Castelbuono, Luglio 1943 – seconda parte


CASTELBUONO, LUGLIO 1943 seconda parte [prima parte qui]
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 1 LUGLIO 1988]

L’indomani, alle prime luci dell’alba, le famiglie timida­mente cominciarono a rientra­re. Intanto, però, le truppe nemiche, sbarcate nell’isola, travolgendo ogni strenua e valoro­sa difesa italo-tedesca, avanzavano            velocemente    e, dopo qualche settimana, si venne a sapere che i primi carri armati erano giunti alle porte dei paesi viciniori. I tedeschi, anche i pochissimi fermatisi a Castelbuo­no, sembravano sempre più decisi ad una personale resistenza ad oltranza, e ciò, secondo gli ordini, doveva servire a ritardare i tempi della conquista della Sicilia per agevolare la riorganizzazione oltre lo Stretto.

La popolazione castelbuone­se, temendo una spaventevole catastrofe ed una inumana carneficina, andò a sollecitare, al­lora, il buon Padre Arciprete Mons. Francesco Cipolla, il maresciallo dei Carabinieri e il pretore Cav. Nicola La Ferlita, pregandoli di intercedere pres­so i tedeschi, dicendo che, se avessero avuto voglia di com­battere, che lo facessero pure, era giusto per loro, ma, ad evitare un macello fra la popolazione civile, composta di donne, vecchi e bambini, che si allonta­nassero almeno dal paese e che andassero ad opporsi in aperta cam­pagna. Il ser­gente tedesco ricevette gli ambasciatori del popolo con un gra­zioso sorriso, ma altrettan­to grazioso e irremovibile fu il suo di­niego: i tre ri­tornarono in­dietro, delusi, disorientati e pensierosi.

Il vecchio Padre Arci­prete decise, però, di tentare un’ultima carta: vestito con i paramenti sacri, preceduto da mastru Totò u saristanu (Spitale) che, con una mano, reggeva la croce d’argento delle funzioni liturgi­che e, con l’altra, tirava le redi­ni di un mulo, l’indimenticabile Monsignore volle andare ad of­frire due rotondi barilotti di vino, i quali, facendo bella mo­stra di se stessi sulle «scalette» del quadrupede, colpirono su­bito il palato teutonico: e quel­lo che non poté la dolce, cri­stiana, parola umana, lo pote­rono i tre frizzanti decalitri di vino: i tedeschi smontarono ed andarono via, lasciando liberi anche i militari italiani di comportarsi secondo i propri piani.

Gli eventi intanto in quei giorni correvano sul filo di una velocissima rotaia: era il 22 lu­glio, giorno in cui, al balcone del Castello, tradizionalmente, si doveva appizzari (esporre) la bandiera della Madre Sant’An­na: ma nessuno parlava di fe­sta, proprio nessuno ne aveva voglia!…

Ed ecco, in quello splendido pomeriggio di sole, spargersi una notizia, attesa e tuttavia incredibile, che fece sobbalzare tutti: proveniente da Isnello, una colonna americana si avvicinava percorrendo, in forza, lo stradale di ponente. Il trame­stio, il vocio, la preoccupazio­ne generale arrivarono allo ze­nit. Con alcuni amici ci affac­ciammo alla Madonna del Palmento (allora, oltre il pon­te, la Chiesa era l’unica costru­zione esistente): dovunque mu­nizioni di mitragliatrici sparse sotto gli alberi o nascoste tra le siepi e i tre o quattro cannoni abbandonati sotto gli ulivi: dei nostri soldati nessuna traccia. Poco dopo il ponte di don Tu­masinu, al margine della cunetta, guardando il castello Le­vante, si notava una strana cro­ce rudimentale piantata sopra un lungo mucchio di terra mos­sa di fresco. Una scritta affret­tata: tre parole «Karl Franz» ed un cognome esteso e compli­cato, difficile da memorizzare. Sotto, quasi invisibile, chiudeva la data di due giorni prima: vo­leva ricordare che lì sotto giace­va uno sventurato soldato tede­sco, sepoltovi dalla pietà dei suoi commilitoni!…

Il curioso movimento au­mentava: la gente voleva saperne di più. Nella mattinata, al posto dei mortaretti di Sant’An­na, si erano uditi tre prolungati e spaventosi boati: le retroguardie tedesche avevano fatto saltare i ponti di don Marcu (Speciale), quello della Cava e l’altro della Nuciddra. Tena­ci e caparbi combattenti non avevano rinunciato alla speran­za di ritardare con ogni mezzo l’avanzata nemica!

Il sole, calando all’orizzonte, deponeva gli ultimi raggi sulla parte occidentale del paese. Quivi, i castelbuonesi, su sugge­rimento di chissà quale esperto benpensante, avevano già provveduto a fare apparatu (esposizione) di bianche len­zuola: erano uno spettacolo. Dalle basse casette dû Sarvatu­ri su, su, fino a quelle più in alto della Calateddra, centi­naia e centinaia di candidi teli segnalavano, premurosamente e inequivocabilmente, la resa incondizionata!… Non si notava alcuna divisa militare. Gli anziani tacciavano ripetutamente gli adolescenti, petulanti ed avventati, di tremenda inco­scienza e di inutile spavalderia: da un momento all’altro pote­va arrivare, ben a ragione, qualche cannonata o qualche scarica di mitragliatrice!

Poco prima dell’imbrunire, in perfetto assetto di guerra, mitragliere e lunghi nastri di caricatori sul cofano delle mac­chine, i soldati con il dito sul grilletto, alcune camionette americane, in avanguardia, toccarono le porte del paese. La gente, vedendoli arrivare, si dileguò; solo qualcuno, più teme­rario o più coraggioso, restò sullo stradale o si fermò a spiare dallo spiraglio della finestra di casa. Gli americani parlavano uno strano dialetto siciliano o un vernacolo napoletano divertente. Chiesero di soldati e carabinieri e si informarono dei tedeschi. Imposero immediata­mente il coprifuoco: nessuno poteva permettersi di circolare e ciò fino allo spuntar del sole dell’indomani; nessuno, ma a questo si era già abituati, nella notte doveva far filtrare un filo di luce dalle abitazioni, pena severissimi provvedimenti, ca­stighi e condanne terribili. La popolazione, malgrado l’afa estiva, serrò subito porte e fine­stre: chi si sarebbe azzardato a trasgredire gli ordini che erano stati emanati? Quelle esigenze belliche erano state facilmente e necessariamente assimilate da tutti! E poi non sembrava pro­prio vero che gli americani non avessero intenzione di spara­re!… Nella nottata, un’inter­minabile nottata, si sentirono sfilare e sferragliare ininterrottamente carri armati, autoblin­date, autocarri, camionette. La via Mario Levante, la via Ca­vour, la Piazzetta e la via san Leonardo tremarono fino al­ l’alba per il passaggio dei mezzi pesanti che, finalmente, con le prime luci del giorno, prose­guendo verso Geraci, erano andati a fermarsi nel bosco della Pintorna. Impossibile avvici­narsi a quelle mostruose macchine belliche: si rischiava la vita! Si seppe poi che i tre ponti saltati erano stati riparati dagli americani quasi giocando, in qualche minuto, con solide passerelle prefabbricate, e ciò destò non poca meraviglia ed ilarità. Ma si fece giorno alto e qualcuno, per necessità di famiglia, o per accudire alle be­stie, tentò una sortita. Con sorpresa generale ci si avvide che si poteva anche fraternizzare con quelli che fino al giorno prima erano stati considerati nemici dell’Italia. I soldati americani, anche se poderosamente arma­ti, ridevano e scherzavano con tutti i «Paisà» ed offrivano ge­nerosamente caramelle ai bambini, cioccolato, sigarette e ta­bacco agli anziani, tutta roba ormai introvabile, diventata veramente rara e preziosa! Ed il paese apparve sotto un aspet­to, fino a qualche ora prima, assolutamente inconcepibile: per le strade giravano soldati, anche neri, che sembravano impensabili a Castelbuono; i carabinieri reali prestavano servizio senza armi: sulla divisa nera spiccava al braccio sini­stro una larga fascia bianca con due grosse lettere «C. P.» (Civil Police); i ragazzi, immediata­mente smaliziati, esprimendosi già nella nuova lingua con «okei» e «acciunga » (la gom­ma da masticare) tentavano un accaparramento sostanzioso di caramelle e cioccolato.

Nella «Stradalonga», all’altezza del­la fontanella, si notavano i resti di un falò: la sera precedente erano state date alle fiamme suppellettili e carte della vicina Casa del Fascio ed il tutto, buttato dal lungo balcone del primo piano, aveva alimentato una durevole vampa.

 

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