Castelbuono 200 anni fa a cura del Prof. Orazio Cancila

Castelbuono 200 anni fa a cura del Prof. Orazio Cancila

Pubblichiamo di seguito la relazione che il professore Orazio Cancila avrebbe dovuto tenere sabato marzo 2014 in occasione del bicentenario della nascita di Francesco Minà Palumbo ma che, per motivi contingenti, non ha potuto svolgere. Si tratta di una analitica ricostruzione della situazione socioeconomica del paese nella prima metà del XIX secolo che contiene anche l’esplicito invito all’Amministrazione comunale a volere correggere il marchiano errore dovuto alla denominazione di Palazzo Turrisi Colonna che costituisce un vero e proprio falso storico.

 

Francesco Minà Palumbo: la nascita, la famiglia

Francesco Minà Palumbo nacque nel 1814 a Castelbuono, dove fu battezzato il 10 marzo con il nome di Francesco Vincenzo, che ricordava quelli dei due nonni, il defunto mastro Francesco Minà e mastro Vincenzo Palumbo. Era figlio del venticinquenne falegname mastro Antonino Minà e della casalinga sedicenne Teresa Palumbo Minà, cugini entro il quarto grado. I Minà, quasi certamente originari della Calabria, presenti a Castelbuono almeno sin dal Cinquecento, erano artigiani agiati da più generazioni e in forte ascesa economica e sociale Il nonno mastro Francesco nel 1764 aveva infatti potuto permettersi la costruzione di un sepolcreto familiare in una chiesa locale – indubbio segno di distinzione che consentiva di sfuggire alla fossa comune – e più tardi anche le notevoli spese per il conseguimento della laurea del figlio Angelo e dell’ordinazione sacerdotale dell’altro figlio Emanuele, che al fonte battesimale fece poi da padrino al piccolo Francesco Vincenzo. Lo stesso mastro Antonino era capace di leggere e scrivere ed evidentemente disponeva di diverse fonti di entrata, tra le quali sicuramente il lavoro di artigiano non era la più importante.

Anche i Palumbo erano benestanti, forse più dei Minà, e anche Teresa aveva un fratello sacerdote, il canonico don Domenico, che – più che lo zio Emanuele – farà da guida e da primo maestro al piccolo Francesco.

La presenza di un sacerdote in famiglia era già di per sé indice di agiatezza, perché soltanto le famiglie benestanti potevano permettersi la costituzione del patrimonio ecclesiastico necessario per l’accesso di un figlio al seminario. Tra il clero secolare del tempo non c’era infatti spazio per i figli dei poveri, per i quali rimanevano aperti soltanto i conventi dei diversi ordini monastici, peraltro fortemente diminuiti dopo le soppressioni degli ultimi decenni del Settecento.

Nella Castelbuono dell’età moderna il numero dei sacerdoti era rilevante e ancora nei primi decenni dell’Ottocento continuava a essere notevole, se il censimento del 1831, malgrado l’avvenuta soppressione alla fine del Settecento di quattro conventi, registrava la presenza di ben 110 tra preti e monaci e di 23 monache, che equivalgono al 2,21% della popolazione complessiva censita in 6.006 anime. D’altra parte – anche se la maggior parte delle famiglie degli ecclesiastici del tempo non riuscì a emergere oltre sulla scena locale – è indubbio che all’origine della ascesa economica e sociale di parecchie famiglie castelbuonesi ci fosse o il servizio nell’amministrazione baronale o l’aiuto determinante di un parente sacerdote. Lo conferma un rapido sondaggio nei registri di matrimonio del paese: non era raro infatti che dal “mastro” il cui matrimonio era celebrato da un sacerdote con il suo stesso cognome (fratello, zio) nascesse poi un figlio “don”, un medico o un giurisperito che lo zio sacerdote aveva spesso mantenuto agli studi. Il passaggio di un membro di famiglia artigiana o di basso ceto al mondo delle professioni a Castelbuono era solitamente mediato dalla presenza nell’ambito familiare di un sacerdote. Prima cioè la famiglia impegnava tutte le sue risorse per  consentire l’ordinazione sacerdotale di uno dei suoi membri; alla generazione successiva, il sacerdote ricambiava agevolando in tutti i modi l’ascesa economica della famiglia, intervenendo autorevolmente nelle scelte matrimoniali dell’intero parentado e spesso assumendosi l’onere finanziario del conseguimento di un titolo di studio da parte del nipote prediletto. Così dovette accadere anche per il figlio di mastro Antonino Minà, il nostro Francesco Vincenzo Minà Palumbo, futuro medico e poi, in quanto tale, anche “don”, don Francesco Minà, appunto. Con due zii sacerdoti il destino di Francesco era già segnato sin dalla nascita: sarebbe stato medico. Medico, non giurisperito, perché per i figli di artigiani di paese che accedevano all’università, senza quindi una precedente tradizione familiare nel mondo delle professioni, la carriera di medico si presentava molto più agevole di quella di avvocato, anche perché spesso aveva il vantaggio di potere essere esercitata nel paese natio.

Con il fratello sacerdote don Emanuele, mastro Antonino abitava in una comoda casa di proprietà nel quartiere S. Anna (e più precisamente nel tratto finale della attuale via Vittorio Emanuele), nei cui locali a pianterreno nel 1811 risulta già installato un trappeto per l’estrazione dell’olio, che con alcune trasformazioni è rimasto in attività almeno sino agli anni Cinquanta del Novecento. Si trattava di una attività alquanto lucrosa e proprio allora in espansione, perché il marchese di Geraci, signore feudale del paese, era stato costretto da qualche decennio a rinunciare al monopolio nel settore, ritenuto abusivo. I due fratelli possedevano inoltre in comune altre tre case, che concedevano in affitto (una nello stesso quartiere S. Anna, la seconda nel quartiere “delli Cerasi”, la terza nel quartiere Manca); una bottega nel quartiere Terravecchia, cioè nell’attuale via Umberto I o nelle immediate adiacenze, dove probabilmente mastro Antonino esercitava il mestiere di falegname; e ancora È in comune anche con il fratello Angelo – parecchi cespiti rusticani, tra cui partite di ulivi in diverse contrade, vigne a Liccia e alla Barraca e soprattutto un agrumeto a Dula, che costituiva il pezzo più pregiato assieme al trappeto. Quella di mastro Antonino era quindi una famiglia di artigiani da più generazioni, che godeva già di una certa agiatezza, con diverse interessanti fonti di entrata tra le quali – come ho detto – sicuramente il lavoro di artigiano non era la più importante.

A Castelbuono non esistevano ancora scuole pubbliche e perciò dell’istruzione primaria e secondaria di Francesco si occuparono privatamente lo zio don Domenico e forse anche un altro sacerdote, don Antonio Mogavero. Quattro anni dopo la nascita di Francesco, nel 1818, il capitano giustiziere Giuseppe Redanò informava la Commissione di Pubblica Istruzione ed Educazione di Palermo che «che in questo comune non si trovano istituite pubbliche scuole di qualunque classe: sebbene nella passata congrua si stabilì al consiglio di  apprestarsi onze 50 annuali per un mediocre onorario di due persone almeno primarie e secondarie; tuttavia non lo vedo eseguito e la gioventù molto è aggravata; vi sono solamente li reverendi sacerdoti: D. Pietro Prinsinzano, D. Crispino Guarnieri e D. Pasquale Lombardo, che la fan da maestri nelle di loro case, per alcuni particolari giovani». Nel marzo 1819 la Commissione stabilì l’istituzione a Castelbuono di due scuole pubbliche, una primaria a l’altra secondaria, e in novembre il decurionato, che doveva farsi carico del pagamento dei salari, propose «per li primi erudimenti di leggere e scrivere il sac. D. Antonio Criscuolo, D. Angelo Ferrara e il sac. D. Giuseppe Prisinzano collo stipendio di onze 12 annuali; per gli erudimenti grammaticali il sac. D. Pietro Prisinzano, sac. D. Pasquale Lombardo e sac. D. Pasquale Mogavero collo stipendio di onze 18 annuali; per l’eloquenza latina ed italiana il sac. D. Crispino Guarneri, sac. D. Cosimo Failla e sac. D. Giovanni Bonomo collo stipendio di onze 18 annuali, che in tutto formano le onze 48 annuali assegnate nello stato discusso; per il ché si priega S.E. sig. intendente affinché ben tosto si erigessero dette scuole».

I moti insurrezionali della seconda metà del 1820 bloccarono tutto e in dicembre il sindaco Mariano Levante comunicava alla Commissione P.I. «che le scuole comunali destinate alla gioventù ed installate con ordine di S.E. si sono abolite nelle passate vicende; ed a causa dell’impotenza del comune, ove manca assolutamente ogni introito, non si han potuto tutt’ora rimettere; credo perciò essere necessario che il signor intendente ordinasse al decurionato, acciò nella formazione dello stato discusso per l’anno 1821, abbia in considerazione la spesa necessaria per l’esistenza delle scuole». Solo nel 1823 il sacerdote D. Antonio Criscuolo fu ammesso a seguire a Palermo il corso per l’insegnamento primario secondo il metodo lancasteriano, ossia il mutuo insegnamento che utilizzava gli scolari migliori perché insegnassero agli altri. E finalmente nel 1824 era assunto, dopo le informazioni positive della polizia. Ma già Francesco Minà Palumbo stava completando il suo undicesimo anno di vita.

 

Anni difficili: crisi economica e demografica, il terremoto, il rifiuto delle cariche pubbliche

La nascita di Minà Palumbo era avvenuta in un momento di grandi cambiamenti della storia europea che toccavano ovviamente anche la Sicilia e quindi Castelbuono. È appena il caso di ricordare che meno di un mese dopo la sua nascita, Napoleone sconfitto a Lipsia era costretto ad abdicare. Siamo al 4 aprile 1814 e il 30 maggio successivo era convocato il Congresso di Vienna, mentre l’8 dicembre 1816 nasceva il Regno delle Due Sicilie. Castelbuono si era appena liberata definitivamente del plurisecolare vassallaggio nei confronti dei Ventimiglia, marchesi di Geraci e principi di Castelbuono, grazie all’abolizione della giurisdizione feudale nel Parlamento siciliano del 1812, ma non riusciva a riprendersi da una fase di fortissima depressione demografica ed economica. Gli anni iniziali dell’Ottocento in realtà erano stati terribili per Castelbuono. Tra il 1799-1800 e il 1805-06 i registri parrocchiali dei battesimi e dei morti documentano un saldo passivo di ben 1062 unità, che è anche confermato da un censimento a cura dello stesso parroco nell’aprile 1806, quando la popolazione si ritrovò crollata a 6.234 anime dalle 7.080 del 1798. Nel solo 1801-02 si ebbe un saldo negativo di ben 525 anime. La morte colpiva soprattutto i bambini, ma anche numerosi adulti, probabilmente a causa della ruggine che negli anni 1802, 1803 e 1804 si abbatté sulle messi, provocando una serie di carestie che spopolarono interi quartieri.

La forte ripresa economica del decennio 1806-1815 non interessò granché Castelbuono, perché la particolare economia del paese, basata sulla produzione di manna e di olio e sulla pastorizia, non consentiva ai suoi abitanti di trarre grossi vantaggi dalla presenza delle truppe inglesi in Sicilia. Il prodotto più richiesto dal mercato era allora il grano, il cui prezzo raggiungeva valori mai toccati in precedenza, ma i castelbuonesi, lungi dall’avvantaggiarsene come produttori, ne soffrivano solo le conseguenze negative come consumatori, perché da sempre per il loro fabbisogno erano costretti a importarlo dai territori dei comuni vicini. Di contro, la manna, il prodotto per cui anche allora Castelbuono era nota in Sicilia, attraversava una fase di gravissima crisi commerciale, tanto che il suo era forse l’unico prezzo che dalla seconda metà del Settecento, non solo non era aumentato, ma si era sempre più contratto per la scarsa richiesta del mercato. Qualche anno dopo, nel 1822, l’economista comasco De Welz prevedeva prossimo l’abbandono della coltivazione del frassino, «se le facili comunicazioni non si affrettano a renderne utile il travaglio».

La situazione demografica registrava tuttavia un qualche miglioramento, anche se i vuoti del periodo precedente non erano riusciti a colmarsi, tanto che ancora nel 1813, un anno prima cioè della nascita del Minà Palumbo, il Consiglio civico insisteva sulla «minorativa della popolazione, la quale per la sterilità delli tempi parte à emigrata e parte à nel stato d’indigenza miserabilmente morto, per cui vi sono non pochi fondi in economia dispersi e quasi due quartieri di questa Città abbandonati». Nessun aiuto peraltro la popolazione poteva sperare dal comune, la cui situazione finanziaria era ormai al collasso, con entrate annuali di appena 414 onze a fronte di uscite per 824 onze e di un debito verso l’erario di ben 2541 onze.

La depressione economica che colpì l’Europa nel quindicennio successivo al Congresso di Vienna peggiorò la situazione e la caduta dei prezzi dei prodotti agricoli portò altra disoccupazione e miseria. Alle carestie del 1816 e 1817, che causarono un decremento demografico di 253 anime, seguirono le violenti scosse di terremoto dell’8 settembre 1818 e del 25 febbraio 1819 con epicentro proprio nelle Madonie, che provocarono danni per ben 46109 onze e privarono dell’abitazione 84 famiglie, costrette a trovare rifugio in baracche appositamente costruite con fondi statali. I maggiori danni – secondo la testimonianza dell’abate Domenico Scinà, inviato dal governo per uno studio del fenomeno – si ebbero «nelle case antiche del paese vecchio e nelle moderne situate nella parte più eminente, nel rione di S. Anna», ossia nel centro storico e nella zona a monte dell’attuale Via Cavour. Tra gli edifici danneggiati c’erano anche il castello, la cui parte alta con la merlatura venne più tardi demolita per evitarne il crollo, e i due campanili della Matrice nuova, che si preferì non abbattere e rinforzare invece con catene di ferro, con il risultato che l’anno successivo essi crollarono trascinandosi appresso l’intera struttura (facciata, navata centrale, colonne e cupola).

Castelbuono non risulta coinvolta nei moti separatisti del 1820-21, che nell’interno dell’isola sfociarono talora in vere e proprie rivolte contadine e interessarono anche alcuni paesi vicini. Tumulti infatti si registrarono a Gangi già nel settembre 1819 e altri ne seguirono nel luglio 1820 a Collesano (sei morti), a Cefalù (dieci morti), a S. Mauro, a Pollina, a Lascari, ancora a Gangi, a Gratteri, a Caltavuturo, senza considerare i fatti di sangue di Polizzi ben noti alla storiografia. Castelbuono nell’occasione si schierò dalla parte di Palermo e la sua giunta provvisoria fu tra le pochissime che elessero un religioso come proprio rappresentante nella giunta palermitana, il sacerdote Antonio Mercanti. E il barone Mauro Turrisi, ormai residente a Palermo, ma ancora con fortissimi interessi economici in paese, fu uno dei sei deputati palermitani eletti nel dicembre 1820 al parlamento di Napoli, unitamente al principe di Belmonte, al prof. Niccolò Cacciatore, al dr. Gaspare Vaccaro, al ciantro Giuseppe Balsamo e all’abate Domenico Scinà. Scinà era molto amico dei fratelli Turrisi, nella cui casa nel quartiere Terravecchia di Castelbuono aveva trovato ospitalità durante la sua missione di studio dell’anno precedente sulle Madonie.

I lavori di ricostruzione post terremoto dovettero sicuramente offrire un qualche respiro all’economia del paese, ma nel complesso le somme stanziate erano esigue per determinare una svolta decisiva. Ho calcolato in appena 462 onze la spesa complessiva per il rifacimento di opere pubbliche a carico del comune nel periodo 1827-1834, cioè quasi 58 onze l’anno, con un massimo di 243 onze nel 1830, di cui 221 assorbite dalla ricostruzione della volta della chiesa madre.

Ma le cattive annate non davano tregua e nel 1827 il Decurionato denunciava «lo stato miserabile degl’abitanti, e specialmente in quest’anni, nelli quali ha venuto meno il raccolto delle manne e la totale produzione dell’oglio, uniche derrate sù le quali poggia il mantenimento delle famiglie». Né la situazione migliorò negli anni successivi, anzi sembra sia peggiorata, se un anno dopo la popolazione era costretta a nutrirsi di erbe «e si vedono tanti cadaveri ambulanti, mancando il numerario, e per conseguenza [è] venuta meno la fatiga», cioè il lavoro. E ancora nel 1830 «la lunga straordinaria siccità del tempo ha portato la conseguenza in questo Comune e territorio, come senza meno si è verificato in tanti altri, che i seminati dei lini, fabe e legumi sono di già totalmente perduti, quelli del grano ed orzo se non nella totalità almeno in massima parte». In tali condizioni, non solo il lavoro veniva davvero meno, perché gli imprenditori si tiravano in disparte, tanto che nel 1832 le terre comunali non riuscirono ad affittarsi, nonostante il Decurionato (come dal 1818 si chiamava il consiglio comunale) avesse più volte ribassato il piede d’asta; ma si accentuava la mortalità e il saldo tra nati e defunti si chiudeva con pesanti perdite (-128 nel 1828-29; -106 nel 1829-30).

La modesta ripresa demografica avviatasi nel 1818-19 si fermava del tutto e bloccava il recupero dei livelli del 1798, cosicché al censimento del 1831 gli abitanti furono soltanto 6.090, con una diminuzione di ben 990 unità. In verità, i dati dei registri parrocchiali per il periodo dall’1 settembre 1798 al 31 agosto 1831 danno invece un decremento naturale di 760 anime: molto probabilmente, i 230 abitanti mancanti sono coloro che avevano abbandonato il paese anteriormente al 1815, quando altrove l’economia era in forte ripresa per la presenza nell’isola della corte borbonica e delle truppe inglesi, le cui richieste di prodotti locali avevano vivacizzato il mercato e rilanciato l’economia.

Che negli anni Venti dell’Ottocento la situazione del paese fosse davvero critica lo conferma il frequente rifiuto delle cariche pubbliche, soprattutto di quella di decurione. Paradossalmente, si ricorreva all’Intendente non tanto per essere stato escluso, quanto per essere stato chiamato a ricoprire un incarico che in tempi normali si sarebbe magari sollecitato. In occasione del rinnovo di un quarto del Decurionato, ad esempio, dei cinque eletti nel novembre 1827 (Antonio Agrippa, Antonio Torregrossa, Giuseppe Mercanti fu Antonio, Michelangelo Marguglio e Antonio Mogavero), in sostituzione degli uscenti (Giovanni Gambaro, Saverio di Cesare, Vincenzo D’Anna, Onofrio Bonomo e Antonio Collotti), ben tre rifiutarono l’incarico. Antonio Agrippa, multato di onze 6 per essersi rifiutato di prestare giuramento, fu alla fine esonerato per incompatibilità con il fratello Giovanni, che dall’anno precedente rivestiva lo stesso incarico di decurione. In sua vece fu rieletto Antonio Collotti, decurione uscente, il quale eccepì che – a parte le sue precarie condizioni di salute – dal suo ultimo incarico non erano ancora trascorsi i due anni previsti dalla legge vigente. Le sue ragioni non furono ritenute valide e alla fine, nel dicembre 1828, fu costretto a giurare. Giuseppe Mercanti chiedeva l’esonero perché costretto a dimorare a lungo in campagna per accudire alla sua mandria di vacche e capre, ma il sindaco Francesco Marguglio lo obbligò a prestare il giuramento, costringendolo a una seconda supplica all’intendente. In sua vece, fu infine eletto il settantenne mastro Antonino Guzzio, che inizialmente rifiutò sia per ragioni di età e di salute («un visibile tremore di testa che oltre a tanti incommodi lo rende quasi privo delle facoltà intellettuali»), sia perché digiuno delle più elementari norme di diritto amministrativo; ma alla fine fu anch’egli costretto a giurare. Antonio Mogavero non voleva accettare la carica perché aveva un contenzioso con il Comune. Per l’Intendente, l’impedimento non sussisteva più e perciò anche Mogavero fu costretto a giurare, ma cercò ancora di farsi dispensare adducendo di soffrire di apoplessia.

Nel secondo semestre del 1828 e nel primo del 1829 inoltre più volte il Decurionato non poté deliberare per mancanza del numero legale, malgrado l’o.d.g. riguardasse argomenti di rilievo per la vita del comune come l’imposizione delle mete, l’affitto di Milocca per cui non pervenivano offerte, l’approvazione del bilancio, ecc. I decurioni Giovanni Agrippa, Pietro Collotti, Giuseppe Damiani e Antonio Torregrossa furono perciò multati di un’onza per uno (poi condonata) e minacciati di essere chiamati a risarcire i danni sofferti dal comune per la loro assenza, mentre a Francesco Piraino si comunicò che la carica di esattore comunale non giustificava la mancata partecipazione ai lavori del Decurionato. Altre multe furono comminate nel 1829 anche ai decurioni Michelangelo Marguglio, Francesco Turrisi, Gioacchino Albanese, Gaetano Gambaro, Gioacchino Guarnieri e ancora Giovanni Agrippa.

 

L’ascesa di nuove famiglie

Le gerarchie economiche e sociali costituitesi nel corso del secolo precedente stavano lentamente modificandosi e nuove famiglie erano salite alla ribalta (Turrisi, Galbo, Mercanti, Redanò), altre si consolidavano ulteriormente (Collotti-Li Destri, Marguglio, Minà, Levante), ma talune che avevano fatto la storia del paese si avviavano a una lenta decadenza (Collotti-Vitale, Piraino, Guerrieri) e talora anche all’estinzione per cause naturali (Gerardi, Agrippa, Vittimara). Spesso la decadenza di una famiglia non era dovuta tanto a errate scelte economiche, quanto alla divisione dell’asse patrimoniale tra più eredi. E di contro la fortuna di un’altra spesso molto doveva alla concentrazione in un unico erede di più patrimoni. Raramente infatti l’arricchimento a Castelbuono era conseguenza di una attività economica, anche se la seconda metà del Settecento si caratterizza anche in Sicilia come una fase di crescita generalizzata dell’economia.

A parte il marchese, i Turrisi (Vincenzo, Nicolò, dr. Mauro, dr. Pietro, l’abate Giuseppe e il sacerdote Angelo), originari di San Mauro Castelverde, erano ormai con i Collotti la famiglia più potente del paese e quella che meglio nel corso dell’Ottocento si sarebbe affermata come prestigio, inserendosi con i suoi discendenti ai livelli più alti della aristocrazia siciliana e ricoprendo con un figlio di Mauro, Nicolò Turrisi Colonna (1817-89), importanti cariche politiche e amministrative, tra cui quelle di senatore e di sindaco di Palermo. La famiglia Turrisi resta in fondo l’unica famiglia castelbuonese dell’epoca che fosse riuscita a imporsi anche a livello extralocale e costituisce un significativo esempio di mobilità sociale. Il trasferimento a Castelbuono era avvenuto quasi certamente in conseguenza del matrimonio nel 1750 di Antonino Turrisi Anzaldi con Anna Piraino, figlia del barone Pietro Piraino e di Rosa Collotti, che consentiva ai Turrisi di legarsi con la famiglia di più antica nobiltà del paese (Piraino) e con quella più ricca (Collotti). I legami vennero rinsaldati nel 1793 grazie al matrimonio di Concetta Turrisi Piraino, figlia di Antonio, con il barone Michelangelo Collotti Bonomo, suo cugino in terzo grado. Le altre sorelle Turrisi (Caterina, Maura e Michelangela) si ritiravano invece in convento nella vicina Gangi.

Grossi allevatori – secondo gli amministratori comunali possedevano mille capi di bestiame, mentre altri li stimavano in quattromila –, impegnati anche nell’appalto del patrimonio civico (ne assunsero la gestione in gabella nel triennio 1789-91) e «obbliganti del publico panizzo», cioè fornitori del grano necessario alla panizzazione per conto del comune, i numerosi fratelli Turrisi, con l’aiuto anche dello zio sacerdote Tommaso Turrisi Anzaldi (†1808), controllavano a quell’epoca la vita economica e amministrativa del paese. Diversamente dagli altri fratelli, che rimanevano alquanto nell’ombra, Nicolò si distingueva particolarmente: negli anni Novanta del Settecento svolgeva anche le funzioni di procuratore generale del marchese di Geraci e riusciva a concentrare nelle sue mani un notevole potere che ne faceva certamente il personaggio più in vista, e forse anche il più temuto, del luogo, se un suo concorrente nell’appalto del patrimonio civico, mastro Michele Cicero Regina, ne denunciava al Tribunale del Real Patrimonio la «prepotenza in quel paese», cioè a Castelbuono.

La vendita dei beni ecclesiastici da parte dello Stato e l’avvio della dissoluzione del patrimonio del marchese di Geraci tra Sette e Ottocento consentivano ai Turrisi Piraino di trasformarsi da allevatori e gabelloti in grandi proprietari terrieri e di effettuare il grande salto nei ranghi della aristocrazia: il dr Mauro (1771-1843), che già aveva ottenuto in enfiteusi dal priore di Santa Maria della Misericordia il borghesaggio della Misericordia, nel 1796 portava l’estensione della sua tenuta di Marcatogliastro a 20 salme e nel 1799 acquistava il feudo di Gorgo con il castello di Bonvicino, già del vescovo di Cefalù, mentre Vincenzo (1752-1848) si assicurava dal marchese di Geraci il possesso dei feudi di San Giorgio e Ogliastro nel 1805 e di Palminteri nel 1810. E diventavano l’uno barone di Gorgo e Bonvicino e l’altro barone di San Giorgio e Palminteri. Negli stessi anni acquistavano anche l’ex convento dei Domenicani al Rosario e l’orto adiacente (“delizia di flora”), che più tardi sarà affidato alle cure del belga Maurimon e sarà utilizzato dal giovane Francesco Minà Palumbo per i suoi esperimenti botanici. Il matrimonio di Mauro con Rosalia Colonna Romano dei duchi di Cesarò nel 1815 completava finalmente l’ascesa sociale dei Turrisi e li imparentava addirittura con i Ventimiglia: il padre di Rosalia, Luigi, infatti non era soltanto un cadetto del duca di Cesarò, ma era anche figlio di Melchiorra Ventimiglia Spinola, e quindi cugino in primo grado del marchese di Geraci Luigi Ruggero. Mauro si trasferiva definitivamente a Palermo, dove già viveva nella casina dell’Acquasanta il fratello abate Giuseppe, mentre Vincenzo continuava a risiedere nel palazzo sito nella piazza del Collegio di Maria di Castelbuono – dove negli anni Venti era considerato il «principale benestante» del paese – anche se teneva a Cefalù l’incarico di ricevitore distrettuale. Sarebbe ora, a questo proposito, che l’amministrazione comunale si preoccupasse di far togliere dalla facciata del palazzo in cui per quasi mezzo secolo visse Vincenzo Turrisi Piraino la targa che lo attribuisce invece ai Turrisi Colonna, i quali lo ereditarono soltanto nel 1848, non lo abitarono mai, se non come ospiti dello zio, e presto lo vendettero ai Cardella. Quella targa costituisce un falso storico, che non fa onore a Castelbuono!

Altrettanto rapida era l’ascesa sociale di Nicolò Galbo, da mastro a barone nel primo decennio dell’Ottocento. I riveli del 1714 documentano la presenza a Castelbuono di un Nicolò Di Galbo, nullatenente: molto probabilmente era il nonno del nostro Nicolò Galbo, che era analfabeta e veniva qualificato come mastro in occasione della stipula dei capitoli matrimoniali tra la figlia Giovanna e il barone Gaetano Di Stefano l’8 ottobre 1796 e mastro era anche per il sacerdote che nel 1797 redasse l’atto di matrimonio religioso. Mastro Nicolò era però sicuramente persona intelligente, come lo erano anche i suoi fratelli sacerdoti, e nel 1810, quando fu stipulato il contratto di matrimonio tra la figlia Gioacchina e don Emanuele Ventura di Collesano, aveva già imparato a scrivere e poteva apporre la sua firma. I due suoi fratelli sacerdoti si erano affermati molto bene a Messina: Giovanni, canonico e rettore del seminario vescovile, e Paolo, vicario foraneo e ciantro della cattedrale. Tra Sette e Ottocento avevano acquistato a Castelbuono numerosi cespiti urbani, soprattutto nell’attuale via Giovanni Cucco, e rurali, che mastro Nicolò amministrava con saggezza e che alla morte dei due sacerdoti passarono in eredità ai suoi numerosi figli. Il matrimonio della figlia Giovanna con il barone Di Stefano era stato reso possibile dalla cospicua dote che i due zii sacerdoti avevano assicurato alla nipote. In particolare il canonico Giovanni era stimatissimo nella città dello stretto e non è un caso che nel 1806 proprio lui fosse incaricato dall’arcivescovo, dal capitolo della Cattedrale e anche dal Senato di Messina di opporsi a nome della città, nel processo che si teneva presso il tribunale ecclesiastico di Palermo, contro lo smembramento dell’arcivescovato a favore della creazione del vescovato di Nicosia. Grazie alla influenza del fratello canonico, mastro Nicolò l’anno successivo 1807 poté così essere ascritto nella nobiltà di Messina con il titolo di barone di Montenero, una contrada delle campagne della vicina Pollina nella quale egli non doveva possedere più di qualche decina di ettari di terreno.

Nel 1810 il barone Nicolò acquistò dal marchese di Geraci il feudo Difesa del Finale, sempre in territorio di Pollina. Il titolo di barone di Montenero non rimase ai suoi eredi castelbuonesi perché passò al figlio primogenito Antonio, che gli zii avevano fatto studiare e laureare a Messina e che fu intendente della provincia di Trapani nel 1834-39 e poi di quella di Messina. A Trapani la partenza di Antonio per Messina fu molto rimpianta dalla cittadinanza, memore del sostegno da lui concesso a iniziative industriali e agricole di notevole importanza tra cui l’impianto della prima filanda a vapore.

Da Antonio il titolo di barone di Montenero passò al figlio Giovanni (non per caso portava il nome dello zio canonico!), da cui nel 1850 lo ereditò la figlia Raffaella (1846-86), moglie del marchese di Bongiordano Pietro Ballestreros, fratellastro di Ninfa Ballestreros, moglie del barone Nicolò Turrisi Colonna. Le altre due figlie di Antonio sposarono a Messina: Michela Letterio Carsarà Costa, sindaco di Messina, e in seconde nozze il senatore Giuseppe Cianciafarali sindaco di Messina; Teresa il barone Saccano-Stagno.

Limitato all’ambito strettamente locale, ma sicuramente anch’esso rilevante era tra Sette e Ottocento il balzo economico della famiglia Mercanti. I riveli dei terreni del 1811 documentano come, dopo il marchese di Geraci, il barone Collotti e i fratelli Turrisi, il più grosso proprietario del paese fosse lo sconosciuto agrimensore don Paolo Mercanti, che – oltre a parecchi appezzamenti di terreno e partite di ulivi – possedeva il feudo Gonato, ottenuto in enfiteusi dall’Abazia di S. Maria del Parto. Don Paolo, figlio del defunto mastro Mauro e di Anna Maria Cicero Regino, proprio quell’anno aveva sposato Rosalia Morici, figlia del defunto mastro Vincenzo. Quasi certamente quella dei Mercanti era nel Settecento una famiglia di allevatori e di gabelloti: mastro Mauro era figlio di un Giuseppe Mercanti, che potremmo individuare nel curatolo del marchese di Geraci, attivo nel 1740 e proprietario di 50 pecore al momento del rivelo del 1748, quando il figlioletto Mauro aveva appena due anni. Anche il matrimonio di mastro Mauro nel 1769 fu celebrato da un sacerdote dallo stesso cognome, don Vincenzo Mercanti, che era anche laureato in legge e che non è difficile ipotizzare abbia anch’egli notevolmente contribuito all’ascesa della famiglia. Allo stato delle ricerche, a parte la presenza nel consiglio civico del 1802-03, non si conosce altro sul conto di mastro Mauro, che probabilmente continuò e allargò l’attività paterna. È mia impressione però che all’origine della ricchezza di don Paolo non ci fosse tanto mastro Mauro, quanto un Antonio Mercanti, che potrebbe essere un suo fratello e da cui don Paolo avrebbe ereditato. Diversamente da mastro Mauro, Antonio risulta invece alquanto presente nell’ultimo quarto del Settecento come allevatore e affittuario di feudi, attività allora molto redditizie, alla base forse delle fortune di don Paolo Mercanti. E tuttavia la ricchezza di don Paolo non valeva ancora a collocarlo più in alto nella scala sociale castelbuonese, se per il suo matrimonio egli non ritenne di dovere uscire fuori dal suo ceto; né valeva a creargli spazio nella vita amministrativa del paese, dove il suo nome risulta assolutamente assente sino agli anni Venti dell’Ottocento.

 

Il sogno industriale

Per completare il quadro debbono essere segnalate due iniziative industriali che avrebbero potuto rilanciare in maniera decisiva l’economia del paese: la cartiera dei fratelli Vincenzo e Mauro Turrisi a Gonato e la ferriera del barone Michelangelo Collotti a Tornisia.

Di nobiltà recentissima come sappiamo, i fratelli Turrisi non avevano ancora avuto il tempo di dimenticare – come invece accadeva generalmente ai rampolli dell’aristocrazia – che le loro fortune erano dovute alle capacità imprenditoriali degli avi e non esitavano a farsi promotori di nuove iniziative, come nel caso della cartiera, o di partecipare in qualità di soci ad attività promosse da altri, come avvenne per Mauro, presente in una società per azioni costituita nel 1824 per rilevare il lanificio in disuso di Villa Nave (Palermo) e ancora presente nel 1839 come piccolo azionista della Società dei battelli a vapore promossa da Beniamin Ingham e da Vincenzo Florio.

Della cartiera Turrisi conoscevamo l’inizio dell’attività nel marzo 1823 e pensavamo che la decisione del suo impianto fosse maturata successivamente al 1815, ossia con la Restaurazione. Le mie recenti ricerche presso i notai di Castelbuono documentano invece come la decisione fosse invece conseguenza di un regio dispaccio del 28 settembre 1809 che vietava l’esportazione dalla Sicilia degli stracci, ossia della materia prima per la fabbricazione della carta: provvedimento già in vigore dall’anno precedente per il solo Val di Noto su richiesta della cartiera di Comiso. Evidentemente, in Sicilia si registrava una carenza di carta, che dal 1806 non era più possibile importare dal napoletano in mano ai francesi e in guerra con re Ferdinando di Borbone, rifugiatosi nell’isola con la sua corte sotto la protezione degli inglesi. Nel febbraio 1811, la cartiera Turrisi risultava in costruzione in località Passo della cava o Martinetto, in un’area ritenuta la più adatta «per essere in un luogo aerefratto, necessario per fermare tenacemente il glutine della colla nella formazione della carta, e sufficiente acqua all’oggetto». Più che di una nuova costruzione si trattava in realtà della ristrutturazione –su progetto sembra dell’architetto camerale Giuseppe Patti – dell’antico edificio della fonderia del Martinetto affidata a una società di muratori capeggiata dal palermitano mastro Michele Supino, il quale poco dopo cedette la sua quota ai soci, i monrealesi mastro Girolamo Lorico, mastro Filippo Neri, mastro Domenico Lo Re e mastro Carmelo Comandè. La presenza di manodopera proveniente da Monreale si era resa opportuna per la competenza plurisecolare dei monrealesi nella costruzione di mulini ad acqua: anche la cartiera infatti utilizzava l’acqua come forza motrice. L’area da essa occupata faceva parte però del feudo Gonato, che come sappiamo nel 1797 l’abate di Santa Maria del Parto aveva concesso in enfiteusi a don Paolo Mercanti, il quale a lavori in corso, non potendo opporsi alla volontà del governo – «per agevolare, la costruzione delle cartiere voluta da S.R.M. si contenta di lasciare al barone don Vincenzo Turrisi il suolo, solo nel punto dove già esistevano le antiche fabbriche [della fonderia]» e concedeva anche l’uso dell’acquedotto – ma pretese l’impegno del barone al risarcimento di danni eventualmente arrecati alle colture del feudo e agli alberi, di cui vietava espressamente il taglio.

Nell’agosto 1811 i lavori così fervevano e già si era vicini al completamento della copertura, se mastro Stefano Palumbo si impegnava ad allestire una fornace nella Portella di San Focà per la cottura di «tutta quella quantità di canali, canaletti, mattoni, palmareschi, mattoni grossi ed altra roba di stazzone che necessita al compratore barone Turrisi per le nuove fabbriche della cartiera che si sta costruendo nel sito Martinetto», mentre in settembre il barone Vincenzo, che seguiva in loco i lavori, acquistava le canne per i soffitti e 120 tavole e inoltre versava ai monrealesi o. 147 per i lavori effettuati nei due mesi precedenti e ancora altre o. 101 il mese successivo. Nella ristrutturazione dell’antico edificio della fonderia, che ancora oggi è possibile ammirare sulla sponda del fiume di Gonato (o dei Mulini), i Turrisi investirono ben 30.000 ducati, compresa anche la spesa per l’attrezzatura, parte acquistata all’estero, parte costruita in Sicilia sotto la direzione di un esperto chiamato appositamente da fuori. Non so però perché la cartiera, quasi pronta nel 1811, abbia ritardato l’inizio della sua attività sino ai primi mesi del 1823, quando finalmente furono acquistati «quintali 20 del peso di 100 rotoli a cantaio tela di lino di buona qualità, a condizione mercantibile e recettibile, straccia sian di cotone o misti e canovacci; ma tutta scelta di lino sia nazionale sia estera adatta all’uso di tirare carta da scrivere sotto la revisione del signor Girolamo Picardo, capo mastro della cartiera del barone, sita nel Martinetto». Picardo, nativo di Voltri, si era trasferito per quattro anni a Castelbuono impegnando a favore dei Turrisi «l’opera sua personale tanto da mastro d’ascia che da mastro di carta in detta fabbrica, nonché quella della di lui moglie e figli per quietarne la carta, ammannire i fogli incollati, sciogliere gli stessi, e altri lavori corrispondenti in proporzione all’età». Con lui infatti si erano trasferiti a Castelbuono la moglie e i figli per lavorare anch’essi nella cartiera, dove alloggiavano.

L’avvio dell’attività avvenne senza che ancora i proprietari avessero ottenuto dal governo alcuna delle agevolazioni richieste sin dal 1821, che peraltro si limitavano a una privativa ventennale e a provvedimenti fiscali per regolare l’esportazione e l’importazione di carta e di materia prima. Contemporaneamente, ad esempio, per impiantare una cartiera nelle vicinanze di Palermo, che non risulta sia mai stata costruita, Giuseppe Naro Perres chiedeva al governo anche i locali gratuiti. I costi d’esercizio si rivelarono subito piuttosto pesanti per l’azienda, perché agli apprendisti locali bisognava fornire maestri esperti, che continuarono a reclutarsi a Voltri, da dove giunsero nel febbraio 1824 anche Carlo Tomati con la famiglia e nel 1831 Giuseppe e Andrea Molinari, padre e figlio. Andrea sposò Castelbuono e uno dei suoi discendenti è l’avvocato Schicchi. Ma era soprattutto l’alto prezzo raggiunto dalla materia prima (gli stracci) a creare grosse difficoltà. Subito dopo l’entrata in funzione della fabbrica castelbuonese, i commercianti, con l’intento di metterla in crisi e costringerla alla chiusura cominciarono a farne incetta per esportarla. Così pensava almeno il Luogotenente generale di Sicilia e certamente il suo sospetto non era infondato: «sapendo i negozianti stranieri per mezzo dei loro corrispondenti in questa parte dei reali dominii che verrebbe ad essi a scemare il traffico degli stracci e vedendo essi altresì annientato il commercio della loro carta collo stabilimento di una cartiera siciliana, tanto per l’uno che per l’altro oggetto incaricherebbero i loro commissionati in questa parte dei reali dominii a comprare anche a prezzo strabbocchevole gli stracci onde privarne la nostra cartiera ovvero farglieli comprare a tale prezzo che i fratelli Turrisi scorgendo in risultato infruttuosa la loro speculazione se ne ritrarrebero in breve».

I Turrisi, che già pensavano alla costruzione di due altre cartiere nelle vicinanze, chiesero allora al governo (giugno 1823) la reiterazione del decreto del 1809 che vietava l’esportazione degli stracci; la franchigia nei porti siciliani dai dazi governativi e comunali per le esportazioni e importazioni della carta da essi fabbricata e degli stracci per uso della fabbrica; l’uso obbligatorio per la pubblica amministrazione dell’isola di avvalersi di carta prodotta in Sicilia, come avveniva nel napoletano; il raddoppio dei dazi di immissione della carta di produzione estera; l’autorizzazione a costruire una chiesetta rurale in prossimità dell’opificio; l’esenzione perpetua dalla fondiaria e dai dazi di consumo; la concessione per pubblica utilità, con regolare indennizzo, di alcune terre limitrofe appartenenti sempre a don Paolo Mercanti e al comune di Castelbuono, necessarie per la costruzione delle nuove cartiere.

Il problema dell’esportazione degli stracci si era riproposto più volte nel continente su richiesta delle cartiere napoletane, che nel 1820 avevano ottenuto l’imposizione di un dazio di 8 ducati a cantaro sull’esportazione di stracci bianchi e di 3 ducati per gli stracci neri, che aveva suscitato le proteste dei commercianti. In Sicilia, i commercianti interessati all’esportazione degli stracci non aspettarono il provvedimento e, avuto sentore della richiesta dei Turrisi e dell’appoggio che a essa forniva l’Intendente della Valle di Palermo, passarono immediatamente al contrattacco, già prima che il Luogotenente generale principe di Campofranco esprimesse al governo di Napoli il suo parere favorevole alla chiusura temporanea dell’esportazione. Con un lungo e articolato esposto firmato dai protagonisti stranieri della vita commerciale palermitana del tempo, essi contestavano come «misura rovinosa» un’eventuale proibizione della esportazione degli stracci, che invece era libera in tutti i paesi produttori di carta, come dimostravano i casi di Livorno e Genova; inoltre la cartiera Turrisi, la sola che dicevano esistesse in Sicilia, non avrebbe mai potuto assorbire l’intera produzione di stracci calcolata in 50.000 cantari. Si tratta di argomentazioni riprese integralmente poche settimane dopo dalla Camera di Commercio di Messina, che reclamava anch’essa a nome dei suoi aderenti contro il temuto provvedimento. Non sono in condizione di accertare se a Livorno e a Genova l’esportazione fosse davvero libera. Generalmente gli stati europei la proibivano o la rendevano difficile con forti dazi, allo scopo di proteggere l’industria locale. In ogni caso, il paragone non è proponibile, perché nessun paese produttore di carta avrebbe mai pensato di importare grossi quantitativi di stracci da Livorno o da Genova, dove sarebbe entrato in concorrenza con le cartiere locali, mentre era certamente assai più agevole importarne dalla Sicilia, dove, poiché esistevano pochissime cartiere, la richiesta interna era assai limitata e i prezzi più contenuti. Prezzi che potevano anche farsi lievitare artificialmente – come stava accadendo – per mettere in grave difficoltà la fabbrica siciliana.

Se è poi vero che le poche fabbriche siciliane non erano affatto in condizione di assorbire l’intera produzione di stracci dell’isola, ci voleva sicuramente notevole faccia tosta ad affermare che quella dei Turrisi era la sola cartiera allora esistente in Sicilia. Diversamente dal continente napoletano – dove già ai primi del XIX secolo si contavano ben 200 opifici, che ci danno l’esatta misura del diverso grado di sviluppo industriale realizzato dalle due parti del regno borbonico – nell’isola l’industria cartaria era ancora pressoché inesistente, ciò che – come osservava acutamente il Calvi, più tardi leader dei democratici siciliani e allora collaboratore del periodico della polizia – aveva ripercussioni molto negative sulla diffusione dell’istruzione, perché «mentre ci assoggettisce al pagamento di un regolare tributo agli esteri fabbricanti, non può che circoscrivere in angusti limiti la pubblica istruzione ed impedire la moltiplicazione e la prosperità delle intraprese tipografiche, alle quali tanti altri non lievi ostacoli si oppongono nel nostro stato presente». E tuttavia l’asserzione dei commercianti palermitani e della Camera di Commercio di Messina sulla inesistenza di altre cartiere in Sicilia si rivela spudoratamente falsa.

Con la stessa impudenza essi insinuavano inoltre che i costi dei Turrisi dovevano essere necessariamente inferiori rispetto a quelli delle industrie straniere, le quali dovevano sostenere sia le spese di trasporto degli stracci dalla Sicilia, sia le spese di trasporto e di dogana della carta in Sicilia, oneri tutti che la cartiera locale non aveva. Non era invece così e lo si comprendeva molto bene anche in Sicilia, se il Calvi riteneva “evidenti” «i vantaggi [del produttore straniero] nelle spese di produzione, a fronte dell’intraprenditor nazionale». L’elencazione di tali “vantaggi” ci appare oggi come un lucido esame delle motivazioni che bloccavano o rendevano difficile lo sviluppo industriale dell’isola e che possiamo senz’altro sottoscrivere: «l’abbondanza de’ capitali in ispecie e di tutti gli altri valori circolanti, indipendentemente da ogni altra causa, mantiene nelle nazioni rivali assai basso l’interesse del denaro; la mano d’opera impiegata in questa specie d’industria siegue la legge della concorrenza e non esige straordinarie mercedi; l’antichità delle fabbriche ha già indennizzato le spese primitive di creazione; la molteplicità de’ mercati permette de’ ribassi di prezzo, che render possono i nostri opificii incapaci a sostenere la lotta. Non è difficile il comprendere di quanto peso sieno questi vantaggi trattandosi dello spaccio di un prodotto, in cui il prezzo della materia prima non entra che come uno de’ meno importanti elementi; ed è ugualmente facile il persuadersi che il prezzo enorme della mano d’opera chiamata dall’estero, il costoso nolo de’ capitali e tutti i pesi di un opificio nascente, sono tante forze che tendono alla distruzione dell’intrapresa [siciliana]».

In conclusione, i commercianti ritenevano più corretta l’imposizione di un nuovo dazio sulla carta importata dall’estero. Il governo di Napoli, invece qualche mese dopo, nell’ottobre 1823, non chiuse l’esportazione degli stracci, ma ne elevò il dazio a un’onza e dieci tarì per cantaro, ossia a 4 ducati. Si trattava di una aliquota pari alla metà di quella in vigore contemporaneamente sulla terraferma a protezione delle cartiere napoletane, che come si è detto era stata portata a 8 ducati. Ma la Camera di Commercio di Messina continuava a manifestare il suo disaccordo e chiedeva una riduzione del dazio, allo scopo «di moderare l’esportazione, ma da non impedirla interamente». Fu così che la nuova tariffa doganale del 1824, mentre lasciava inalterato il dazio di 8 ducati per il napoletano, dimezzava a 2 ducati quello per la Sicilia, con il risultato – rileva il Giuffrida – di provocare, «con l’aumento dell’esportazione della straccia, quello considerevole del suo prezzo … rendendo così precarie le condizioni della cartiera che produceva in pura perdita».

Qualche anno dopo, nel 1827, un cognato dei fratelli Turrisi, il barone Michelangelo Collotti, richiese una privativa per «l’introduzione delle fabbriche di ferro [in Sicilia], ove non ne hanno mai esistito». Si trattava dell’«arte di costruire il ferro tirandolo dalla vena minerale, a somiglianza di quello di Moscovia», in una ferriera che egli pensava di impiantare in località Tornisia, presso Castelbuono, lungo il fiume dei Mulini, le cui acque nella parte alta azionavano le cartiere dei Turrisi. Allo scopo, contrasse contemporaneamente una società con il “trafficante” genovese Lorenzo Alessandro Rossi, da alcuni anni a Palermo, dove commerciava all’ingrosso ferro, piombo, cuoi, munizioni.

In particolare, il Collotti si obbligava a costruire la ferriera e i corsi d’acqua a sue spese, sotto la direzione di esperti chiamati da Genova, a fornirla di carbone e a mettere a disposizione della società i suoi magazzini di Finale per depositarvi tanto la materia prima («la terra minerale, ossia la vena»), quanto il prodotto finito. A sua volta il Rossi si impegnava a reclutare gli esperti e i lavoranti genovesi e ad acquistare, a spese del Collotti, i macchinari necessari al funzionamento della ferriera. Inoltre, a spese della società, si sarebbe occupato dell’acquisto della materia prima nell’isola d’Elba e del suo trasporto sino allo scaro di Finale, da dove poi il Collotti si sarebbe preoccupato di farla trasportare sino alla ferriera. A sue spese, il Rossi avrebbe dotato la ferriera di scorte iniziali consistenti in 500 cantari di “vena” e 100 di “ferraccio”. Si sarebbe infine occupato della vendita del prodotto finito.

Le spese effettuate dal Collotti in quanto proprietario della ferriera avrebbero costituito un capitale fruttifero, i cui interessi annui al sei per cento sarebbero gravati sulla società, unitamente all’affitto dei magazzini di Finale; mentre le scorte approntate dal Rossi avrebbero costituito un capitale con interessi al sette per cento a carico della stessa società. Tutte le altre spese di produzione, come pure quelle per ottenere la privativa e di manutenzione ordinaria dell’impianto, sarebbero state a carico dei due soci in ragione del 50 per cento ognuno. Gli utili sarebbero stati ripartiti anch’essi al 50 per cento.

Già il 2 novembre 1827, il capo maestro genovese Giovan Battista Piombo giungeva a Tornisia e si metteva subito all’opera. Ma nel febbraio successivo al barone Collotti cominciarono a venir meno i capitali: non era infatti in condizione di inviare 20 onze a Genova alla moglie del Piombo in conto del salario e di saldare le circa 10 onze anticipate dal Rossi, se prima non avesse venduto l’olio appena raccolto. Incaricava perciò il Rossi di trattarne la vendita a Palermo con il noto commerciante Nicolò Raffo e più tardi anche di prendere a mutuo per suo conto 400-500 onze dal genovese Giovan Battista Magnani, concedendogli l’ipoteca sulla costruenda ferriera e su altri suoi beni. Chiamato dal fisco a pagare 300 onze, il barone era costretto a mettere in vendita il suo bestiame e, non volendo (o non potendo?) «pagare a’ vetturali la giusta mercede», lasciava per quasi un anno sulla spiaggia del Finale le scorte di materia prima che intanto il Rossi, secondo l’impegno assunto, aveva fatto venire dall’isola d’Elba e che dovevano essere trasportate a Tornisia.

In mancanza di capitali adeguati, i lavori di costruzione della ferriera andarono molto a rilento e soltanto nel giugno 1829, a spese del Rossi, poterono acquistarsi a Livorno i macchinari. Collotti confessava candidamente di non avere un soldo, neppure le 20 onze necessarie per il soggiorno a Palermo del figlio Pietro, che rimaneva perciò bloccato a Castelbuono. In paese non era assolutamente possibile trovare denaro a prestito, mentre a Palermo forse il Rossi sarebbe riuscito a trovare una certa somma anche all’interesse elevatissimo del 12 per cento. Altrimenti egli sarebbe stato costretto a svendere gli ultimi suoi nove buoi alla prossima fiera di Gangi.

Intanto a fine 1829 giungevano a Castelbuono i lavoranti ingaggiati a Genova dal Rossi per avviare la produzione. Ma la ferriera non era ancora pronta e «il barone, vedendosi costretto ad alimentarli, li impiegò in lavori di campagna di suo esclusivo interesse, facendo però soffrir loro il più cattivo trattamento … dava loro stentatamente da mangiare, ma niun comodo per dormire e ripararsi dai rigori invernali». Per di più la pioggia torrenziale del 2 gennaio 1830 devastò l’imbocco del condotto dell’acqua appena costruito, gettando il Collotti nella più nera disperazione: «non contate più sulla mia persona – scriveva al Rossi, subito dopo – io sono uno scheletro spolpato da tutte le parti, tutto è alla vostra cognizione … Io non ho più forza, non che di sostenere la famiglia dei Genovesi, ma né anche la mia medesima; se dimani … verranno che vogliono al solito un tarì dodici, o pasta, o carne, o pane, io son costretto a negarmi per la necessità in cui mi trovo. Vi prego a non far parola di tutto ciò a mio figlio Pepè, per non richiamargli quelle lacrime che tutta la mia famiglia dirottamente sta versando».

E come se tutto ciò non bastasse, il 18 febbraio successivo crollarono anche il condotto dell’acqua e un muro di sostegno. Un nuovo intervento finanziario del Rossi consentì di riavviare i lavori. E così, anche se ancora non erano state costruite le stanze per i lavoranti e i magazzini e neppure l’imbocco del canale, tra maggio e giugno 1830 – grazie a un imbocco provvisorio – finalmente «si dié opera a fare il saggio di tutte le diverse lavorazioni di ferro, e se ne ebbe un’ottimo risultamento, trovandosi riuscite le diverse qualità di ferro lavorato eguali e forse superiori a quelle di Russia». La produzione doveva riprendere a settembre, dopo il completamento dei lavori. Ma il Collotti, sempre più a corto di capitali, non era neppure in condizione di somministrare gli alimenti agli operai genovesi, che abbandonarono la ferriera e pretesero il saldo dei loro salari dal Rossi, citandolo in giudizio come colui che li aveva ingaggiati a Genova. E intanto si verificava una improvvisa caduta del prezzo del ferro straniero sul mercato siciliano, che appare quanto meno sospetta.

Mentre Rossi chiamava in causa il barone e la giustizia faceva il suo corso (non ancora conclusosi nel 1834), Collotti, al quale la privativa richiesta nel 1827 non era mai stata concessa, nell’ottobre 1830 avanzò al governo nuove richieste per ottenere la proibizione dell’esportazione di ferro vecchio dalla Sicilia o l’imposizione di un dazio di tarì 15 a cantaro, l’esenzione dei dazi sul ferro vecchio importato, l’aumento dei dazi di importazione sul ferro estero sino ai livelli in vigore sulla terraferma napoletana, la privativa per 15 o 10 anni, un premio di onze 1000 o un mutuo di onze 1333.10 pagabile in ferro per un valore di onze 200 l’anno. Si accertava che in Sicilia si consumavano annualmente 36.684 cantari di ferro, mentre la produzione della ferriera non superava i 2.000, e che il ferro vecchio esportato ammontava a 180 cantari l’anno. Poiché la produzione della fabbrica castelbuonese era assolutamente insufficiente ai bisogni dell’isola, il governo nell’ottobre 1834 non riteneva conveniente un aumento del dazio di entrata sul ferro estero e considerava nocivo agli interessi del fisco il divieto di esportazione del ferro vecchio. Era disposto soltanto ad accordare un mutuo di onze 1400, pagabile in ragione di onze 200 l’anno in denaro o in ferro, da valutarsi al prezzo corrente sul mercato con uno sconto di tarì 10 a cantaro; e ancora per tre anni un premio di tarì 4 per ogni cantaro di ferro messo in vendita dalla fabbrica, purché la produzione annuale fosse superiore a 500 cantari.

La fabbrica non riprese più l’attività: nel luglio 1833, il barone Collotti partecipò in verità all’Esposizione di Palermo, presentando delle barre di ferro, ma si trattava dei prodotti dell’attività del 1830.

Nei primi anni Quaranta chiudevano anche le cartiere dei Turrisi: la chiusura non può però imputarsi alla mancata protezione daziaria, perché le due cartiere (era stata intanto costruita anche la seconda) erano riuscite a continuare ancora l’attività per oltre un quindicennio, con una produzione annua di cinque-seimila risme di carta per ognuna, che si vendeva a tarì 22 la risma il tipo fioretto e a tarì 18 il tipo mezzo fioretto. La crisi si ebbe, quando negli anni Trenta entrarono in produzione le moderne cartiere del napoletano sul Fibreno e sul Liri, capaci di produrre sino a 300 risme di carta al giorno a costi molto più contenuti, cosicché come le arretrate cartiere della Costiera amalfitana, che non erano riuscite a rimodernarsi, anche quelle dei Turrisi furono costrette a sospendere l’attività. Con il prezzo della carta crollato a 10 tarì la risma, la fabbrica castelbuonese – che utilizzava ancora i mortai e le pile e non aveva voluto rinnovare le attrezzature e i sistemi di produzione – registrava una perdita di 8 tarì a risma, che convinceva i titolari dell’opportunità di porre la parola fine a una impresa che si rivelava fallimentare (1842).

Il sogno industriale dei castelbuonesi era svanito!

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