Buonsobrio tra le fauci degli ungulati e gli amici gatti | Racconto
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(Di Francesco Di Garbo) – In un paese dai colori sgargianti vividi e brillanti, dove il rosso carminio, l’arancio infuocato e il giallo abbagliante s’attenuano col verde cobalto dell’erba e l’azzurro smeraldo del cielo; qui cielo e terra biforcano all’orizzonte, silhouette nodose e sinuose di colline e mare che rapiscono lo sguardo del visitatore. In questo Paese povero e disilluso ci si saziava d’aria e colori, di contro veniva dipinto grande e potente, ma era solo apparenza. Appariva e pativa. Vi viveva un anziano contadinotto, più villico che agrario, Villano di nome non di fatto. Abitava in un mono corpo di casa a piano terra in aperta campagna con la sua amata moglie in miseria e nobiltà, lontano dall’abitato ed emarginato dai compaesani. Si trovava tra i malandati nell’indigenza sociale e l’eccellenza morale: immondo, improbo, funambolico andazzo sospeso tra la vita e la morte, a giorni alterni.
Per sbarcare il lunario i due vecchietti raccoglievano le olive a mano, con metodo tradizionale nel piccolo podere ereditato. Ogni anno tra ottobre e novembre i due anziani coniugi si mettevano di buona lena a sfilare le olive dagli alberi facendole cadere su una rete più o meno rammendata che poi riversavano dentro un mastello e infine nei sacchi da portare al frantoio per la molitura e spremitura a fine raccolto per ricavarne l’olio. “Annata buona, annata scarsa”. La resa d’olio ogni quintale di olive variava tra i tredici e i diciassette litri, loro al massimo arrivavano a sedici litri. La moglie sfilava da terra le fronde basse delle piante, il marito le cime alte salendovi con una scala a pioli e poi sul tronco facendo molta attenzione perché i rami secchi si stroncano e si può cadere in malo modo. I due canuti coniugi, come due piccole formichine, confidavano in una buona resa per raggranellare qualche soldino per il lungo e freddo inverno. Mettere un po’ di fieno in cascina per quando sarebbe caduta la neve.
Tra le piante d’ulivo ce n’era una maestosa, secolare e fruttifera, dalla quale ricavavano un extra profitto che usavano, si fa per dire, per rifare il guardaroba. Era la cosiddetta “chianca” per l’enorme fronda dal diametro di oltre quindici metri. A girarvi intorno non si vedeva il grosso tronco, da sotto, per la fitta chioma, non si vedeva il cielo. Dal ceppo s’ergevano quattro tronchi che sparavano in cielo in direzione dei punti cardinali, inarcati e contorti, ininterrotti in armonico groviglio; la “chianca” dominava tutto il declivio terrazzato a secco. Il villico era sempre con le orecchie attente a percepire gli umori dei paesani, intenti anche loro a raccogliere olive, per carpire come si prevedeva l’annata di cui si vociferava.
Negli ultimi tempi però i due vegliardi sentivano sul groppo la fatica degli anni e facevano uno sforzo inenarrabile a terminare la raccolta. Ultimamente non riuscivano a finire l’enorme albero in un solo giorno; l’anno precedente ne avevano impiegati ben due. Adesso giravano e rigiravano sotto l’albero ed erano già passati tre giorni senza riuscire a finire il lavoro, anche per la mole di olive fitte fitte di cui i ramoscelli, per fortuna, erano ricolmi. Ovunque Iachino, cosi si chiamava il villico, si girasse c’era sempre qualche ramo, soprattutto in alto, difficile da raggiungere, da sfilare. Tale cosa era diventata una seccatura perché, se non terminava, non poteva andare al frantoio per la molitura.
Il decrepito villanello era molto povero e non riusciva a sfamarsi con la sola pensione sociale, anche perché il costo della vita era salito alle stelle e per questo era molto amareggiato. La mattina del quarto giorno lo scoramento lo assalì di punto in bianco e si sedette alla base del tronco, sopra un protuberante bitorzolo del ceppo appoggiando le spalle nel tronco a nord vista mare come se fosse una poltrona Chester morbida, con cuscini caldi di lana, per riflettere sul da farsi sotto la chioma dove filtravano tenui sprazzi di luce. Stanco e povero lo tzu Iachino si barcamenava stordito tra confusi pensieri sull’impellente necessità, quella misera liquidità che permette alla pentola di cucinare qualcosa da mangiare. Era ben conscio che, con le residue forze che gli rimanevano, non sarebbe riuscito a raccogliere la quantità di olive necessarie per produrre il sovrabbondo d’olio da vendere per soddisfare i bisogni primari.
Con le scarpe bucate la rugiada gli bagnava i piedi, con i calzoni sdruciti il freddo gli entrava nelle ossa, aveva le mani intirizzite dai reumatismi atrofizzanti. Quando rincasava la moglie vedendolo afflitto, lo rincuorava con un decotto d’alloro stagionato. Preparava del pancotto per cena con il pane raffermo che un fornaio, preso da compassione, le regalava; un cicinino d’olio, un pizzico di sale e un paio di cucchiai di salsa da mettere in un pentolino, non prima d’aver bagnato il pane.
Nei pressi della casupola dove abitavano i due vecchi coniugi, v’era un casolare diroccato dove viveva un branco di gatti selvatici che marito e moglie abbeveravano e a volte sfamavano con del cibo riciclato dal salumaio-macellaio, resti e fondi d’osso e prosciutti. I gatti s’erano affezionati e, pur mantenendo le distanze, intrattenevano un rapporto di buon vicinato coi due coniugi: qualche coccola ricambiata da qualche fusa. Il capobranco, un gattone grosso, lungo e maculato come un bue della Pampa, aveva sviluppato un particolare senso dell’olfatto; un fiuto intuitivo che gli faceva percepire guai e disgrazie dei vetusti anziani per quanto li conosceva bene. Bruno, così lo chiamavano per via del colore delle sue chiazze, coi suoi baffi arruffati e il musetto appiattito fiutava il pericolo che incombeva sui vetusti coniugi, ma non capiva la natura intrinseca di cosa si trattasse, il motivo che angustiava l’anziano contadino e, quindi, come poterlo aiutare. L’aveva seguito e coi suoi occhietti furbi penetranti da vederci al buio intuì da lontano il malessere dell’amico villico e smaniava per l’afflizione che sprizzava dai pori di Iachino, che solo la sua empatia riusciva a sentire.
Quando il micione, “miao miao”, lo andava a trovare sotto la “chianca”, con le sue unghia aguzze s’arrampicava sul grande ulivo per stargli più vicino, cosicché lo faceva sentire meno solo. Poi con gli altri gatti giocava a far capriole saltando da un ramo all’altro. I felini dal salto facile girovagavano per la l’enorme pianta piroettando a tutto tondo con fulgore energico e indolore, come se fossero provetti funamboli da circo equestre, in questo caso felino.
Il contadinotto e la moglie arrancavano a sfilare e raccogliere le olive e i gatti giocavano per tenere loro compagnia con le fusa arrotate. Ben presto Bruno capì che l’avvilimento del suo vicino, con la testa tra le mani affranto dalla fatica, era dovuto al fatto che gli mancavano le forze per arrampicarsi fino alle cime più alte, le meglio prolifiche, dove si sta in equilibrio precario e con la scala non ci si arriva a sfilare le olive. Da quelle cime sarebbe uscito l’olio per sopperire alle spese invernali. Bruno non aveva mai visto il contadinotto così bizzoso, rimuginante e ansioso, che celava il volto tra le mani come a voler annullare la realtà. Anche l’anziana signora, sebbene non ostentasse, con fare dignitoso, le cocenti preoccupazioni, si rendeva conto che il marito era affranto come non mai. L’anziana moglie avendo un carattere positivo cercava di rincuorarlo in tutti modi con mille premure, ma senza successo.
Bruno osservava il vecchio villico abbattuto e depresso come se fosse in mezzo ad una tempesta in balia dei forti venti, una palma sferzata dall’uragano, che ruminava i suoi affanni impregnando tutto il contado di tristezza, e pure i suoi gatti ne risentivano con l’umore di traverso. Il vecchietto borbottava maledicendo e benedicendo la cattiva sorte più che la vecchiaia, la fortuna che non gli aveva mai arriso nella vita, tranne quando conobbe l’amata moglie alla quale avrebbe voluto riservare una canizie migliore. Una lacrima gli gonfiava l’occhio, ma non usciva trattenuta per misericordia, però gli occhi lucidi e arrossati la dicevano lunga. Iachino si faceva i conti in tasca tante volte, e più volte, ricominciando sempre da zero nella speranza d’essersi sbagliato, ma i conti non tornavano. Ogni volta mancavano due soldi per fare una lira, o forse era al contrario: gli mancava una lira per avere due soldi per il pane. Tempi magri, “e quando mai?”. Il bilancio non quadrava, le spese sopravanzavano le entrate e non diminuivano: si deve pur mangiare, vestire, pagare le bollette… “Come devo fare per sbarcare il lunario se non riesco a raccoglie tutte le olive? Perché il lavoro è mal retribuito? Inoltre quest’anno l’olio non ha mercato, si svende a prezzo inaccettabile per ripagare la fatica e sopperire alle necessità. Che disastro!”. Il vecchio villico s’arrovellava su queste domande, che togli una, metti l’altra non ne usciva nulla di buono.
Sotto l’enorme albero gli restava solo l’aria pura e il sole splendente. Ma questa madornale e folle discrepanza non riempiva la panza. “Ma dove s’annida la discrepanza?”. Si chiedeva senza costrutto il contadino. “Niente da fare” si diceva. “Il prezzo dell’olio è inferiore assai rispetto al lavoro che ci vuole per produrlo”. Iachino sbuffava come una ciminiera. “Maledetto mercato che stabilisce un prezzo così basso da non ripagare la fatica e fa passare la voglia d’alzarsi la mattina”. Rimestava il l’attempato Iachino. Pestava a sangue il mercato battendo col piede per terra, pensando che fosse una persona o uno scarafaggio e non una mera astrazione. “Ma qualcuno ci sarà che lo pone in essere?”. Congetturava. “Se lo becco gliene dico quattro a lavata di capo”. Si riprometteva, ma invano… Sembrava invisibile la “longa manus”, eppure c’era qualche manica di ladri che determinavano il prezzo dell’olio. “O si aumenta il prezzo dell’olio o si diminuisce quello degli altri generi di prima necessità!”. Ragionava con logica terra terra l’anziano contadino. “Perché i prezzi delle altre cose vanno alle stelle e quello dell’olio no? Anzi sembra diminuire nell’impari cambio”. Si scervellava. E giù di lì Santi e Madonne, imprecando e maledicendo. Il Buonsobrio tzu Iachino ce l’aveva con gli oliandoli che mercanteggiavano l’olio stabilendone il prezzo in una Borsa che non esisteva, come nemmeno la piazza. Nel subconscio paragonava gli oliandoli agli olivastri, come la parte selvatica della coltura degli ulivi che non diventa buona, perché nessuno li innesta a tempo debito: “L’albero si raddrizza finché è giovane”. L’olivastro se non si innesta resta selvatico e non produce. Gli oliandoli guadagnano senza produrre e ci fanno pure la cresta. D’altronde cosa ne sapevano gli oliandoli della coltura se guardavano solo e soltanto al precipuo interesse personale? Ma il Buonsobrio questo non lo sapeva, ne era all’oscuro e ai suoi occhi rimaneva un mero, enorme, inesplicabile mistero. Dal canto suo la moglie gli stava accanto e quand’egli a casa ritornava, mentre ella rammendava con lo scialle di lana tarmato sulle spalle, lo guardava sottecchi per carpirne l’atteggiamento. Vedendolo mesto e cupo, allora gli preparava un decotto per risollevarlo con dolci parole. “Cosa gli prende? Cosa gli capita?”. Si chiedeva atterrita.
Era una mattina fredda e cupa, nembi uggiosi scuri come il carbone intasavano fitti fitti il cielo. In quel Paese dalla politica fosca e arcana, criptica e nebulosa, l’autunno incalzava a sprazzi, alternando giornate solari a bombe d’acqua con relativi allagamenti. Quella mattina il vecchio contadinotto non aveva proprio voglia di tornare sotto la chianca. Abbattuto e scorato, col morale sotto i piedi, non voleva alzarsi nemmeno dal letto per bere il caffè: “Tanto per fare che?”. La moglie lo incoraggiava e lo sollecitava d’andare a finire di sfilare le olive di quella maestosa pianta, se no non si potevano portare le olive al frantoio per la molitura. L’anziana, canuta signora era conscia che, senza il misero ricavo della svendita dell’olio, non potevano superare, seppur stentatamente, l’inverno; nemmeno arrivare a metà. “Almeno metà, per l’altra sole spinge e Dio provvede”. Si diceva la vecchia signora. “Alzati, alzati. Su non fare le bizze”. Era il refrain sussurrato con voce ovattata che s’udiva nella catapecchia. Per tutta risposta il marito si girava dall’altra parte, coprendosi fino all’ultimo capello. La rugiada s’era ormai squagliata da un pezzo e ancora non si levava dal letto, allora la moglie prese una bacinella d’acqua fredda e cominciò a spruzzargliela in faccia. L’acqua gelida scosse lo tzu Iachino facendolo trasalire e lo gettò giù dal letto. Quando i coniugi arrivarono sotto l’albero uno squarcio tra i nembi faceva filtrare pallidi raggi di sole fluorescenti che baluginavano una tenue chiaria. La rete grande era distesa sotto l’albero da quasi cinque giorni. La sera prima l’avevano svuotata del tutto, eccetto quelle rimaste dentro qualche embricatura causata dal terreno accidentato scavato dai cinghiali.
Tutta la zona era invasa da branchi insolenti di cinghiali, famiglie numerose coi piccoletti grufolanti e arrancanti dietro mamma scrofa. Dissodavano il terreno alla ricerca di topi e bisce, tuberi e sementi. Scavavano fossi larghi e fondi impedendo ai coniugi un facile cammino nel terreno per raggiungere gli ulivi. Cinghialoni come pachidermi pericolosi che nelle loro scorrerie protettivi della prole allerti erano lesti ad aggredire l’uomo. Il vecchio contadino non aveva la forza per combatterli e nemmeno i soldi per recintare il podere. I cinghiali erano come vecchi volponi assatanati d’ogni briciola di guadagno a discapito dei miseri vecchietti. Questi cinghialacci, brutti nefandi abominevoli predatori dei beni comuni saccheggiavano terre e stipendi. Erano onnivori e famelici e se ne approfittavano dei poveri disgraziati alla loro mercé. Che potevano fare i vecchietti? Impotenti sopportavano la malasorte di stare tra le fauci dei cinghialoni volponi che si arroccavano dietro l’alibi del libero mercato.
Tuttavia i venerandi coniugi avevano i gatti come preziosi alleati, infatti i cinghiali nulla potevano contro di loro. I gatti vi salivano in groppa conficcando le grinfie affilate nella schiena e non mollavano la presa, nonostante il repentino scuotimento dei cinghiali per scrollarseli di dosso. I gatti si divertivano a cavalcare i cinghiali come se stessero partecipando alle corse impazzite di tori in un rodeo. Se per caso venivano disarcionati erano pronti, con la loro destrezza, a balzare via, e con estrema agilità e velocità, a schizzare lontano in un baleno, seminando i cinghiali come speedy Gonzalez e lasciandoli con un palmo di naso. Sotto la direzione di Bruno, i gatti avevano escogitato d’attaccare i cinghiali in branco da tutte le parti come fanno i lupi, e grazie alla loro innata elastica snellezza avevano sempre la meglio. Avendoli stornati e scannaliati, vista la malaparata i cinghiali di giorno evitavano di farsi vedere nel podere dei vecchietti.
Quella mattina fosca e cupa lo tzu Iachino bofonchiava riottoso, insieme alla moglie arrancava per andare a sfilare le olive. Entrambi erano turbati e disperati perché non riuscivano a raggiungere le alte cime colme di olive se non col rischio di cadere e farsi male. Eppure quelle olive erano necessarie alla causa della misera economia familiare. Ciò li rendeva contriti e ancora più prostrati, per l’angoscia di non farcela. Bruno fiutava puzza di scoramento e costernazione e se ne dispiaceva come un topo in trappola: non poteva stare con le mani in mano. Bisognava escogitare qualcosa per riportare l’armonia negli anziani affinché riprendessero a dare acqua e minestra dato che, ultimamente, oberati di pensieri in testa, latitavano. In men che non si dica Bruno organizzò un consulto con gli altri gatti e decisero di imbastire una spedizione piratesca all’arrembaggio delle alte cime di olive per buttarle a terra. Una notte di luna piena si misero all’opera e con le loro unghia incolte ben affilate strapparono le olive dalla pianta buttandole sulla rete fino all’ultima oliva resiliente.
Il giorno dopo, man mano che salivano il declivio per arrivare all’albero mastro, i due coniugi notavano qualcosa di strano e inconsueto, tuttavia indistinguibile e impercettibile. Avanzavano e non si capacitavano cosa di fosse successo, ché mai era successo prima. Storditi dallo stupore, incedevano verso sua maestà della pianta, i volti avevano un’espressione trasecolata e incredula. Ad ogni pausa nel cammino i due coniugi si lanciavano occhiate diffidenti, con le sopracciglia inarcate e la fronte raggrinzata. Erano indecisi se gioire o no perché non capivano quella strana visione della “chianca” senza nessuna oliva nei rami alti, e il dubbio li teneva nella spasmodica attesa di capire il perché e il percome le olive non si vedessero. La pertica inalberata sopra il fusto dell’albero svettava con un drappo, color occhio di capra, sdrucito dalle intemperie e dalla malasorte. Dall’alto attendeva trionfante gli anziani villici per festeggiare la capitolazione delle olive sfilate tutte a terra sopra la rete. I due coniugi non credevano ai loro occhi nel vedere le olive sfilate, con la rete pronta per essere rimboccata per riversare le olive nel mastello. Lo stupore incalzava e aumentava a dismisura, i due coniugi si guardavano stupefatti e pietrificati, non sapevano che dire, non sapevano spiegarsi come tutto ciò fosse accaduto. Da escludere il vento in quanto la nottata era stata calma e tranquilla, altre persone no di sicuro. Allora cosa? Mistero! I gatti avevano pure preparato un piccolo gioco d’artificio a base di petardi e miccette da far esplodere al momento propizio, quando l’emozione dei longevi coniugi fosse stata all’apice. I coniugi stavano confabulando sottovoce sul fatto miracoloso, anche per farsene una ragione e per non essere sbugiardati da quella speciale sensazione che faceva loro tremolare il cuore. Senza fiato annaspavano mezze frasi e poche parole. Lo scoppio improvviso delle miccette li fece trasalire e quasi si spaventarono, la moglie emise un grido acuto e fece per scappare, il marito la trattenne e le fece cenno di stare calma. “Pum, pum pam! Patapam, patapum!”. Il drappo sventolava la fine della guerra con le olive, la fine dell’angoscia della raccolta ancor prima del mese di frimaio. I gatti intonarono un miagolio canoro al suono della romanza “Nessun dorma” della Turandot: “Vincerò vinceremo…”. Allora i due vecchietti capirono che al mondo l’amicizia dei gatti è più sincera e adamantina di quella degli uomini.
P.S. La Sicilia è ricca d’uliveto, la nostra zona idem. Sull’olio non si sente voce che ne promuova la produzione e il commercio. Le autorità competenti a tutti i livelli, (Regione, Comuni, Comprensori, Coldiretti, Confagricoltura) in specie nella nostra zona l’hanno abbandonato al suo baro e tragico destino. Di tutto si parla eccetto dell’olio e delle sue qualità biologiche extravergine, tanto meno d’incoraggiare i giovani alla coltivazione e produzione. Non c’è mercato, non ci si busca un euro, non vi si ricava lo stipendio. Tutto è lasciato al fai da te, alla sporadica iniziativa di qualche visionario che senza mezzi e incoraggiamento non può fare il passo più lungo della gamba; tutto si risolve nell’autarchia del fabbisogno familiare. E tutto va bene madama la Marchesa.
Ci piangiamo addosso sul calo delle nascite e lo svuotamento dei paesi e ci culliamo sullo sviluppo ingessato e le risibili risorse che la nostra magrissima economia in netto declino offre. Si decantano come se fosse un vino pregiato le notevoli performance del nostro Comune, ma stringi stringi è tutta lana caprina.