Castelbuono, scuola d’altri tempi | Le lezioni di don Jachinu
SCUOLA D’ALTRI TEMPI
LE LEZIONI DI DON JACHINU
di Giuseppe De Luca
[pubblicato su Le Madonie 15 settembre 1988]
Altri tempi… altra scuola… Occorre premettere che parecchi decenni fa, oltre mezzo secolo addietro [nel 1988 n.d.r.], unica scuola pubblica funzionante a Castelbuono era la Regia Scuola Elementare. Chi, pertanto, avesse avuto l’intenzione e l’interesse di proseguire negli studi doveva scegliere o la frequenza nelle scuole di Petralia Sottana, Cefalù e Palermo oppure la frequenza nella scuola privata locale di don «Jachinu».
Il rev.mo don Gioacchino Pupillo, santo sacerdote e bravo latinista castelbuonese (29/3/1883 – 28/2/1952), riceveva nella sua casa di via Maurolico i pochi volenterosi giovani, cui le generose famiglie di allora credevano di poter e dover creare i presupposti per un avvenire più redditizio e di maggiore prestigio.
Erano due stanzette situate a secondo piano, al quale si accedeva per una scala di pietra nera: nella seconda si sistemavano le rare ragazze e nella prima, un angusto vestibolo, sedevano i ragazzi: don Jachinu, era questo il nome con il quale lo si indicava in paese, si accomodava sulla soglia della porta che divideva i due locali in modo di essere sentito e di sentire, di essere visto e di vedere in tutte le direzioni.
Don Jachinu: fuori casa in impeccabile abito talare (era cappellano alla Badiola e nella Chiesa del Calvario); durante le lezioni, in soprabito che doveva essere stato nero e che era diventato in parte verde e in parte giallo; e poi l’intramontabile quaturna (stivaletta polacca), con l’elastico stiracchiato che, pur essendo chiusa, soffiava ad ogni passo come una antica locomotiva a vapore; d‘inverno, sulle spalle, uno scialle dal colore nerastro indefinibile, trattenuto al collo da una nirrizza (spilla da balia). Ma dentro questo abbigliamento, dietro gli spessi occhiali rotondi che facevano da sipario a due grossi occhi sporgenti fuori dall’orbita, sotto una lucida (in tutti i sensi) testa pelata, da qualche residuo capello bianco, sprizzavano un’intelligenza non comune, una preparazione culturale raffinata ed un minuzioso ed efficace metodo didattico.
Da tempo insegnava lingua italiana, per la quale raccomandava insistentemente il «limae labor», e lingua latina, dove, particolarmente, si trovava a suo agio. La matematica, la storia, la geografia, e la lingua francese si apprendevano presso la signora prof.ssa Anna Coco Capuana; il disegno, la musica, l’educazione fisica e la cultura militare (sic!) presso altri professori.
Parlare di don Jachinu significa rivedere il volto spensierato ed imberbe di cari amici: Ciccio Palumbo (poi funzionario di banca), Alfredo La Grua (docente di lettere), i fratelli Calì, Peppino (capitano di lungo corso) e Michele (funzionario del Genio Civile), Mimì Bonomo (collega delle Elementari), Vincenzino Barreca (maresciallo dei CC.), Totò Mitra (poi generale della Guardia di Finanza), Mario Fiasconaro (ufficiale radiotelegrafista della Marina) e poi i compianti, purtroppo, Cristoforo (poi titolare della omonima Impresa Edile) e Ciccio Raimondi (ispettore dell’Assessorato Reg. dell’Agricoltura). E si rivede ancora il volto di Anna Lupo Prisinzano (collega delle Elementari), di Mimy Mazzola Zucco (professoressa a Roma), di Antonietta e Giuseppina Bannò (anche quest’ultima, purtroppo, in un mondo migliore).
Ma parlare di don Jachinu provoca anche il riaffiorare di tanti ricordi: ci costringe a ripensare alle «Veglie di Neri» (con «Vanno in Maremma», con «Il matto delle giuncaie», con «Il merlo di Vestro», con «Scampagnata», con «La pipa di Batone» ed altri incancellabili ed incantevoli racconti), che nella spiegazione del professore, Padre Pupillo, assumevano un aspetto ed un gusto meravigliosi; ci spinge a ripassare «Davanti a San Guido» e «Pianto antico», «La quiete dopo la tempesta» ed «Il sabato del villaggio»; ci coinvolge nel rivivere la «Musa Epica » (con le affascinanti avventure dell’Odissea e le belliche vicende troiane); vuol dire partire alla prima declinazione (rosa = la rosa, rosae = della rosa) per arrivare alla consecutio temporum, senza dimenticare l’impareggiabile – come la definiva don Jachinu – grammatica latina del tedesco Schultz ed il memorabile Campanini e Carboni (indispensabile vocabolario per ogni versione); ci trascina a ripercorrere la cara antologia italiana «Nella Nuova Aurora» di Cesare Paperini, a riaccostarci ai classici di Fedro, Eutropio, Cicerone, Tibullo, Ovidio, Cesare, a riandare ai vocaboli della «Vita Romana»; ma significa anche, soprattutto, ripensare anche al nero «Quaderno delle regole», da lui dettate, occasionalmente, che allora era il nostro tormentoso breviario quotidiano ed il rischioso intrasgredibile codice della giusta ed elegante espressione latina.
Dopo mezzo secolo, è quasi impossibile dimenticare la vita di quei giorni!… Seduti attorno al vecchio tavolo pendevamo dalle grossa labbra di don Jachinu, il quale, nella mano destra, alternava un’antica, gialla e liscia, verga di amolleo mondato (che, con un leggero tocco, serviva per tenere giustamente agganciata la volubile attenzione di qualche distratto e, periodicamente, una grossa matita bicolore rossa e blu, che tutti temevamo al di sopra di qualsiasi altra cosa.
Con questa matita correggeva le nostre versioni, stilate su foglietti di quaderno, e noi, ansiosi, seguivamo il susseguirsi dei segni: un segno rosso – errore grave! – (meno uno da dieci!); due o tre segni se blu – errori lievi! – (un altro meno uno da nove!): quando, al termine, don Jachinu posava il foglietto sul tavolo, si sentiva nella stanza uno strano sospiro di sollievo: era lo studente interessato che finalmente respirava!
E c’era, di tanto in tanto, la visita di mastru Jachinu Racheli, un barbiere-cerusico del luogo, il quale arrivava depositando, fra i nostri libri e quaderni, il barattolo di vetro delle sanguisughe, con cui aveva provveduto, poco prima, ad un salasso, e la borsa di tela delle tenaglie, con cui doveva, pochi istanti dopo, cavare alcuni denti e molari: veniva a sbarbare il nostro professore. Mastru Jachinu Racheli, ad evitare che il suo lavoro di figaro potesse distrarci, ogni volta ci raccomandava, strizzando gli occhi strabici, di continuare a stare attenti allo studio e don Jachinu Pupillo, invece, puntualmente, se ne usciva con l’immancabile: Jachì! … spicciàmuni! Ma nessuno di noi aveva bisogno di raccomandazioni per stare attento e disciplinato perché, mentre Mastru Jachinu insaponava e radeva don Jachinu Pupillo, ogni studente si sprofondava, o faceva finta di sprofondare, nella lezione del giorno: ne sarebbe seguita altrimenti, di conseguenza, una cavillosa interrogazione con probabile «strigliatina» (saggio di cultura generale) alla quale nessuno, proprio nessuno, aspirava a sottoporsi. (CONTINUA)