Cinquanta anni e non sentirli: la Lettera ai Castelbuonesi

Esattamente cinquant’anni fa, il 15 ottobre 1973, sulle colonne del giornale Le Madonie veniva pubblicata la Lettera ai Castelbuonesi a firma di Antonio Castelli, Gioacchino Genchi, Mario Obole, Enzo Sottile.

(Di Massimo Genchi) – La stesura della Lettera ha una collocazione temporale ben determinata: all’indomani delle prime sciagurate cancellazioni dal tessuto urbano di fondamentali testimonianze architettoniche della storia più o meno recente del paese: il vecchio teatro comunale, il municipio, gli ultimi tratti della cinta muraria con la porta San Paolo, la Porta di Santa Maria degli Angeli, l’attigua chiesetta della Pietà e il Convento dei Cappuccini, la cinquecentesca chiesa di sant’Antonino, il selciato del corso e della piazza e quello stupendo della Strada longa e di via principe Umberto e così via. Ma la Lettera venne concepita, soprattutto, agli albori della speculazione edilizia e della cementificazione selvaggia, non tanto per la presenza di cemento – e ancora cemento – quanto per il «cattivo gusto, e sempre cattivo gusto fino a somigliare [Castelbuono] alle altre città e cittadine che si son volute degradare e svilire vendendosi in fretta ai politici e agli architetti del massacro e della contaminazione». Quel cattivo gusto che proprio in quegli anni toccava gli apogei con i palazzoni, smisurati per Castelbuono, che andavano sorgendo, in barba a ogni norma urbanistica, e lo sfregio dell’arazzo boschivo di Castelbuono perpetrato da Chiesa e Stato con la realizzazione del Seminario e del cosiddetto Villaggio turistico, poi albergo Milocca, fino all’attuale stato di carcassa di cemento gemente, «due oltraggiose protesi cementizie piantate nel vivo più vivo di quel meraviglioso tessuto vegetale che è il nostro bosco». 

La Lettera ai Castelbuonesi, con il nutrito dibattito che ne scaturì e il naturale strascico di polemiche, anche feroci, tenne banco sulle colonne de Le Madonie per circa un anno. Di questa lettera cruda, provocatoria, scritta con grande pathos civico ma anche con la lucidità e l’indipendenza di giudizio di chi può permettersi osservazioni e analisi senza doversi pronare e chiedere il permesso di aprire bocca al potente politico di turno, non si sono mai spenti gli echi. Per mezzo secolo si è continuato a parlarne ma – quando non a sproposito – sempre con circospezione, sommessamente, come se degli scempi perpetrati contro il patrimonio urbanistico e naturalistico del paese e quindi a danno del paese – contro il paese – fosse una vergogna parlare, ieri come oggi. Che poi è la logica del ‘che ci vuoi fare’, del ‘pare male’, del fare spallucce e tacere anche se si tratta di fare valere le ragioni della collettività sulle malefatte di pochi soggetti, poco importa se messe in atto per puro interesse o per stupidità.

La Lettera ai Castelbuonesi, con il suo contenuto scevro di ogni sconto e la sua forma diretta, impietosa, volutamente tagliente, è un sonoro schiaffo a quella forma di fariseismo, pomposamente detta castelbuonesità, in definitiva un abnorme limite morale e culturale che da più parti si continua a sventolare con orgoglio come se fosse la più grandiosa fra le virtù della nostra comunità.

La Lettera ai Castelbuonesi, la cui attualità è per molti versi impressionante, ha rappresentato e rappresenta ancora oggi, soprattutto oggi, una denuncia contro gli abusi smodati e volgari, di ogni genere, commessi contro il nostro paese, a danno del suo paesaggio, della sua veste estetica, della sua sobrietà, in definitiva, della sua anima e quindi a perenne offesa della nostra identità storica. Senza alcuna enfasi la Lettera ai Castelbuonesi si può definire un grido di dolore «Per Castelbuono. Che si estende, si sviluppa, si stinge (i tetti rossi, gli intonaci caldi, cotti di Castelbuono!), imbruttendosi ogni anno di più».

Eh, già! Perché Castelbuono, per quanto se ne voglia disputare, per quanto ci si voglia arrampicare, va imbruttendosi ogni anno di più, assumendo un aspetto sempre più sciatto, trascurato, proprio di una bella signora caduta in bassa fortuna e precipitata nei bassifondi.

Castelbuono vilipesa da chi la amministra, che promana puzza di tombini e di piscio, e non solo, da parecchi suoi angoli, nell’indifferenza generale. Castelbuono che odora di abbandono, di trasandatezza e di incuria, che è anche peggio. I LED delle luci natalizie perennemente collocate, le frasche che avvincono, fronde di potatura ammassate da diversi anni e mai bruciate sono solo banali esempi del pietoso abbandono del nostro paese. Strade dissestate, avvallate; asfalti, sampietrini, mazzacani e piastrelle sconnessi, asportati. Da anni. In Salita al monumento, una voragine di selci mancanti ha pareggiato il poco invidiabile record di quattro mandati amministrativi.

E poi il libero arbitrio che si può esercitare con la certezza di operare liberamente, fuori da ogni ispezione. Nessun controllo edilizio, mentre si continua a distruggere e ad aggiungere corpi di fabbrica, ovunque. Peculiari e deliziose tipologie costruttive cancellate dal catalogo urbano ridotto sempre più a un campionario di anonimi parallelepipedi adorni di osceni infissi esterni che, nella quasi totalità, disconoscono il calore e la vitalità intrinseca del legno (il legno dell’artigianato di Castelbuono! Il tanto decantato artigianato), il tutto sotto la sporadica e svogliata sorveglianza degli organi preposti e della Soprintendenza, capace a stento di prescrizioni cervellotiche, antitetiche e deliranti.

La stessa Soprintendenza del tetto in rame, dell’autostrada con palificazione in area archeologica, delle ipervetrate con vista sul castello e sull’area castellana, per meglio vedere – visto che forse nessuno se n’è accorto – tutto ciò che di ripugnante, en plein air, cade sotto la vista anche del più distratto degli osservatori. Meno male che ci si rifà subito l’occhio con l’ultimo capolavoro dell’architettura contemporanea, quell’agglomerato di scatoloni che, alla macro scala, riproducono il disordine osservabile in un negozio di calzature dopo che una esigente cliente ne ha provate almeno una dozzina di paia. Naturalmente ci si riferisce al Guantànamo dell’istruzione pubblica che qualcuno si ostina a ritenere un edificio scolastico.

E, ancora, la scelta modernista, ma assai discutibile, di sottrarre spazi esterni di ogni tipo alla collettività, ai residenti (ormai classe inferiore rispetto ai turisti), destinandoli in maniera indiscriminata e a tempo indeterminato, a malintese forme di profitto, produttività, pseudoeconomia e confuse pretese turistiche, a fronte di uno spopolamento che assume vieppiù le proporzioni di un esodo biblico. Insomma, «una città abbandonata che non si ama più», citando l’acuta osservazione di Alessandro Gassmann che così continua: «E’ un lungo inverno di cui non si intravede la fine. E quando questa arriverà, perché prima o poi tutto finisce, rimarranno solo ristoranti, BB, paninoteche» e anche quattro vecchi decrepiti, ultimi testimoni indiretti di un lontano passato meno inglorioso.

La Lettera ai Castelbuonesi è coeva di una serie di illustri scritti, del medesimo tenore, usciti dalla prestigiosa e agguerrita penna di Antonio Cederna, padre dell’ambientalismo italiano. Dalla prima e dagli altri è possibile estrarre i passaggi che incitano alla lotta, perché senza lotta non si ottengono risultati. Cederna, nella chiusa della Premessa a “La distruzione della natura in Italia”, così catechizza il lettore: «La lotta contro la turpitudine ambientale, la lotta per un ragionevole uso del territorio, dello spazio fisico, della natura in tutti i suoi aspetti […] è la lotta stessa per la sicurezza del suolo, per lo sviluppo economico, per la giustizia sociale, per la promozione della cultura, per la salute e l’incolumità pubblica».

E la Lettera ai Castelbuonesi appare come la naturale controvoce: «Uscire dal proprio ritegno, dal proprio sgomento; considerare a più voci che è sui connotati, anche architettonici, anche ambientali, del paese che si modellano, per una sorta d’arcano midollo simpatico, i connotati di ciascun cittadino, del suo profilo, della sua avventura umana, morale e pubblica; che sfigurando il volto del paese, si sfigura il volto dei suoi abitanti, individui e comunità».

Antonio Cederna e i quattro castelbuonesi, in anticipo sui tempi, avevano già capito tutto cinquant’anni fa, ma sempre nell’infausto ruolo di voci gridanti nel deserto: Cederna da solo, i castelbuonesi in quattro: appena un terzo dei nnimici dâ cuntintizza. A dimostrazione del fatto che la forza delle idee non è minimamente commensurabile con la forza elettorale: la forza delle idee valica i secoli, la forza elettorale ha l’energia di una flatulenza. O anche meno.

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