In controluce, nel passato castelbuonese | Caleidoscopio Natalizio (parte 2)

In controluce, nel passato castelbuonese
CALEIDOSCOPIO NATALIZIO
di Giuseppe De Luca

E come in tutti gli altri paesi, anche nel nostro c’erano i pezzi caratteristici. Chi non ha scrutato ed ammirato i mille volti creati dal popolo palermitano per il proprio spavintatu con le braccia aperte e lo sguardo smarrito ed estasiato?

A Castelbuono, essendo predominanti nell’economia locale le attività della pastorizia e dell’agricoltura, venivano immancabilmente modellati u picuraru chi arrimina a ricotta e u viddanu chi tira u fussuni, ossia il pecoraio che rimescola la ricotta e il contadino che estrae il carbone dalla carbonaia. Come? Forse conviene descriverli, magari succintamente. Il pecoraio veniva presentato seduto su un tronco d’albero (costituito, s’intende, da un minuscolo legnetto) mentre badava ad una caldaia annerita di fuliggine prelevata dalla ciminìa (canna fumaria) del forno casalingo; la caldaia ripiena e sbuffante di bianca calce viva (che simulava la ricotta) era posta sopra un trespolo, sotto il quale alcuni cannellini di carbonella fungevano da tizzoni, come elementi di cottura: il pecoraio teneva in mano u zzubbu, cioé il manico del bastone terminante a pala, con il quale rigirava la ricotta: nelle vicinanze c’era a mànnira formata dal pagliaio, dalla staccionata del recinto e da parecchie pecorelle accovacciate (era più facile adattarle in questa posizione invece che in piedi, altrimenti le gambe non avrebbero retto sotto il peso dell’argilla).

Il contadino veniva piazzato, in faccende, davanti ô fussuni – la carbonaia, dove si potevano ritrovare altri cannellini di carbonella – e costui ccû tiraluci (rastrello) ritirava ed ammonticchiava il carbone da un lato. Sia la ricotta che il carbone dovevano apparire pronti al più presto in quanto concorrevano a simboleggiare, sintetizzandole, le offerte dei più tipici e diffusi prodotti del paese a Gesù Bambino. E non mancava mai un altro elemento caratteristico: la lavandaia china sulla sponda del fiume, intenta a risciacquare i panni – minuscole pezzuole – e ciò sembra che stesse a ricordare la … ripulitura dell’anima dai quotidiani peccatacci.

Quanto all’illuminazione neanche a pensarci: la luce elettrica, a Castelbuono, non era ancora arrivata (giunse sul finire del 1925) ed i cordoni delle minuscole lucciole intermittenti non erano stati inventati. Non essendo, per altro, diffusi neanche i lumini di cera, la sera si rischiarava un po’ la penombra con una lampa, che veniva collocata da una parte della grotta: funzionava con uno strato d’acqua posta in un bicchiere, la quale spingeva in alto un po’ d’olio dove galleggiava un lucignolo ancorato al centro di un anelletto di legno; in alcune case si accendevano due lumere di terracotta, anch’esse alimentate ad olio d’oliva: ad ogni minimo soffio lo stoppino, però, si agitava e rendeva, quel tenue chiarore, tremolante ed instabile. Successivamente cominciarono ad apparire muzzuna ‘i cannila, misero residuato di sacrestie e di processioni: quasi mai si acquistava allo scopo un’intera candela o un’appropriata stearica!

E per ultimo veniva ad adornare il presepio u lavurieddu: era allestito con un pugno di grano o di lenticchie, seminato a tempo debito su un batuffolo, allargato e dipanato, di stoppa di canapa, di cotone o di lino, racchiuso su un piattello, innaffiato in continuazione e germogliato al buio: vegetando in assenza del fenomeno della funzione clorofilliana i teneri germogli restavano candidi; mentre i chicchi di frumento generavano filamenti sottili e delicatamente dritti, le lenticchie assumevano un aspetto leggermente riccioluto. Esposto davanti alla grotta, dal lato opposto a quello della lampa legato con un delizioso nastrino colorato per frenarne l’ afflosciamento, questo lavurieddru assumeva poi, con la luce solare, il solito colorito teneramente verdognolo. Anche questo rifletteva un risvolto simbolico in quanto rappresentava una particolare sfaccettatura della devozione popolare: era la consacrazione dell’annata agraria sulla quale, proprio in quel periodo, doveva scendere la prima benedizione divina.

E così il sedici di dicembre aveva inizio la novena in famiglia. Ma sussistevano anche altre alternative. Oltre alla novena mattiniera, che si svolgeva all’alba, in tutte le chiese semibuie del paese e che risultava affollata particolarmente di lavoratori che alla fine si sarebbero recati in campagna (in quei tempi la gente era, forse, un pochino più praticante), c’erano anche le novene rionali celebrate davanti alle edicolette della Madonna e di S. Giuseppe.

Questi ultimi riti, alcuni dei quali evidenziati da minuziosi preparativi, venivano ripetuti tutti gli anni nei posti ritenuti più «climatici» al riparo della pioggia: sotto l’arco dei Benedettini, ad esempio, o sotto quello di via Collegio Maria sottostante la Madrice Vecchia, o sotto l’altro della Madunnuzza dû Muntisirratu – la Madonna del Monte Boscoso, di origine spagnola – ma non facevano eccezione i numerosi luoghi a cielo aperto.

Le famiglie del vicinato cooperavano per la buona riuscita e convergevano, poi, ogni sera, per meditare i momenti di questo sublime mistero divino.

Presenziavano a ritmare i canti due o tre bannisti del locale Complesso Musicale Cittadino, abitanti nel quartiere: erano sufficienti un clarino, un basso ed un tamburo, oppure u trummuni (flicorno tenore) e la grancassa, o ancora u bummardinu (flicorno baritono) e qualche altro strumento di accompagnamento. Raramente i musicanti arrivavano a cinque o sei in quanto ognuno si impegnava nelle vicinanze della propria abitazione: erano i tempi in cui la gente era convinta che u picca abbasta e u giustu macari assuverchia (il poco basta e persino il giusto è anche più di quanto occorra) e ciò pure perché quelle note strumentali – anche le più stonate – in mancanza di altra musica di qualsiasi genere, sembravano offrire autentiche sensazioni di melodie paradisiache.

Ed in quelle opalescenti assemblee, raccolte in ascetica commemorazione, si notavano tante persone, che, pur battendo i piedi sul selciato e soffiando continuamente sulle mani intirizzite per il gelo, si stagliavano tuttavia, puntigliosamente attente, nella controluce caliginosa del fioco fanale semispento; e si sentivano le loro preghiere e i loro canti, che, anche se non del tutto convincenti ed affiatati, ravvivavano, però , la vita nelle strade.

Spesso un asino della vicina stalla (ce n’erano parecchi – quasi una porta sì ed una no), provocato nell’amor proprio, lanciava una sfida sonora alla comitiva: ma nessuno si sarebbe mai sognato di lasciar passare per il cervello l’idea di raccoglierla con un accenno d’ilarità: ci si era abituati a quei ragli come oggi al rombo dei motori, e, poi, allora, la fede religiosa era veramente tanta, tanta, somma per poterla dissacrare bassamente! Fra l’altro tutti potevano piazzarsi tranquillamente sulla pubblica via senza essere disturbati dallo scorrazzare delle automobili, in quei tempi ancora ignote, e dalle quali, stranamente, nessuno presentiva il prepotente bisogno di «indossare», da mane a sera, l’ultimo lussuoso rifinito modello.

In quei giorni che cosa si cantava? Che cosa si recitava?

Veniva ripetuto a memoria, secondo la tradizione delle fonti orali, un inno diventato popolare che, storpiato, talvolta, in forma irrazionale, non ne sminuiva però gli intenti devozionali. In quei giorni, ormai sbiaditi, quasi tutti erano ancora analfabeti: ma l’interessante era partecipare: imbacuccati gli uomini nelle affumicate cerate e negli scapolari d’orbace; ben cautelate le donne in pesanti «fadette» che scendevano a lambire le pietre del selciato irregolare e strette negli ampi scialli arabescati, â turca, o nei guardaspaddri dalle «pedenate» (frange) spagnoleggianti; vispi i ragazzini che, quali puledri, gioivano e si sospingevano con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni lunghi al garretto, avvolti nelle sciallette di lana grezza, quasi uniformi essendo state lavorate a mano e tinteggiate con sommacco e mallo di noci bolliti e ribolliti. E tutti, grandi e piccini, vecchi e giovani, uomini e donne (ci scappava anche l’occasione «galeotta» per una rapida, furtiva, languida occhiata fra due adolescenti che se la «intendevano»), proprio tutti, recitavano e cantavano quel poemetto melodico, suddiviso in nove parti, una per ogni serata…

Continua

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