“Chiovi e malittiempu fa cu è a casa d’autri mali sta” | “Un minni curi di sciddricuna basta ca mi manci i maccarruna”

Tempo di lettura 5/7 minuti

(Di Francesco Di Garbo) – Questo detto siculo-castelbuonese narra la storiella tra due comari che battibeccano su cosa è meglio che sia bene essere e cosa non conviene fare se non si vuole apparire  dei quaquaraquà.

Racconto la storiella elaborata con libera interpretazione per i fini narrativi interposti.

Quasi ogni pomeriggio dopo aver finito i compiti, e a volte li finiva lì, Nina saliva di corsa per il Monte Calvario ansante e precipitosa d’arrivare in fretta dalla nonna. L’irta salita la faceva sudare ma non ne sentiva il peso della croce. Era gaudente e felice di percorrerla per non perdere nemmeno un secondo di tempo a stare con sua nonna. La signora Anna ormai avanti negli anni coi capelli bianchi e le rughe scavate aveva una forte inclinazione ad affabulare la nipotina coi racconti popolari siculi. Fabula di tradizione orale che si tramandava dai tempi di Omero aggiornata con nuove storielle. In particolare a Nina piacevano tanto le storie di Giufà. D’origine araba Giufà era un personaggio grottesco, bonaccione e ingenuamente astuto. Tanto che tra i modi di dire era rimasto corrente il popolare “Oh Giufà” quando si voleva dare dello scemo o dell’imbecille a qualcuno. Insomma Giufà era entrato a pieno titolo nell’immaginario collettivo.

Purtroppo, ahimè e ahinoi, le buone tradizioni si andavano ineluttabilmente estinguendo, mentre le cattive imperversavano avallate dai direttori d’orchestra burattinai e/o pifferai sociali e politici. A quest’ultimi che detenevano il potere non piacevano le tradizioni che portavano a far riflettere le persone e quindi le osteggiavano quanto più possibile, mentre le tradizioni che davano  pseudo beneficio alla pancia erano acclamate ed invogliate ai fini di un falso benessere materiale. Tant’è, in fondo, la cultura dell’edonismo aveva fatto breccia in fondo nei cuori in modo globale e totalitario. Detenevano il potere, uso il passato deliberatamente, perché per il futuro si voleva cercare di cambiare musica: sempre la stessa musica era diventata disco rotto tedioso e non se ne poteva più.

Ragazzina precoce e arguta, cosa non unica ma rara, a Nina piacevano le buone tradizioni che facevano riflettere e pensare sul senso della vita non in modo greve, pesante, ma con una certa ilarità faceta che sdrammatizza e condanna senza mezzi termini l’indiavolata ascesa del progresso senza sviluppo. Cioè il fatto che si progredisce fisicamente ma non ci si sviluppa mentalmente. Col risultato che i perfidi malvagi che si reputano angeli sono al potere, mentre i giusti non compromessi sono sottomessi. Quindi ne aveva ben donde Nina di scalare la salita di corsa per sentirsi raccontare le storielle tradizionali, tra cui bisogna annoverare motti, proverbi, indovinelli, detti etc. come quello di quel giorno.

La nonna Anna quando lei arrivava con saggia flemma papale finiva il mestiere di casa che aveva per le mani, faceva sedere la nipotina e le dava la solita caramella carrubba di cui Nina è ghiotta. E si faceva attentamente osservare a stirare, lavare, sistemare le cose di casa. Nina guardava estasiata tutta volta ad imparare. Ultimogenita dei suoi cinque nipotini era diventata la prediletta della signora Anna. Gli altri e le altre ormai grandicelli-e avevano altri grilli per la testa e l’andavano a trovare solo per le mancette domenicali. A Nina, invece, più che le mancette piacevano le storielle perché le nutrivano la mente, le donavano un senso morale ed esistenziale della vita e la facevano crescere con compiuta pienezza.

Nonna Anna mise via il ferro da stiro e piegata l’ultima camicia la depositò nella cesta di virica (vinco) e cannette, quindi prese la sporta con gli aghi e i gomitoli per il rammendo al maglione. Si sedette comoda di fronte a Nina che a bocca aperta e gli occhioni castano chiaro sgranati con lo sguardo trasognato non vedeva l’ora che la nonna iniziasse il racconto. Nina si beava nella favolosa tenzone dell’immaginazione lungi dal sublimare la gastronomia per scopi politici, lungi dal rosicare per lo smacco subito per la cucina tipica Unesco quale mancato flusso elettorale per l’abbaglio infuso nella pancia degli elettori. Dopo i primi tre punti nonna Anna iniziò la storiella narrata in un mix tra dialetto e lingua italiana, più il primo che la seconda. Per comodità di lettura la riporto in italiano standard.

Una signora petulante e spudorata di nome Maria viene a sapere che la sua più stretta comare, signora Concetta, in occasione della prossimità del martedì grasso sta preparando i “maccarruna” fatti in casa; di cui si vanta siano i migliori del paese in base ad una ricetta di famiglia di cui gelosamente conserva il segreto di un ingrediente eccezionale. E come d’obbligo il giorno prima ne cucina un po’ per testare come sono venuti e non fare brutta figura di fronte ai parenti l’indomani martedì grasso. Negli anni precedenti la Signora Concetta aveva l’abitudine d’invitare per l’assaggio la comare Maria. Quest’anno tuttavia, a causa di un diverbio avuto qualche settimana prima, la Signora Concetta non disse niente alla comare, benché meno si peritò d’invitarla per l’assaggio.

Venendolo a sapere per vie traverse, si sa che nei paesi (non fare niente che nulla si sa) le voci corrono e si viene a sapere tutto; la signora Maria facendo finta d’essere all’oscuro dei maccheroni lemme lemme e tomo tomo la mattina con largo anticipo andò a fare una visita di cortesia alla comare accampando come scusa di farsi spiegare il punto morto dell’uncinetto. Quindi si presentò in casa di comare Concetta chiedendo venia per il diverbio, screzio da chiarire e chiarito fu, e si fece spiegare il trucco di come superare il punto morto all’uncinetto. Poi cominciarono a spettegolare e si fecero beffe e grandi sghignazzate su alcuni episodi paesani di stringente attualità (corna, liti, disavventure, disgrazie ecc.) come leccornie carnevalesche.

In un primo momento la Signora Concetta accettò di buon grado la conversazione ma col passare del tempo e notando che la comare tergiversava e non aveva intenzione di andare via incominciò a inquietarsi in trepido ansiogeno stato d’animo. “Come faccio ora a mandare via questa qua che sembra incollata alla sedia e vuole per forza mangiarsi i maccarruna a sbafo?”. Si chiese, risoluta a non apparecchiare anche per lei. Doveva trovare una buona scusa senza dare a capire che si trattava dei maccheroni. “Me li devo dividere con lei? Non se ne parla proprio!”. Pensò implacabile.

Nonna Anna fece una sospiro per riprendere fiato e schiarendosi la gola riprese: “Nina a te piacciono i maccheroni?”.

“Si, nonna, assai assai. Però quando la mamma quando mette il ragù e li rigira si sporca sempre la camicia come una scema e poi si piange addosso”. Disse Nina.

“Dovrebbe usare il grembiule e stare più attenta”. Ribadì la nonna.

“Hai ragione nonna. Io metto sempre la bavetta così non mi sporco, se no poi le mie amiche mi prendono in giro”.

“Brava, così si fa. Adesso riprendiamo il racconto però”.

Il cielo era nuvolo e tenebroso fin dal mattino e ora qualche brontolio di tuono si sentiva in lontananza. La Signora Concetta si affacciò all’uscio e da dietro il vetro vide che qualche goccia di pioggia all’orizzonte ruggiva di tempesta. Comare Maria tronfia e impettita pregustava i maccheroni freschi al ragù sentendo l’odore proveniente dalla cucina. Aveva l’aria insolente di chi per dispetto non se li voleva perdere. E quasi quasi rideva sotto i baffi per la stoccata a tradimento tirata alla comare.

La Signora Concetta colse al volo l’aiuto del cielo e si ricordò di un detto dialettale utile all’occasione. Tornata a sedere un forte tuono fece trasalire comare Maria, e d’acchito comare Concetta le disse: “Chiovi e malittiempu fa cu è a casa d’autri mali sta”. La comare capì al volo l’antifona e pronta di riflessi ribatté: “Un minni curi di sciddricuna basta ca mi manci i maccarruna”. Disse con espressione audace pronta a rischiare e sfidare ogni inconveniente. Visto il corto e la malaparata che la Maria non aveva intenzione di mollare la sedia, manco fosse il solito politico da strapazzo incollato col mastice alla poltrona, la signora Concetta trovò la prima scusa che le venne in mente e armatasi d’animo malvagio glielo disse esplicitamente. “Sai Maria mi devi scusare, ma non puoi più restare. Ho delle visite importanti e la tua presenza è inopportuna, quindi ti prego di andare via”. Pane pane, vino vino. La comare indispettita e controstomaco balzò su dalla sedia non aspettandosi un favore del genere, raccolse il paltò e sbattendo la porta se ne andò. Esattamente come fanno i politici da strapazzo.

“Nonna perché la signora Maria non se ne andava sponte sua e lasciava in pace la sedia non sua? Che modi sciatti! Non ha avuto la benché minima affabile eleganza interattiva con sua comare”. Chiese Nina, e con tono sardonico aggiunse: “Per forza l’amica non la invita”. Conchiuse infine con questa semplice deduzione preadolescenziale.

La nonna guardò con affetto e stupore la sottigliezza della nipotina e le rispose. “Sai cara, l’ingordigia è una brutta bestia che adultera le persone rendendole avide e cattive. Cara mia bambina, sai c’è un bellissimo detto che spiega come sono queste persone boriose. Fammi finire il punto di maglia che te lo dico. Allora, essi sono tali e quali quei Giufà che vogliono far seccare la neve nel forno per venderla come sale bianco. Capisci!” Nina annuì tre volte a bocca aperta. “Ma lasciami finire la storiella”.

Nel frattempo il vorticoso temporale ingrossato di ulteriori secchiate di pioggia stava iniziando a svuotarsi a catinelle. Comare Maria era a metà strada da casa che la pioggia divenne furente-dirompente e nonostante l’ombrello, nonostante si fosse riparata sotto un balcone si bagnò come un pulcino caduto in una vasca. Non solo. Appena vide che la pioggia s’era calmata ebbe l’ardire di intraprendere gli ultimi centocinquanta metri tanto ormai era bagnata. Appena arrivò sotto casa mise il piede sul cordolo del marciapiede di marmo ravvivato liscio e viscido come una buccia di banana e fece un ruzzolone giù per terra finendo nella pozzanghera. Si sbucciò le ginocchia e si fece un male cane. Vedi a dove porta l’incontinenza a voler arraffare tutto e di più. Disse la nonna a Nina.

“Se andava via prima non le sarebbe successo”. Chiosò Nina.

“Eh sì. Voleva smacchiare il giaguaro, ma riuscì solo a pettinare le bambole. Bisogna stare attenti. Se si vuole smacchiare il giaguaro non bisogna stare a pettinare le bambole come fanno i Giufà di turno. Invece comare Maria pettinava le bambole (faceva la furba) con l’intento di mangiarsi i maccheroni (smacchiare il giaguaro) però per petulante e tracotante presunzione finì bagnata e scorticata”.

Disse nonna Anna.

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