Castelbuono STORIE: come fu che i Rrùocciuli divennero Rrucciuliddri

La forza del Lessico del dialetto di Castelbuono e di ogni altra ricerca condotta sul campo vibra grazie allo smalto degli informatori. Cannizzaro e io abbiamo avuto la fortuna di individuare una settantina di eccellenti conoscitori di specifici ambiti della cultura materiale che, con i loro preziosi contributi, ci hanno dato la possibilità di mettere a punto e realizzare quel pazzesco lavoro.

Fra i tanti informatori del Lessico, uno mi è particolarmente caro e non solo per le copiose e circostanziate informazioni che mi ha fornito nelle svariate ore di conversazione, nelle quali ha anche mostrato come, da zero, intrecciando il giunco, si produce una ggistra, il cavagno usato dai pastori per introdurvi e pressarvi  la cagliata che, una volta cotta, darà il formaggio. E neanche per la vigorosa forza evocativa del suo raccontare. Si chiama – anzi si chiamava – Mariano Martorana inteso Rrucciuliddru ed era figlio di quello zzu Iachinu Rrucciuliddru, campiere ai Bergi dal barone Minà, che fu brillantemente fatto rivivere dal mio grande maestro Pippo De Luca in due indimenticabili puntate relative alla uccisione degli ultimi lupi delle Madonie, pubblicate su Le Madonie nel 1989 e riproposte due anni orsono su CastelbuonoLive.
Storie vere del passato castelbuonese | U zzu Jachinu Rucciuliddru e gli ultimi lupi delle Madonie

Benché di suo fosse un taciturno, Mariano, potrà sembrare paradossale, era un narratore nato, un narratore eccezionale. Aveva lavorato a lungo a Gangi dal barone Mocciaro e parlando dell’estensione dei possedimenti di Mocciaro non utilizzava unità di misura convenzionali, dunque né ettari e neppure sarmi, lui soleva dire che i muli, viaggiando a pieno carico, impiegavano un giorno intero per attraversare quelle terre e ciò chiariva più di qualunque altra misura del sistema metrico decimale. Ma le descrizioni più belle e indimenticabili riguardano senza dubbio la caccia come quando raccontava, ed era come vederla, a tuccatê vurpi nel chiarchiaro di Cuprania, vale a dire la battuta di caccia alla volpe alla quale prendeva parte un gran numero di persone col compito di fare un gran baccano con gli strumenti più disparati (compresi i lannuna d’arsòliu) al fine di mettere in fuga tutte le volpi di quella zona portandole sotto il tiro dei cacciatori opportunamente appostati. O anche tutta la preparazione che precedeva la caccia alle coturnici con l’utilizzo dû pirnici màsculu. Per fare ciò bisognava parari i ccetti dove parari ha lo stesso significato – estote parati – che ha per i boy scout e i ccetti sono dei laccioli realizzati preventivamente ccu a santa pacìenzia utilizzando crini di cavallo. Sul posto bisognava costruire un recinto circolare, ma Mariano diceva appizzari quattru stacci a furrìa-ntunnu, cingerli con i laccioli e, al centro del recinto, dentro una gabbia, porre un pirnici màsculu. Richiamate dal canto melodioso dû pirnici màsculu, esattamente come accade in certe campagne elettorali, le coturnici si precipitavano a frotte, rimanendo inevitabilmente tutte intrappolate, nchiaccati, fra i laccioli. Né più né meno come è successo in circostanze a tutti ormai note. Quindi, attenzione, non fatevi irretire, diffidate dal canto ammaliante …… pirnici màsculu.

Ho fatto questo lungo preambolo perché volevo ricordare, a chi come me è affascinato dalle voci del tempo, il pregnante dire di questo ‘narratore delle montagne’ – parafrasando Gianni Celati – che, per i molti che ebbero la fortuna di conoscerlo, fu Mariano Martorana inteso Rrucciuliddru. Ed è appunto della sua nciùria, del suo alias – del suo nickname, come si direbbe oggi – che vorrei occuparmi perché lo studio sui soprannomi riserva sempre sorprese e curiosità. E come per la geologia e per l’archeologia bisogna scavare per conoscere, per ricavare dati veritieri, anche lavorando con il lessico è necessario effettuare scavi per portare alla luce il senso più stretto delle cose e delle parole, nella fattispecie dei soprannomi e di tutto ciò che ad essi è connesso.

Dunque, come è immediato comprendere, Rrucciuliddru è il vezzeggiativo di Rrùocciulu così come bbunicìeddru è il vezzeggiativo di bbùonu. E qui, per ogni castelbuonese, salta subito all’occhio che sia il nome alterato sia il nome primitivo sono due soprannomi abbastanza vivi, ben conosciuti e distinti, relativi a due famiglie, oggi, senza legami di parentela: i Rrucciuliddri afferiscono a diverse famiglie Martorana, i Rrùocciuli ad alcune famiglie Cannizzaro, ancora strettamente imparentate.

Non è inutile precisare che, dei due soprannomi, Rrùocciulu è l’originale, essendo attestato nel 1735 in un libro di conti della Matrice Nuova dove è citato tale Francesco Martorana fu Giovanni alias Rocciolo (i notai italianizzavano ogni termine dialettale). Più tardi, nel 1768, dai registri dei matrimoni, emerge anche quello del nipote Giuseppe Martorana alias Rocciolo. Da questo Giuseppe, attraverso il figlio Antonio, nel 1854 finalmente si arriva al matrimonio del di lui figlio Mariano Martorana, padre du zzu Iachinu Rrucciuliddru, cacciatore di comprovata fama di cui abbiamo detto e quindi al Mariano dei giorni nostri.

Attraverso questa brevissima passeggiata, dal Settecento ai nostri giorni, è possibile ricavare che il soprannome di coloro i quali oggi sono intesi Rrucciuliddru, in origine era Rùocciulu. E quindi è lecito chiedersi quando e perché si sia verificato questo cambio di ragione sociale.

Si tenga presente che nella nostra onomastica popolare vi sono diversi casi di soprannomi che, all’interno della stessa famiglia, sono stati modificati per alterazione del soprannome primitivo. Così i Picchiùoli diedero luogo ai Picchiulieddri, i Patacchi ai Patacchieddri, i Pitralisi ai Pitralisieddri, u Mònacu ô Munachieddri e così via di seguito. E se ciò accadde, artefice non fu il caso quanto piuttosto il fatto che una Patacchia ebbe dei figli che furono perciò intesi Patacchieddri mentre Picchiulìeddri venne apposto a due sorelle che, rimaste orfane, andarono a vivere con la zia materna sposata a tale Leonardo Ignatti inteso u Picchiùolë. Quindi, in casi del genere, di norma, chi arriva dopo, come nciùria, gli viene apposto il nome alterato. Nel nostro caso, invece, le cose andarono esattamente al contrario.

Per capire come, ritorniamo al primo Rocciolo attestato, a quel Francesco Martorana di cui si è detto, che si sposò una prima volta nel 1735 e, rimasto vedovo, si risposò dopo quasi quarant’anni nel 1773. Evidentemente u zzu Ciccu, quasi settantenne, ncapu d’iddru doveva sentirsi come il ferro, al punto che con Giuvannina, la nuova moglie, anche lei tutt’altro che di primo pelo, riuscì ad avere una bambina la quale, però, non perse tempo – e bbùonu fici – e a diciott’anni, nel 1792, si sposò con Stefano Cannizzaro, il primo Stefano Cannizzaro di una lunga serie. Accadde quindi, non sappiamo per quale strana dinamica, che Stefano Cannizzaro, avendo sposato una Rrùocciula, forse perché sottomesso alla moglie, divenne a sua volta Rrùocciulu. Si tenga presente che nella caustica ironia castelbuonese il genero che in famiglia è privo di ogni autorevolezza viene detto u noru, ossia il ‘nuoro’. Noi non sappiamo se quello di Stefano Cannizzaro fu il primo caso di marito che prese il soprannome della moglie ma non deve essere capitato tante altre volte nella storia dei super nomina.

Partendo dal nostro Stefano è possibile risalire, poi, l’albero genealogico dei Cannizzaro fino ai nostri giorni attraverso mastro Francesco, prima il padre e poi il figlio, fino a mastro Stefano i cui figli sono noti a tutti in paese, specialmente negli ambienti della piazzetta e dâ stratê Minà vale a dire le signorine Cannizzaro: Maria, Giovanna, Giuseppina e Annetta, la sorella sposata, note come le quattro stagioni, provette sarte e campionesse di simpatia e di loquela al punto che per molti il soprannome Rrùocciuli potrebbe essere connesso ad arrucciuliari ‘parlare in continuazione, sproloquiare’ (ma fu coniato prima di loro) e poi i loro fratelli Vincenzo e, soprattutto, Cristofalo, persona di grandissima verve, e figura arcinota specialmente negli ambienti del biliardo e del libro dî quaranta fùogli, vale a dire del gioco delle carte, all’interno dei quali era affettuosamente inteso u Nonnu per via della anzianità rispetto ai suoi sodali.

Ora, per il primo Stefano Cannizzaro, l’aderenza al soprannome della moglie deve essere stata estremamente tenace, essendosi propagato all’intera sua famiglia e ai relativi discendenti, per più di duecento anni. Ma ha avuto anche la forza di mettere in ombra i vecchi titolari del soprannome Rrùocciulu che dopo un primo periodo di comproprietà del titolo, a poco a poco, ne furono completamente defraudati e, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, furono appellati sistematicamente col vezzeggiativo Rrucciuliddru, come se fossero il ramo cadetto della famiglia. Una dinamica veramente bizzarra e forse unica.

Ma, a questo punto, appare più che doverosa una qualche delucidazione sul rocciolo, oltre che sulla motivazione del soprannome. Diciamo subito che la prima è assai più semplice della seconda nel senso che il significato del termine è certo. La motivazione del soprannome, invece, dopo trecento anni, non può che essere presunta. U rrùocciulu è una lunga stringa di cuoio con cui si legavano i calzari o le ciocie, quelle che una volta si chiamavano i scarp’u pilu. Come si arrivi dall’oggetto al soprannome non è un passaggio lineare né certo, si possono fare soltanto delle supposizioni. La motivazione potrebbe essere connessa semplicemente ai laccioli di cuoio usati per legare le ciocie, essendo il portatore appartenente a una famiglia operante nel settore agropastorale, ma non è da escludere il tratto caratteriale, dato che fra i vari significati di rrùocciulu vi è anche quello figurato di  ‘truciolo’ e quindi di personaggio contorto, attorcigliato, che non lascia trasparire nulla, o anche di persona dal carattere imperscrutabile. Non è escluso, infine, che possa trattarsi di un aspetto del carattere della persona alla quale il soprannome venne apposto, legato alla caratteristica funzionale del rocciolo, che contorcendosi riesce a infilarsi fra gli occhielli dei calzari e che, pertanto, potrebbe suggerire il movente di ‘persona intrigante, che tende ad impicciarsi dei fatti altrui’. Così non fu certamente il mio grande informatore Mariano Martorana, uomo probo e mite, che mi piace qui accostare a Mario Rigoni Stern, altro grande narratore oltre che cacciatore taciturno e schivo. Mariano, che del silenzio dei monti – come Rigoni Stern – seppe interpretare e raccontare i suoni, acquattato che fosse all’interno della lòggia per il passo dei colombacci o a Liccia, nel chiarore della luna contradìecima, a rilevare u sfrattìeddru, il fruscio fra i cespugli e sopra gli sterpi, delle volpi che risalivano la vallata per andare a cacciuliari i fichi e l’uva. E vorresti che il suo racconto non finisse mai…

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