settimana Santa (parte 2)
BRICIOLE DI TRADIZIONI CASTELBUONESI SCOMPARSE
ANTICAMENTE: QUARESIMA E SETTIMANA SANTA…
di Giuseppe De Luca
[pubblicato su Le Madonie 15 marzo 1988]
[Parte 1 disponibile a questo link]
Giovedì Santo, in una Madrice poco affollata, l’indimenticato Padre Arciprete Monsignor Francesco Cipolla provvedeva alla «lavanda dei piedi» a dodici papai (dodici apostoli). Si chiamavano così i confrati della Compagnia del Signore a causa della lunga ed ampia cappa bianca che, ad eccezione dei due occhi, li nascondeva coprendoli da capo a piedi.
Dopo avveniva la processione, con la quale il Santissimo, sotto un particolare ombrellone che si trovava a sua volta sotto un vasto baldacchino, retti entrambi dai papai, andava riposto in apposito tabernacolo nella navata del Sacramento. Il tabernacolo si chiudeva a chiave: era il «Sepolcro»: la chiave, legata ad un largo nastro ricamato, veniva appesa al collo dell’Arciprete, che doveva custodirla fino alla Resurrezione. Parecchi sacerdoti presenti, che avevano eseguito la stessa funzione nella loro chiese, in mattinata, ora ostentavano la chiave, pure loro, al collo.
Da questo momento tutte le campane del paese tacevano: le corde erano legate. Non si effettuava più la Comunione. Per comprendere meglio il silenzio delle campane bisogna ricordare che allora era un continuo scampanio: si cominciava al «Padre Nostro» (ore 4): era la sveglia dei contadini, che al buio partivano per il lavoro; seguivano le campane di tante chiese (sembra che dopo la soppressione dei Beni Ecclesiastici si contassero a Castelbuono oltre duecento sacerdoti), per la chiamata dei fedeli alla Santa Messa; poi c’era il «tocco» (rintocco) delle 8 per le scolaresche; si proseguiva con il «Santo» alle 11. A mezzogiorno scampanio a lungo; c’erano poi vint’uri e menza (ore 14); vintidu uri (ore 15); vintitrì uri (ore 16); vespru (ore 17), e si arrivava all’Ave Maria, che già imbruniva. A «due ore di notte» altri rintocchi, che tutti i giovedì erano più solenni (ricordavano, particolarmente in questo giorno, l’istituzione dell’Eucaristia e le donne correvano ad esporre il lume alla finestra perché passava u Signuri) ed, infine, il «tocco della mezzanotte»: solamente allora era silenzio. Ma c’erano anche gli straordinari: incendi, funerali, gloria (per i neonati e i sacerdoti defunti), preghiere contro il «vento forte», invocazioni per la pioggia che non cadeva. E, di pomeriggio, allora, non si celebrava alcuna altra messa!… Immaginarsi il silenzio dei «Sepolcri» in quei giorni!… Per il paese giravano i ragazzi agitando le «troccole» (battole, raganelle)…
Ognuno dei «Sepolcri» assumeva, in ogni chiesa, caratteristiche proprie. Se ne ricordano alcuni proprio famosi: quello della Madrice Vecchia, allora ancora, incredibilmente, più vecchia, sistemato sotto la cripta da Don Carmelo Morici; quello di Don Leonardo Di Giorgi, allestito con sabbie e polveri di vari colori, che, seguendo stampi di cartone intagliato, disegnavano alla Badia I’Ecce Homo, la corona di spine, l’INRI, tenaglie, martelli, chiodi; quello di Don Peppino Di Napoli con una ricca esposizione di arredi ecclesiastici; quello della chiesa di Sant’Agostino che, preparato da Don Vincenzino Fiasconaro Speciale, diffondeva effluvi soavi; quello dei Padri Cappuccini, nella loro chiesa, oltremodo povero ed impressionante; quello di Sant’Antonino Martire, dove Don Nicolò Raimondi raccoglieva per l’occasione tutti i più bei vasi con le più meravigliose piante del rione; quello di «l‘ltria» di Don Vincenzo Barreca, addirittura personalizzato; quello di San Nicolò suggestivo per l’eccesso di buio e si potrebbe continuare… Di pomeriggio, fino quasi a notte, nel Giovedì Santo, recitando preghiere, bisognava girare almeno sette «Sepolcri». Le strade del paese formicolavano… La mattina del Venerdì santo si apriva con la Via Crucis, meditata. Particolarmente affollate di persone erano quella che saliva alla Santuzza, soffermandosi alle varie Stazioni (oggi ne è rimasta solo una) e quella che saliva alla chiesa del Calvario. Nelle vie del paese echeggiavano le note di «Sono stati i miei peccati! Gesù mio perdon, pietà!». La processione era pressappoco quella di oggi: solo che era preceduta da tante fanciulle vestite di nero, in gramaglie, con le trecce sciolte, con i capelli che, circondando il volto, ne nascondevano le sembianze. Al solito il Cristo morto precedeva I’ Addolorata. In quei giorni circolava una strana storia-leggenda: alla Madrice Vecchia, quando si dovette dividere I’«oro», perché la Congregazione femminile dell’Addolorata aveva acquistato un altro simulacro per la chiesa della Badia, nessuno voleva, per timore, salire sull’antico simulacro, nessuno osava staccare i preziosi ex-voto alla Madonna Addolorata: un tale vi si arrampicò spavaldamente gridando: Cchi m’ha fari a mia sta pupa di pezza? Precipitò a terra, fra lo sguardo di mille occhi atterriti, colpito da nzurtu (infarto)… E il Venerdì si chiudeva con la solita predica di Don Carmelo Morici, che, nella Madrice Vecchia, dopo la processione, richiamava gran folla di fedeli.
Sabato mattina, alle ore 11, il Cristo risuscitava. Finalmente tutte le campane ritornavano a suonare, in contemporanea. Le donne si aggiravano, per i pochi ambienti di casa, con una pala di brace ardente dove bruciavano foglie di ulivo benedetto e granellini di incenso. Ma quello che succedeva fuori è indescrivibile: gruppi di scalmanati si impegnavano in una fitta sassaiola, a vanculiata, contro tutte le porte che dovevano essere guardate a vista dai proprietari armati di canne e bastoni: anche dentro la Madrice Nuova il sacrestano, i Sacerdoti, alcuni fedeli zelanti dovevano aggirarsi nelle navate per sorvegliare i confessionali e le poche sedie che, sbattute di qua e di là, venivano sfasciate, tante volte irrimediabilmente: nessuno poteva niente contro questi irriducibili!…
E finalmente arrivava la Santa Pasqua! Non esistendo, in quei tempi, variopinte uova di cioccolato, né colombe inscatolate, né agnellini di pasta di mandorle, i ragazzi esultavano per i dolci di casa e per il cucciddratu con le uova sode infisse.
Il paese riposava: i contadini ed i pastori gironzolavano con il cirviuottu (vestito, in verità, poco elegante di color del corvo), scambiandosi osservazioni e previsioni sull’annata agricola e sulla campagna. L’asinello restava nella stalla, affacciato âcciettu, cioè alla finestra della porta di casa, rimpiangendo con uno squillante raglio, di tanto in tanto, la libertà dell’aria aperta. La capretta restava a ruminare qualche pala di ficodindia, in una cesta appesa fuori ad un anello di ferro; gruppi di galline razzolavano sulla via; sciami di ragazzi si rincorrevano dietro le stanghe dei pochi carretti poggiati a terra. L’indomani era il lunedì di San Michele (dell’Angelo): la dizione Pasquetta era ancora sconosciuta. Dopo i cucciddrati di pane e acqua, consumati sulla strada dai ragazzi del vicinato, intorno ad una caratteristica tavuletta annerita per la lunga permanenza in cucina, la sera si accendeva in ogni via un enorme falò, preparato con legna in cooperativa. Fra mille schioppettii e mille scintille i ragazzi gridavano: Viva San Micheli ccu na manu e un pedi! Nessuno è riuscito a lumeggiare mai questa esclamazione! Perché San Michele, ogni anno, veniva sistematicamente amputato e privato dell’altra mano e dell’altro piede? Mistero!… E mentre si affievolivano le ultime fiammate si pensava al domani…