Caleidoscopio Natalizio

Significativamente, la vigilia di Natale, pubblichiamo la prima puntata di CALEIDOSCOPIO NATALIZIO, delizioso quadretto di vita castelbuonese in cui l’occhio acuto e la penna ispirata del maestro Giuseppe – Pippo – De Luca ricostruiscono sapientemente, a distanza di oltre mezzo secolo, i preparativi del Natale e delle feste di fine anno, esattamente come si svolgevano nelle case del nostro paese nei primi decenni del secolo scorso. Il bozzetto fu pubblicato sul giornale Le Madonie in quattro puntate, fra il novembre 1989 e il gennaio 1990.

Oggi, grazie alla prestigiosa collaborazione con il giornale Le Madonie, ma soprattutto grazie alla grande disponibilità della famiglia De Luca e dell’avvocato Mario Lupo, che qui ringraziamo sentitamente a nome della Redazione e di tutti i lettori, CastelbuonoLive pubblica, ancora in quattro puntate, come avvenne per l’edizione cartacea, questo insieme di stupendi fotogrammi di vita castelbuonese.

Per l’occasione – in onore del maestro e dello studioso Pippo De Luca – Castelbuonolive inaugura una nuova sezione, nella quale, via via, confluiranno i suoi lavori e per la quale l’unico titolo possibile è FOGLIETTI AL CHIODO, lo stesso che lui volle dare alla sua raccolta di scritti per mezzo dei quali mirava al recupero della nostra storia e della nostra identità di castelbuonesi.

La riproposizione oggi, a distanza di tanti anni, dei foglietti al chiodo sia sulle pagine de Le Madonie che su quelle di Castelbuonolive è finalizzata ad offrire l’opportunità ai più giovani di “sapere”, ai meno giovani di “ricordare”, a tutti di “non dimenticare” che Castelbuono è comunità, nel senso più alto del termine, e non una incongrua aggregazione di abitanti.

CALEIDOSCOPIO NATALIZIO
di Giuseppe De Luca

In quei lontani anni, ormai svaniti, scrollate alle spalle le stanche malinconie degli insistenti lugubri rintocchi vespertini di novembre, che, ogni sera all’imbrunire, da tutti i campanili del paese, rimembravano ai viventi l’assenza dei cari trapassati, provocando ininterrotte giaculatorie di orazioni di fede e sommesse e meste preghiere di requie, al sopraggiungere di dicembre si aprivano nell’animo decisi slanci di rinvigorimento che, sebbene proiettati in vista di traguardi collocati nell’incerta prospettiva delle prime oscure manifestazioni dell’inverno astronomico e meteorologico, risuscitavano e rinverdivano tuttavia sopiti – obsoleti – desideri di un’agognata rigenerazione.

Iniziava l’ottava dell’Immacolata Concezione e ci si avviava quindi alla festa di Santa Lucia, la quale ridestava nei contadini e nei pastori speciali ansie e timori, particolari attese e speranze, poiché ad iniziare proprio da quel giorno tredici dovevano dedicarsi, per lunga consuetudine, all’osservazione del tempo. Infatti, fino alla vigilia del Santo Natale, secondo la credenza popolare, ogni giornata veniva considerata corrispondente ad un mese del nuovo anno. Dal comportamento dei venti, del clima e delle precipitazioni, si sarebbero ricavati perciò gli auspici per la previsione dell’annata in arrivo: per quanto possibile si sarebbero programmate dunque le modalità dei lavori e si sarebbero stabiliti i ritmi delle fatiche per le conduzioni agricole e pastorali.

La massa dei ragazzi del popolo attendevano gioiosamente questo periodo perché con le ormai prossime vacanze natalizie si potevano pregustare ore di spensieratezza e pause diversificanti e diversificate dalle solite monotone cadenze quotidiane.

Fin dai primi del mese si pensava già a quando, come e dove preparare il presepio; occorre precisare subito, intanto, che in quell’epoca non erano state importate le tradizioni dell’albero e di Babbo Natale, né erano giunte le nordiche usanze del vischio e dell’agrifoglio; per anacronismo, non erano maturate, per altro, le variegate incantevolezze delle luci policrome e, poi, erano davvero impensabili i brillanti e sfolgoranti fili argentati e gli scintillanti addobbi multicolori di vetro soffiato: tutto nasceva in povertà, ed in semplicità si sviluppava, quasi quasi in un’atmosfera più vicina, più aderente e più consona a quella scelta dal Salvatore, per le circostanze della Sua venuta al mondo, tanti secoli prima. Ed ogni elemento rispecchiava l’ambiente arcaico e rustico di casa nostra, nella nuda ed essenziale, ma dolce e soave realizzazione celebrativa della Natività: così come l’aveva preconizzata anche l’umile Poverello d’Assisi.

Non si poteva certamente sperare o, tanto meno, pretendere che la residenza d’allora offrisse uno spazio conveniente per l’allestimento del presepio: ci si doveva accontentare pertanto di un angusto angolino, il meno trafficato, dove poter collocare un tino capovolto, qualche «fìscinu» o una cesta con il fondo all’insù; alcuni potevano disporre di una o due casse d’imballaggio, altri apprestavano e ripulivano qualche nicchia di uno stipo spalancato – dove la scansia più bassa veniva, per l’occasione, liberata dalla roba usualmente ripostavi – qualcuno sfruttava il davanzale interno di una finestra: se si era proprio.fortunati si poteva utilizzare un bel ristretto tavolinetto e la «buffetta» di riserva.

Ma, trovato il posto dove sistemare il presepio, non restava che ben poca scelta per l’occorrente: non esisteva alcun negozio che presentasse una pur minima possibilità: niente e poi ancora niente!…

E allora? Necessità aguzzava l’ingegno… Beh! Il muschio, si sa, nella zona è stato sempre abbondante: non restava, quindi, che partire con il paniere: veniva cercato e staccato accuratamente, in particolare, quello che cresceva sul fianco rivolto al nord del tronco dei castagni. E poi? Una grotta, una piccola grotta la si poteva ricavare da due pezzi di sughero che in quei tempi veniva usato di continuo per la confezione casalinga di ogni genere di tappo.

Ma il paesaggio era incompleto: e, poiché necessitavano le montagne, si provvedeva con alcune pietre, con altro sughero, con contorte schegge di legno; e con una spruzzatina di neve, adoperando il bianco gesso dei muratori, si produceva un efficace effetto realistico. Le montagne, di conseguenza, richiedevano un fiume: per questo c’era sempre il calzolaio di famiglia, amico e piuttosto generoso (?), che elargiva – ammiccando e sorridendo furbescamente – quei pezzetti di vetro con cui aveva finito in quel momento di raschiare e levigare la risuolatura delle scarpe e che, girati e rigirati più volte con svelta maestrìa fra le sue esperte mani, erano senza dubbio diventati proprio inservibili per lui. Questi taglienti triangolini, opportunamente distesi a mosaico uno accanto all’altro, in lungo ben congegnato percorso, posti sopra alcuni ritagli di cartone color terra o, cosa abbastanza lussuosa, su alcuni frantumi della carta stagnola del raro cioccolatino d’allora e che erano stati raccolti e conservati gelosamente da tempo, davano l’impressione di vedere luccicare e di sentire scorrere l’acqua gelida e fangosa.Il corso d’acqua, però, esigeva un ponticello, sia pure rudimentale, e questo si approntava con pazienti tagli e laboriosi ritocchi, esaurendo l’ultimo pezzettino di sughero. Si aprivano infine viottoli e sentieri, segnandoli con cenere e segatura. A questo punto il panorama, in un certo senso, poteva ben dirsi delineato e, compiaciuti, si tirava un leggero sospiro di sollievo!Ora… bisognava popolarlo! E qui si misurava tutta l’ingenua e scaltra, elaborata ed artistica, creatività del ragazzo. Come già detto, non esistevano negozi che potessero offrire statuette, ed in città chi ci avvicinava? Solo qualche benestante ne possedeva pochi esemplari, acquistati a caro prezzo!…Quelle statuette di gesso colorato, di ceramica smaltata, di terracotta grezza o di pallida cera, venivano custodite, durante tutto l’anno, dentro una polverosa infiorata «scaffarrata» (scarabattola), posta sul «canterano» (cassettone) di famiglia, e, nella saletta d’ingresso, costituivano oggetto d’ammirazione e di invidia per i visitatori meno abbienti.Costoro provvedevano, invece, a tirar fuori dalla «pirrera» (cava) l’argilla necessaria per fabbricarsi i personaggi indispensabili; i quali, dopo la loro effimera comparsa, nel momento in cui si smontava il presepio, essendo plasmati di argilla cruda e perciò inclini a sgretolarsi addirittura in pochi giorni, al primo tocco si sbriciolavano e finivano col ritornare miseramente in mille pezzettini alla madre terra: in premonizione, quasi quasi, della precarietà e della caducità di ogni sostanza terrena; ma, come sempre, quegli avvenimenti, per fortuna o per disgrazia, non sfioravano il mondo circostante dei fanciulli; i quali ammortizzandoli in superficie e morbidamente assorbendoli, ancor oggi, non fanno mai alcun tentativo di cosciente approfondimento, che, fra l’altro, risulterebbe perfettamente estraneo a quell’età meravigliosa.I ragazzi del vicinato, alla fine delle lezioni, si riunivano, quindi, a gruppi e, dopo un’accesa discussione pseudoscientifica sulle migliori qualità di argilla dei dintorni, partivano alla ricerca della creta, che andavano a trovare in buona dose lungo le ripe che costeggiavano i torrenti: doveva essere pastosa, densa, scevra da corpi estranei, possibilmente inumidita al punto giusto da recenti pioggie autunnali. E dopo averla convenientemente battuta e ribattuta su una pietra e dopo averla suddivisa in tanti mattoncini, arrivava il momento della manipolazione delle immagini essenziali: San Giuseppe, la Madonna, il Bambinello, l’Angelo, il bue, l’asinello, i Re Magi e se restavano tempo spazio e materiale, i pastori ed i contadini, le massaie e le donnicciuole.Venivano modellati al di fuori di ogni mirata logica artistica, senza le dovute proporzioni, ribelli ad un univoco criterio coagulante: ma questi «pupiddi» informi e deformi, talvolta «racchi» (rachitici) talvolta «arricalati» (sottosviluppati), contribuivano lo stesso a far rivivere in maniera suggestiva, poetica ed appagante, il fascinoso mistero della Natività, riuscendo a creare in ciascuno, la temporanea occasione di un illusorio inserimento in una società di gioiosa fratellanza e di pacifica convivenza.
Continua

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