Del personaggio storico che dà il nome a una nota via di Castelbuono: Vincenzo Errante, l’accademia dei curiosi e la cultura castelbuonese tra il ‘500 E ‘600
Pubblichiamo con piacere un estratto, per gentile concessione dell’autore, dal volume di Orazio Cancila, Nascita di una città. Castelbuono nel secolo XVI, Associazione Mediterranea, Palermo, 2013, pp. 715-732, disponibile anche online nella sezione “Quaderni” del sito www.mediterranearicerchestoriche.it.
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VINCENZO ERRANTE, L’ACCADEMIA DEI CURIOSI E LA CULTURA CASTELBUONESE TRA ‘500 E ‘600
di Orazio Cancila
La cultura era monopolio dei sacerdoti, dei notai e in parte anche dei giurisperiti e dei medici. Il sacerdote don Cesare Ventimiglia disponeva di una ricca biblioteca, che alla sua morte nel 1583 contava 121 libri[1]: classici latini e greci[2], testi italiani di letteratura, di storia e di geografia[3], testi sacri e non poche vite di santi[4], rari testi di diritto[5] e di scienze naturali[6], opere varie[7], a dimostrazione di una vastità di interessi, che tuttavia non comprendevano la poesia e la novellistica italiana se, a parte un libro di Dante di cui ignoriamo il titolo, mancavano dalla biblioteca poeti come Petrarca, Sannazzaro, Boiardo, Ariosto e novellieri come Boccaccio. Erano libri personali, molto probabilmente acquistati direttamente e non ereditati, perché, se nel castello fosse esistita una biblioteca, questa sarebbe appartenuta al marchese e non sarebbe stata oggetto di inventario alla morte del sacerdote.
Ovviamente gli altri sacerdoti di Castelbuono non avevano a disposizione la ricca biblioteca di don Cesare. A fine secolo, tuttavia, i sacerdoti e i giovani chierici che avevano frequentato il seminario erano in condizione di partecipare attivamente alla vita culturale della città, inserendosi nelle iniziative avviate dai laici, la più importante delle quali era la fondazione dell’Accademia dei Curiosi, dove i soci leggevano Petrarca, recitavano versi, componevano musica. Così l’accademico Vincenzo Errante ce la presenta nelle parole di Ippolito, uno dei personaggi principali della sua commedia Inganni d’amore, il quale in occasione del suo trasferimento da Messina a Palermo si era fermato casualmente a Castelbuono e vi si era definitivamente stabilito:
Veramente non si può negare che questa Accademia de’ Curiosi di questa città non sia così honorata e piena di gentil’huomini virtuosi e spiriti dotti e intelligenti come si sia stata qualsivoglia altra in questo regno, dove parecchie ve ne sono state, quali, benché perdute siano, nientedimeno tal fama si acquistarono che la memoria loro sarà perpetua. In questa nobile Accademia, hoggi, in una loro congregazione, ho inteso una lezzione dell’Impedito sopra il sonetto del Petrarca La gola, il sonno e l’oziose piume, che posso dire con ragione ancora non esser stato chi meglio habbia esposti e dichiarati i più difficili passi di quell’artificioso sonetto, e con ragione si fa quel conto di lui che meritano le sue virtù et onorate qualità. Che dirò della diversità delle altre composizioni di quegli altri signori Accademici? Se non che tutte le virtù e scienze insieme si hanno unite in questa bella Congregazione? Mentre ammiro la industria del maraviglioso sonetto del Fido, ecco mi dà nuova materia da considerare lo Sfortunato [il sacerdote Nicolò Bandò] con un leggiadro epigramma in lode del glorioso S. Giacomo, avvocato e protettor loro. E tanto è stato il contento che ho provato in così gentil conversazione che per tutto hoggi non mi sarei partito da loro…[8].
Molto probabilmente l’Accademia dei Curiosi¸ che aveva come motto congregantur sonitu, era sorta in seno alla Società dei Bianchi, perché i due enti avevano dei componenti in comune, tra cui appunto Vincenzo Errante detto l’Attonito, che nel 1597 ricopriva il ruolo di consigliere dell’Accademia, il notaio Vittorio Mazza, che ne era rettore, il notaio Gian Francesco Prestigiovanni e Alemanno Gherardi. I rapporti tra le due associazioni erano peraltro di collaborazione se, nel febbraio 1597, i rettori della chiesa del Monte consentivano agli accademici di esporre un loro quadro nella cappella della Concezione in cambio, dato che costoro coltivavano anche la musica, dell’impegno a svolgere ogni anno dei servizi musicali nella festa dell’Immacolata[9], che per il 1607 furono affidati all’accademico Valerio Errante[10]. Non si conoscono i nomi dell’Impedito e di Fido, citati da Ippolito, mentre le rime d’encomio che precedono la commedia dell’Errante, oltre al nome del sacerdote Bandò detto lo Sfortunato, ci tramandano quelli del notaio Vittorio Mazza detto il Pensoso, di Giacomo Dino (originario di Termini Imerese o di Petralia Sottana, dove aveva dei beni, nonché padre dell’uid Mercurio Dino), di uno sconosciuto don Simone Lo Stimulo (un Antonino Lo Stimulo era stato secreto di Castelbuono nel 1570 e 1571) e infine del medico Gian Lorenzo Agnello di Mistretta. Altri membri dell’Accademia erano nel 1597 – oltre ovviamente a Mazza, Errante, Prestigiovanni e Gherardi − mastro Scipione Di Garbo (consigliere), il chierico Valerio Errante (fratello di Vincenzo), Claudio Granozzo, il chierico Enrico Giaconia, il notaio Filippo Guarneri e Lucio Alteri[11].
Di Valerio Errante, fratello di Vincenzo, si è accennato altrove, a proposito della famiglia Errante. Il sacerdote Nicolò Bandò (1569-1645), futuro arciprete, non apparteneva a famiglia ricca, se il padre Pietro (fu Scipione), messo giudiziario, nel 1584 rivelava un patrimonio netto di appena 30 onze. L’abitazione nel quartiere Muro Rotto, confinante con quella del sacerdote Vinciguerra, che Pietro valutava o. 60, per oltre due terzi (o. 42) doveva essere ancora pagata al venditore Luca Carollo, e il vigneto in contrada Sant’Elia contava appena mille viti. Pietro doveva riscuotere dei crediti per o. 14, ma, oltre quello della casa, aveva altri debiti: o. 6 di rendite passive e o. 8 per resto di dote al genero Giuseppe Nasello, marito della figlia Angela[12]. Alla sua morte nel 1588 la situazione finanziaria della famiglia Bandò peggiorò e nel 1592 la moglie Antonina e il figlio Nicolò, ancora chierico − per estinguere dei debiti nei confronti di Gian Tommaso Flodiola per o. 10, di Margherita Tamburo per o. 3 e di don Vincenzo Ventimiglia per o. 2 – furono costretti a contrarre una soggiogazione di o. 1.15 per un capitale di o. 15 a favore dei figli ed eredi di Innocenzo Cicala, ipotecando un vigneto in contrada Boscamento, un vigneto in contrada Sant’Elia e un uliveto in contrada Bergi[13].
Claudio Granozzo (n. 1566) era figlio del defunto medico Scipione: i suoi familiari vivevano ormai a Ciminna, paese della madre, ma lui si era fermato ancora a Castelbuono. Il chierico Enrico Giaconia (†1607) era fratello di Eutizio che nel 1605 avrebbe sposato Annuccia Errante, sorella di Vincenzo e di Valerio; nel 1592 faceva società con Filippo Ferrigno di Petralia Sottana per gestire per un quinquennio una massaria nel feudo Bilici della principessa di Paternò[14]. I notai Filippo Guarneri e Gian Francesco Prestigiovanni sono anch’essi noti ai lettori. Lucio Alteri (n. 1543), forse il più anziano del gruppo, era un burocrate probabilmente forestiero che più volte aveva tenuto l’ufficio di mastro notaio dell’Università. Aveva sposato nel 1564 Potenziana Oddo di Andrea, che a fine 1592 – proprio mentre egli rivestiva la carica di giurato − lo accusò di dilapidare la sua dote di giorno in giorno e ne ottenne la restituzione[15]. Al rivelo del 1593 il patrimonio familiare (una casa di quattro vani e due vigneti) risultava in effetti quasi interamente assorbito dai debiti, con un saldo positivo di appena 11 onze[16]. Dopo il 1593 la situazione finanziaria di Lucio dovette però cominciare a mutare favorevolmente: nel 1607 la vedova rivelava infatti un patrimonio netto di ben 309 onze, costituito per quasi il 60 per cento da crediti, senza più alcun debito[17].
Alemanno Gherardi (1566-1611), cittadino di Firenze e governatore del Monte di Pietà, era figlio del fiorentino Andrea. Nel 1593, viveva ancora in casa della madre vedova, ma l’anno successivo prese in affitto per tre anni una «domus magna», da dove nel 1597 si trasferì in altra abitazione, sempre in affitto per altri tre anni. E tuttavia, sebbene non fosse neppure proprietario della sua abitazione, nel 1595 non esitò, come sappiamo, a garantire insieme con altri per 200 onze il pagamento in rate decennali di una grossa somma a carico del marchese Giovanni III Ventimiglia. Nell’agosto 1600 lo troviamo invischiato in una strana vicenda che non riesco bene a interpretare: si impegnava con mastro Antonino Trentacoste a condurlo a Firenze e a ricondurlo a Castelbuono, con viaggio a piedi e a cavallo, per mare con feluche o con galee, mangiando e dormendo comodamente. Tutto ciò a spese dello stesso Alemanno, «pro bono amore et tot serviciis» prestatigli in precedenza da mastro Antonino[18]. Poco prima, con atto precedente, Alemanno e la madre Anna avevano acquistato da mastro Antonino seta cruda per un valore di o. 50.25, che si impegnavano a saldare a Firenze entro il 15 ottobre 1600. La compravendita camuffa quasi certamente un prestito a interesse, anche perché non risulta che mastro Antonino fosse un produttore di seta né un commerciante. Il contratto prevedeva che, trascorso il termine senza che il pagamento fosse stato effettuato, il saldo doveva avvenire a Castelbuono entro due mesi dal ritorno di mastro Antonino da Firenze. Se non fossero stati in condizione di pagare, madre e figlio avrebbero dovuto vendergli il vigneto con il fabbricato annesso in «contrata di li Pedagni allo frassino», che Anna aveva acquistato qualche anno prima da Gian Antonio Ferraro. Non so se il viaggio a Firenze di mastro Antonino sia mai avvenuto: è certo invece che i Gherardi non riuscirono a pagare il debito e alla fine mastro Antonino si impossessò del vigneto[19].
Nel 1604, Alemanno sposò Eleonora Benfatto di Chiusa e nel 1607 continuava a vivere in casa d’affitto, ma possedeva alcuni beni rurali il cui prezzo però era ancora in gran parte da pagare, cosicché il suo patrimonio netto si riduceva a onze 107. E poiché del suo patrimonio faceva parte una rendita per un capitale di o. 110 a carico degli eredi del dr. Granozzo residenti a Ciminna, che era da lui ritenuta «persa», il saldo attivo diventava così un saldo negativo di 3 onze[20]. La morte lo colse nel 1611: come membro della Società dei Bianchi chiedeva di essere sepolto nella chiesa di Santa Maria della Misericordia sotto titolo del Monte di Pietà, lasciava eredi universali i figli Giuseppe e Girolamo e assegnava o. 100 alla figlia naturale Lucrezia[21]. Negli anni successivi non c’è più traccia dei figli di Alemanno: presumo che la famiglia si fosse trasferita a Chiusa, paese d’origine di Eleonora, sorella di un notaio del luogo.
Mastro Scipione Di Garbo (1560-1608) non era affatto ricco: nel 1584 possedeva un uliveto, un modesto agrumeto e una piccola rendita, per un patrimonio complessivo di o. 35, con un debito di o. 2 per l’acquisto di panni[22]. Grazie al primo matrimonio, nel 1593 possedeva anche una modesta casa solerata nel quartiere Vallone (forse con bottega sottostante), ma il suo patrimonio rimaneva sempre modesto: o. 46[23]. Sapeva certamente leggere e scrivere, perché nel 1590 e nel 1596 era uno dei tre rettori ed economi della confraternita di Santa Maria del Soccorso e faceva spessissimo da teste negli atti del notaio Filippo Guarneri, del quale forse era collaboratore e che potrebbe averlo coinvolto nell’attività dell’Accademia, magari come esperto di musica. Ed è altrettanto certo che la sua estrazione sociale non dovesse essere elevata, perché anche le sue tre mogli erano figlie di mastri, peraltro non molto noti: Lucrezia (1586) di mastro Filippo Gurreri, piccolo bottegaio, Paola (1596) di uno sconosciuto Luca Prisinzano[24], Margherita (1600) di mastro Pietro Prisinzano. Questo terzo matrimonio − è molto significativo − fu celebrato dal collega d’Accademia sacerdote Nicolò Bandò. Nei primi anni del Seicento, mastro Scipione risulterà impegnato nella riscossione in appalto di alcune imposte civiche, nella compravendita di grano con anticipazioni di denaro ai produttori e nella produzione e commercializzazione di seta grezza, allora in forte espansione e con buoni margini di guadagno. Al rivelo del 1607 la sua situazione patrimoniale si presenta perciò notevolmente migliorata rispetto al 1584. Già la presenza di una domestica e di un garzone al suo servizio, mostra un salto economico notevole. Viveva con la moglie in una casa di due vani − quasi certamente portata in dote da Margherita perché confinava con altra casa di Francesca Prisinzano, che potrebbe essere la suocera – e possedeva anche un bel gelseto alle porte della città (che significava produzione di seta e che da solo valeva o. 150, cinque volte più della casa), un vigneto ormai vecchio e un piccolo uliveto. Completavano il suo patrimonio tre vitelloni, una giumenta con puledro, crediti per o. 48, gioielli e argenteria per o. 3 e ancora 10 libbre di seta cruda che da sole valevano o. 9. In tutto un patrimonio lordo di o. 251, gravato da oneri e debiti per o. 63, che lo riducevano a un netto di o. 188[25].
Anche se aveva come destinatari delle sue iniziative i ceti più elevati, non tutti i soci dell’Accademia dei Curiosi erano quindi benestanti. La presenza poi tra i suoi membri di mastro Scipione Di Garbo è la dimostrazione che − diversamente dalla Società dei Bianchi riservata esclusivamente all’élite locale − essa era invece aperta «all’integrazione sociale», per dirla con Amedeo Quondam[26], cosicché la discriminante non era costituita dal ceto di appartenenza bensì dalle competenze culturali. Era insomma un cenacolo di intellettuali, giovani e meno giovani di buona famiglia, in particolare notai e chierici, non chiuso nella sola Castelbuono ma aperto anche ad abitanti dei centri vicini. Del resto, alcuni soci erano degli immigrati (Mazza, Alteri) e altri erano figli di immigrati (Valerio e Vincenzo Errante, Claudio Granozzo, Alemanno Gherardi).
L’Accademia non ebbe una lunga vita e forse allora era già in fase di disgregazione, perché l’abbandono pressoché definitivo di Castelbuono da parte del marchese Giovanni III Ventimiglia, protettore di poeti e letterati, ormai impegnato al servizio del sovrano come stratigoto di Messina e successivamente come presidente del Regno di Sicilia, li privava certamente di una valida protezione. Il personaggio che più emerse e per il quale l’Accademia dei Curiosi fu conosciuta anche fuori dalla Sicilia fu senza dubbio Vincenzo Errante (1575-1643), grazie alla sua commedia Inganni d’amore, ambientata a Castelbuono e pubblicata a Palermo “cum licenza de’ Superiori” da Gio. Antonio Franceschi nel 1603. Alla commedia accennano nei loro repertori il canonico Antonino Mongitore[27] all’inizio del Settecento, Alessio Narbone[28] e Giuseppe Maria Mira[29] nella seconda metà dell’Ottocento. L’autore rimaneva però pressoché sconosciuto e la sua biografia si limitava ai pochissimi cenni autobiografici presenti nella commedia e nelle rime d’encomio dei suoi amici che nella stampa precedono il testo: le certezze (e non per tutti) riguardavano perciò soltanto la sua patria (Castelbuono), l’età (appena venticinque anni) e la sua appartenenza, con lo pseudonimo di Attonito, alla locale Accademia dei Curiosi.
All’inizio del secolo scorso si giunse addirittura a negarne l’esistenza: il critico letterario Emilio Teza ritenne infatti che Vincenzo Errante fosse lo pseudonimo accademico di Vincenzo Belando, autore di una commedia dal titolo quasi analogo, Gli amorosi inganni pubblicata a Parigi nel 1609, che presenta riferimenti a Naso (oggi in provincia di Messina, non molto distante da Castelbuono). Il Teza non era riuscito a reperire nelle biblioteche l’opera dell’Errante e perciò finiva col ritenere l’autore una invenzione del Mongitore, che «sdoppia[va] il Belando»: «insomma il Belando è siciliano di Castelbuono: e l’Errante per i colleghi dell’Accademia si chiama incognito e balordo, per mostrarsi faceto: stampa la commedia a Palermo [nel 1603] e se la ristampa a Parigi [nel 1609]»[30].
Dovettero passare alcuni decenni perché all’Errante fosse restituita l’identità, per merito della catanese Carmelina Naselli, che all’inizio degli anni Trenta del Novecento, attraverso un’attenta lettura della commedia Inganni d’amore reperita presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (dove si conserva ai segni Palat. 12.7.2.39, unica copia esistente a mia conoscenza, della quale parecchi anni or sono ho avuto il microfilm), ha potuto dimostrare come l’opera dell’Errante differisse linguisticamente e stilisticamente da quella del Belando[31]. E in effetti – come rileva A. Migliori − «il confronto delle opere dei due autori ci rivela personalità artistiche distinte e nell’Errante maggiore senso drammatico, un dialogo più sapiente, mentre più stretta è l’adesione alle regole»[32]. Ma sulla commedia preferisco cedere la parola a Rosario Contarino, che ha curato la voce Errante per il Dizionario Biografico degli Italiani:
Zeppa di omaggi in triplice lingua (toscano, siciliano, latino), cerimoniosamente offerti all’autore da altri [accademici] Curiosi e da letterati locali, la commedia non può prescindere da un’immediata ricezione paesana e presuppone la complicità di spettatori pronti a cogliere i riferimenti a realtà e situazioni vicine. Ma non per questo la commedia ha andamento municipalistico ed è sprovvista di misura e accorgimenti letterari. Regolare è intanto la divisione in cinque atti; e canonico il rispetto delle tre unità, che fa addensare in un giorno e una notte tutta una ridda di avvenimenti concatenati. L’E. ha creato una vasta e complicata macchina d’azione, di cui sono motore gli “inganni”, ora orditi con astuzia sapiente, ora di rimbalzo generati dalla mischia degli avvenimenti.
Sullo sfondo del borgo di Castelbuono − ma nella piccola élite dei cittadini di riguardo − Ambrogio ama Marzia; Marzia e Leonora amano Ippolito; Aurelio ama Leonora; Lucilla ama Aurelio; c’è insomma come una catena di amanti non corrisposti, che dà vita ad una girandola di trovate ingegnose, di trame incrociate e sovrapposte… Commedia con scene e atmosfere pronunciatamente licenziose, ma sempre imbrigliate da un forte senso della decenza e dell’onorabilità, Inganni d’amore è infatti affidata, per l’assolvimento delle sue pretese ricreative, più alla macchinosità dell’“imbroglio” che all’esasperazione e, quindi, alla satira o alla parodia di tipi e situazioni irregolari. Tipici sono parecchi personaggi, quasi ritratti nelle pose irrigidite dei caratteri (il vecchio babbeo esposto al ludibrio nel suo abito di “galante giovanetto innamorato”, la cortigiana sentimentale, i servi farabutti)…. Ma il vero tono della commedia si trova, fuori da questi clichés, in un’andatura sostanzialmente moralistica, che finisce con il castigare i desideri illeciti a beneficio dell’ordine matrimoniale… Rispetto a questo prevalere del serio e del lecito, il triviale rimane episodio di poca importanza; ed esso affiora per lo più, oltre che nella sfera del rozzo interesse economico rivendicato dai servi, nell’ambito del desiderio sessuale, che in poche e circoscritte situazioni acquista una sua qualche greve risonanza.
L’E., con la sua vena urbana e i suoi giudiziosi scioglimenti rispettosi del buon costume, è scrittore egualmente corretto, lontano dall’esuberanza linguistica, come lo è dai garbugli scenici incontrollabili o dagli eccessi furbeschi e parodistici. Egli porta nella sua scrittura un entusiasmo di giovane letterato, che descrive la passione d’amore dei suoi personaggi citando quella degli ovidiani Salmace ed Ermafrodito (atto terzo, scena seconda), e che soprattutto mostra le sue letture di Boccaccio, ora attraverso un’allusione a Calandrino, ora attraverso l’analogia di situazione col Decamerone II, III (la scoperta sotto un abito maschile di “popelline tonde e bianche come la neve”). Autore colto ed emendato, l’E. riduce al minimo la presenza dei forestierismi e non attinge nemmeno dal dialetto, limitandosi a ricorrere talvolta a vocaboli rari e gergali e una volta anche al latino (l’aforisma «omnis repletio mala»), sia pure in contesto parodistico. Chiusa nel piccolo spazio cittadino di Castelbuono e tutta correlata con l’attività dell’Accademia dei Curiosi, chiamati in causa con evidente scopo laudativo anche per le loro tirate antifemministe (atto quarto, scena seconda), la commedia dell’E. non manca di rivelarci, dietro le censure e l’elogio dell’ordine, le miserie e i disagi del suo secolo. Miserie e disagi che si avvertono nel richiamo insistito al problema della sopravvivenza alimentare («Forse in quel tempo il pane era scarso come adesso»), che si colora talvolta di effetti orrifici e raccapriccianti, come nel racconto del rapimento di Beatrice (atto quinto, scena ottava) da parte del cingaro Farfallone. L’agnizione va infatti in questo caso al di là dello scontato effetto teatrale e diventa testimonianza realistica degli efferati costumi del tempo. Un tempo, in cui i bambini rapiti appagavano, debitamente storpiati, la curiosità di un pubblico amante delle mostruosità e consentivano ai loro carnefici di “andarsi guadagnando il pane per questa o quell’altra città”[33].
Contarino conclude: «si ignorano il luogo e la data della sua morte». Non ha torto. Adesso però ne sappiamo di più. Vincenzo Errante – è noto − era figlio del giurisperito Celidonio Errante, che all’inizio del 1562 aveva sposato a Castelbuono Vittoria Flodiola e vi si era trasferito. Alla morte del padre, egli – stando al testamento di Celidonio − contava circa dieci anni e, poiché il testamento fu redatto nel settembre 1585, dobbiamo collocare la sua nascita nel 1575. La sua presenza a Castelbuono è documentata fino al 1597, quando fece anche da testimone in un atto del notaio Guarneri. Poi si può dire che il suo nome scompaia quasi del tutto, ricordato appena nel testamento del fratello Gian Francesco, deceduto nel 1612, e nel rivelo del 1607 di Eutizio Giaconia (marito della sorella Annuccia), al quale egli doveva o. 16 come «Vincenzo Errante di Pitineo»[34]. La citazione di Gian Francesco dimostra che nel 1612 Vincenzo era ancora in vita, mentre il riferimento di Eutizio apre una nuova strada, rimandando proprio alla vicina Pettineo, il luogo dove l’1 aprile 1603 Vincenzo aveva redatto la dedica della commedia al suo protettore Marco Antonio Ferrero, barone di Pettineo. Una indagine sui registri parrocchiali di Pettineo si è rivelata felicissima:
Die 8 augusto XII Indizione 1599. Lo magnifico Vincentio Erranti, spusu di l’una parti, et la magnifica Francesca Cannata, spusa di l’altra parti, facti li tri admonitioni in questa mayuri ecclesia di Pittineo conforme a lo Conciglio tridentino, non chi essendo nullo impedimento foro spusati per mi don Ascanio Roffino, archipresbiteri di detta terra[35].
Il contratto matrimoniale era stato stipulato appena quattro giorni prima, in data 4 agosto 1599, dal notaio Innocenzo (?) Lo Conti di Pettineo. Dal 1599 quindi Vincenzo Errante non abitava più a Castelbuono, dove però molto probabilmente in precedenza aveva già composto la commedia e, in attesa che si trovasse il mecenate disposto ad accollarsi le spese della pubblicazione, l’aveva diffusa manoscritta e forse anche recitata. Contarino infatti correttamente osserva che «la commedia non può prescindere da un’immediata ricezione paesana e presuppone la complicità di spettatori pronti a cogliere i riferimenti a realtà e situazioni vicine», ossia la complicità degli spettatori, in particolare dei suoi amici dell’Accademia dei Curiosi, prodighi di elogi ed encomi. Il notaio Mazza nel suo sonetto esprimeva stupore per la corretta descrizione degli inganni d’amore da parte del giovane Vincenzo, «in sì acerba età che à pena al quinto lustro arrivi». Quando il notaio scrisse i suoi versi, Vincenzo aveva quindi circa 25 anni, ciò che ha fatto ritenere – erroneamente, a mio parere − il 1578 come anno della sua nascita, retrodatando di 25 anni il 1603, anno della dedica al barone di Pettineo e della pubblicazione della commedia. Ma non è detto che i versi del Mazza fossero proprio dello stesso anno 1603. Penso invece che, come la commedia, fossero già pronti da qualche anno e in tal caso i versi del notaio ci riportano al 1575 come anno della nascita di Vincenzo Errante, come del resto si deduce dal testamento del padre Celidonio, che non era un analfabeta. La data del 1575 è confermata inoltre dal rivelo di anime e beni che egli presentò a Pettineo il 9 dicembre 1615, in cui dichiarò di avere quarant’anni. Resta il problema del luogo dove potesse essere recitata, dato che dalla nostra documentazione non risulta ancora l’esistenza di una struttura teatrale.
Anche se personalmente era uno squattrinato (la madre Vittoria Flodiola, ancora in vita, disponeva di un patrimonio ormai modesto, che conservava come dote per le figlie), Vincenzo a Pettineo entrò a far parte dell’élite locale, se gli si attribuiva il titolo di magnifico. Magnifica era anche la moglie, la quindicenne Francesca Cannata di Nicolò, e non a caso il loro matrimonio fu celebrato personalmente dall’arciprete del luogo. I beni che egli rivelava nel 1615 erano localizzati tutti a Pettineo e molto probabilmente costituivano l’intera dote di Francesca, che intanto gli aveva dato almeno cinque figli: tre femmine (Flaminia, Costanza e Agata) e due maschi, Nicolò di anni 6 e Celidonio di anni 1, che ricordavano nei nomi i nonni materno e paterno. Possedeva due case, una nel quartiere della Badia e l’altra nel quartiere Porta di Palermo, due uliveti nelle contrade Casale e Conto, un vigneto in contrada San Todaro, un orto in contrada Santa Caterina, delle rendite al 10 per cento, una tazza, tre cucchiaini e tre forchette d’argento. In tutto un patrimonio lordo di o. 254, che a causa di oneri e debiti si riduceva a un patrimonio netto di o. 149, che non era un grosso patrimonio. Tra i debiti c’era anche quello nei confronti del cognato Eutizio Giaconia, non ancora interamente saldato[36]. Non si comprende quale fosse esattamente l’attività di Vincenzo: forse commerciava olio, prodotto tipico di Pettineo; sicuramente non poteva vivere di rendita.
Il dubbio che il Vincenzo Errante di Pettineo potesse essere un omonimo del Vincenzo Errante autore della commedia Inganni d’amore è fugato dal rivelo del 1625, in cui il rivelante dichiarava di essere figlio «de li quondam Celidonio et Vittoria» e di avere cinquant’anni, confermando il 1575 come data di nascita. La sua famiglia si era intanto ridotta di numero, per il decesso di Celidonio e forse anche per il matrimonio di qualcuna delle figlie. A suo carico rimanevano soltanto Nicolò di anni 15 e Costanza. Rispetto al 1615, il patrimonio rimaneva inalterato e qualche vecchio debito era stato anche saldato, ma le valutazioni attribuite ai diversi beni erano molto più basse che in precedenza: il valore dell’abitazione principale crollava da 50 onze a 28, della seconda casa, ridotta ormai a casalino, da o. 30 a 8, dell’uliveto di contrada Casale da o. 100 a 40 e dell’uliveto di contrada Conto da o. 40 a 30, dell’orto da o. 3 a 2, mentre il vigneto in contrada San Teodoro era stato trasformato in uliveto e la sua valutazione passava da o. 10 a 8. Il valore delle rendite rimaneva inalterato (o. 12), mentre l’argenteria non era più rivelata (occultamento?) e di contro si denunciavano due cantari di olio (kg. 160), con un dimezzamento del valore dei beni mobili da 8 a 4 onze. Gli oneri (rendite passive) erano leggermente più pesanti, ma i debiti erano notevolmente diminuiti (il credito al cognato Giaconia era stato pagato): da o. 42.15 a 7.15. E tuttavia, per effetto della notevole contrazione del valore degli immobili, il patrimonio netto si riduceva ad appena o. 19.15[37].
Dieci anni dopo, nel gennaio 1635, «Vincentius Erranti, oriundus Castri boni et civis huius terre Pittinei per ductionem uxoris», spontaneamente volle restituire alla moglie Francesca, assistita dal comune figlio sacerdote Nicolò, parte della sua dote, facendo seguito a una precedente restituzione in notaio Sebastiano Genito (?) di Pettineo in data 9 febbraio 1608. Le cedeva così il vigneto in contrada San Todaro con tutti i miglioramenti da lui effettuati, che la moglie aveva ereditato dalla defunta madre; una stanza solerata, ossia dammuso, chiamata la cucina, che egli stesso aveva fatto costruire nel vicolo concessogli dal defunto barone Marco Antonio Ferrero, collaterale alla casa solerata che la moglie aveva ereditato extradote dalla madre; tutti i suoi libri, anche manoscritti, gli strumenti musicali, suppellettili e utensili presenti all’interno della sua abitazione, e ancora qualsiasi oggetto, senza indicazione di nome e di genere, d’oro, d’argento, di rame, di stagno, di ferro, di legno, di terracotta, di lana, di lino e di seta: «omnes eius libros quos habet, tam scriptos a mano quam a stampa, et omnia instrumenta sua musice, stivilis et arnesis dictae domus ac alia universa qua ipse Vincencius habet et existentia a limine intus dictarum domorum sue solite habitationis et etiam huiuscumque sine nominibus, generibus et species auri, argenti, rami, stagni, ferri, ligni, terrecotte, lane, lini et sericarum»[38]. L’arredamento dell’abitazione dimostra come il suo tenore di vita fosse in fondo quello di un intellettuale benestante di paese del suo tempo. Inoltre, il riferimento a scritti a mano donati alla moglie mi fa pensare che egli, oltre alla commedia Inganni d’amore abbia potuto scrivere altre opere, lasciate manoscritte per l’impossibilità di trovare un mecenate che si accollasse le spese della pubblicazione. E forse non ricorda male il vecchio arciprete di Pettineo Orazio Sapensa, per il quale l’archivio parrocchiale conservava un manoscritto, oggi irreperibile, su Santa Oliva, patrona di Pettineo, di cui era autore ‘tale’ Vincenzo Errante[39].
L’ultimo suo rivelo è quello del 1637. La famiglia si era ridotta ai due coniugi, i figli non c’erano più e al figlio Nicolò, sacerdote e “franco di gabella”, probabilmente era stata trasferita la parte più consistente del patrimonio come patrimonio sacro per consentirgli l’ordinazione sacerdotale: «Io Vincenzo Errante, revelante, dice haver fatto donatione di beni non revelati a persone assenti di militia e franchi di gabella». Non riesco a individuare le “persone assenti di milizia” a cui egli aveva fatto dono di una parte del patrimonio, dato che non risulta l’esistenza di altri figli maschi oltre il sacerdote Nicolò e il defunto Celidonio: probabilmente si trattava di un genero. A giudicare dai nomi dei confinanti, egli continuava ad abitare nella vecchia casa, anche se nel frattempo il quartiere aveva cambiato nome in Piazza vecchia e il suo valore si era ridotto a 20 onze. La seconda casa era sempre un casalino dirrupato, mentre l’orto di contrada Santa Caterina si era trasformato in gelseto che aveva come effetto un incredibile incremento del suo valore (o. 17.4), perché i dodici sacchi di fronda di gelso che esso annualmente produceva rendevano o. 1.6, che al 7 per cento equivalevano appunto a un capitale di o. 17.4. Siamo nella fase della massima espansione della gelsicoltura e quindi degli allevamenti dei bachi da seta e della produzione di seta grezza che interessava soprattutto l’area dell’attuale provincia di Messina. Di contro, Vincenzo non aveva più debiti e i suoi oneri si limitavano a una rendita passiva di o. 2 l’anno per un capitale di o. 20, che valeva però a ridurre il suo patrimonio netto a o. 21[40].
Pochi anni ancora e nel marzo 1642 Vincenzo rimase vedovo, per la morte della moglie Francesca, di circa 58 anni[41], alla quale egli non sopravvisse a lungo: dopo avere infatti ricevuto il 19 maggio 1643 l’estrema unzione, il giorno successivo 20 maggio «Vinzentius Erranti, filius quondam Celidonii, etatis annorum septuaginta circiter [in realtà, gli anni erano 68], in domo propria, in comunione Sancte Matris Ecclesiae animam Deo reddidit» e lo stesso giorno fu sepolto nella chiesa madre di Pettineo[42].
Il possesso di più strumenti musicali («omnia instrumenta sua») da parte di Vincenzo Errante dimostra che egli era anche un esperto di musica, forse addirittura un compositore. La musica, come abbiamo visto, era un genere molto coltivato dagli Accademici castelbuonesi, alcuni dei quali ne erano addirittura maestri. Don Nicolò Bandò, ancora chierico, nel 1593 si impegnava per sei mesi con un collega a «inpararlo a cantari in concerto tutti sorti di mottetti… et madrigali». E maestro era anche Valerio Errante, fratello maggiore di Vincenzo, al quale forse aveva insegnato i primi rudimenti: nel 1607, come sappiamo, aveva curato i servizi musicali per la festività della Concezione nella chiesa del Monte e nel 1614 teneva una vera e propria scuola di musica. Con due suoi colleghi chierici assumeva infatti l’incarico di «docere eis artem musice de cantofermo tantum» per un anno, unitamente agli altri suoi allievi. Nel 1627, ormai non più chierico, era ancora in attività e unitamente al sacerdote Francesco Di Maria si impegnava con i giurati «ad assistere… in cantare nell’organo» della Matrice con un compenso annuale di o. 3, a carico della stessa chiesa e della cappella del Sacramento[43]. Erano almeno due le chiese di Castelbuono dotate di organo, perché – come sappiamo − oltre quello della Matrice che nel 1560 era affidato a Tommaso Peroxino, anche i frati di San Francesco disponevano di un organo ancor oggi esistente. Don Cesare Ventimiglia nel maggio 1579 commissionava a un organista palermitano, Nicolò Angelo Testaverde, già noto a Castelbuono, la fabbricazione nella sua bottega di Palermo di un claviorgano, uno strumento musicale particolare che fonde in sé un clavicembalo con un organo: e infatti Testaverde doveva costruire un cembalo con i suoi registri e con il suo organo con tre registri (principale, flauto e piffari), il tutto in legno di cipresso, da consegnare entro il novembre successivo, per il prezzo di o. 24[44].
Con lo strumento di don Cesare erano quindi almeno tre gli organi presenti nella seconda metà del Cinquecento a Castelbuono, che tra le comunità madonite si poneva senz’altro all’avanguardia nel settore musicale. Grazie alla loro presenza si formavano maestri che venivano richiesti anche nei paesi vicini: nel 1569, Francesco Pagesi si impegnava a Polizzi a «docere eos cantum musice» cinque sacerdoti e un suddiacono, per un anno e un compenso di o. 1.6 per ogni discepolo[45]. Credo si trattasse del sacerdote Francesco Pagesi, musicus, che nel 1581 si obbligava col sacerdote Pietro D’Aloisio a «eum docere secundum eius possibilitatem et capacitatem intellettus de cantu et contrapunto», dall’inizio di gennaio a Pasqua, per un compenso di una salma di grano, di cui metà subito e il resto durante la settimana santa[46]. Eppure ancora nel 1582 il sacerdote Orazio Di Marco ingaggiava tre musici di Castrogiovanni, Giuseppe Gambacorta, Antonino Chiavetta e Simone Taccone, perché lo assistessero «cum eorum instrumentis soni» nelle messe cantate dal 17 al 21 agosto con un compenso complessivo di o. 1.18[47].
Dell’Accademia dei Curiosi non facevano parte né medici né giurisperiti. Sul loro impegno culturale non sappiamo quasi nulla, anche perché per i medici mancano anche gli inventari post mortem e quello del dr. Guerrieri non registra l’esistenza di libri. Il minuzioso inventario post mortem dell’avvocato Foti non registra alcun testo giuridico. Ai testi giuridici e filosofici del notaio Matta si è già accennato, mentre la lunga lista dei libri della biblioteca dell’uid Ottavio Abruzzo (bona mobilia reperta in scriptorio) contenuta nell’inventario post mortem è pressoché illeggibile e peraltro poco analitica dato che autori e titoli sono indicati molto sommariamente. Peccato che una biblioteca così ben fornita come era indubbiamente quella dell’avvocato Abruzzo non possa essere meglio conosciuta. Tra le opere individuate[48], oltre ai testi canonici del diritto siculo, mi piace segnalare la presenza dell’opera sulla nobiltà di André Tiraqueau, ancor oggi ritenuta fondamentale dagli studiosi che si occupano di questioni attinenti alla nobiltà. E l’Abruzzo, come sappiamo, era autore di una storia di Castelbuono, in cui certamente gran parte era dedicata ai Ventimiglia.
Accanto a un teatro colto, quale era certamente quello degli Accademici, a Castelbuono negli stessi anni troviamo traccia di un teatro popolare: nel maggio 1596 Antonio Rametta, Cristoforo Capone e Bernardino Albani, conosciuti dal notaio Mazza ma i cui cognomi (tranne Rametta) non sembrano del luogo, ingaggiarono l’attore napoletano Decio Della Rursana, presente a Castelbuono e anch’egli conosciuto dal notaio, perché ‘servisse’ loro «ut dicitur in comedia et in banco di trastullo», ossia perché recitasse come attore in teatro sino al primo giorno della successiva quaresima, quindi per tutta l’estate, l’autunno e l’intero periodo di Carnevale, con un salario abbastanza elevato di tre tarì al giorno oltre vitto e alloggio, «cossì quando si recita, come quando non si recita». Il contratto di ingaggio prevedeva che l’attore napoletano potesse allontanarsi illicenziato dall’attività («stia in electione sua d’andarsene») sin dal «primo giorno che detti di Rametta, Albani et Caponi mancheranno di dare al detto Detio detta mercede»[49]. Poiché si trattava di rappresentazioni teatrali laiche, dobbiamo escludere che si tenessero all’interno delle chiese, tanto più che gli spettacoli non erano occasionali ma si prolungavano per un’intera stagione, periodo di Carnevale compreso. Dobbiamo quindi pensare all’esistenza di un locale adibito a teatro, anche se, ripeto, nella documentazione di esso non c’è alcuna traccia.
[1] Cfr. l’inventario pubblicato da E. Magnano di San Lio, Castelbuono capitale dei Ventimiglia cit., pp. 279-281.
[2] Tra cui testi di Teocrito, Procopio da Cesarea, Claudio Tolomeo (Geografia), Plutarco (Vite parallele), Plinio de Istorie (Naturalis historia?), Aristotele, Diodoro Siculo, Appiano Alessandrino, Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, Petronio, Svetonio, Cicerone, Columella (De re rustica?), Cesare (Comentarii), Cassiodoro.
[3] Tra cui testi di Flavio Biondo, Tommaso Fazello, Francesco Maurolico (Martirologio), Vita di Carlo V, Libro di li governi di li regni, Libro de orationi militari, Leandro Alberti (Descrittione di tutta Italia), Conte Girolamo Alessandrini (Res gesta Turcarum in insula Melita), Paolo Giovio (Vite di uomini illustri), Paolo Giovio (altri tre volumi), Francesco Guicciardini (La historia d’Italia), Vita di Consalvo [Ferrando di] Cordova (di Paolo Giovio?), Francesco Sansovino ([Il simolacro di] Carlo Quinto [imperadore]), Lodovico Guicciardini (Descrittione … di tutti i Paesi Bassi?), le relazioni di Pietro Martire (Le Decadi?), Bembo (4 libri), Discorso della guerra (Machiavelli?), Dante, Agostino Dati, Girolamo Balbi, La antiquità di Roma.
[4] Tra cui Libro dicto Utriusque Testamenti (forse Biblia utriusque Testamenti iuxta vulgatam translationem et eam quam haberi potuit emendatissimam di Erasmo, del 1538), Rosa aurea (forse Rosa aurea, seu Margarita theologica, omnia totius anni Euangelia complectens di Silvestro Mazzolini), due libri di consigli, messale romano (2 copie), Dionisio cartusiano, Catalogo Sanctorum (di Pietro de Natalibus?), Laude prehebenda sapiente tractato (di Jacopone da Todi?), breviari (n. 3 copie), Pietro Lombardo sopra la sacra scriptura (Liber sententiarum?), pontificale, Legenda sanctorum (di Jacopo da Varazze?), Bibbia (2 copie), Summa angelica (di Antonio Carletti), San Bernardo, Sant’Agostino (3 testi), San Tommaso, San Tommaso (Catena aurea e Questioni), San Cipriano, San Paolo (epistole), Sant’Antonino di Firenze, Sant’Anselmo, San Basilio, Sant’Ambrogio, Girolamo Eusebio (San Girolamo), San Crisostomo, San Gregorio, Sant’Atanasio, Origene d’Alessandria.
[5] Testi n. 3 di Vincenzo Ispano (glossatore), Vocabolario utriusque iuris, Iustitia di Giulio Cesare Scaligero, Titulorum unius iuris.
[6] Libro del miscelo di simplici cum le figure, Libro con le figore de li pesci, due testi di agricoltura, Filippo Ingrassia (forse la Iatrapologia adversus barbaros medicos, dedicata al fratello Giovanni II).
[7] Opera dicta la tautologia, libro de grammatica.
[8] V. Errante, Inganni d’amore cit., pp. 62-63.
[9] R. Termotto, Due musici nella Castelbuono del ‘600, «Le Madonie», LXXXVIII, n. 5, 1-15 maggio 2008, p. 3.
[10] A. Mogavero Fina, Notizie storiche sulla chiesa del Monte cit.
[11] Asti, notaio Gian Giacomo Russo, b. 2304, 12 febbraio 1596 (s. c. 1597), c. 192r. Debbo l’indicazione a Rosario Termotto, che ringrazio.
[12] Asp, Trp, Riveli, 1584, b. 939, cc. 552-553.
[13] Asti, notaio Vittorio Mazza, b. 2360, 11 marzo 1591, s. c. 1592, cc. 222r-225r.
[14] Ivi, b. 2361, 14 settembre 1592, cc. 10v-11r. Ferrigno poneva o. 25 contanti e il suo lavoro; Giaconia 4 buoi, 1 vacca figliata e un garzone. Se necessario, sarebbero stati assunti altri salariati a spese comuni.
[15] Asti, notaio Vittorio Mazza, b. 2361, 7 novembre 1592.
[16] Asp, Trp, Riveli, 1593, b. 940, cc. 125r-v.
[17] Asp, Trp, Riveli, 1607, b. 941, cc. illeggibili: rivelo di Potenziana Alteri.
[18] Asti, notaio Filippo Guarneri, b. 2238, 13 agosto 1600, cc. 268r-v.
[19] Ivi, 13 agosto 1600, cc. 266v-268r e note a margine.
[20] Trp, Riveli, 1607, b. 942, cc. 425-426.
[21] Asti, notaio Filippo Guarneri, b. 2242, 24 giugno 1611, cc. 181 sgg. L’inventario post mortem è incompleto: riporta solo il possesso di un vigneto con casa, ulivi, terreno vuoto in contrada Rocca della Lupa, territorio di Pollina (Ivi, 3 agosto 1611, cc. 206r-207r).
[22] Trp, Riveli, 1584, b. 939, cc. 718r-v.
[23] Trp, Riveli, 1593, b. 941, cc. 613r-v.
[24] Paola era anche vedova del ricco Martino Bisignana e madre del chierico Paolo, che nel 1598 lasciava suo erede universale (Asti, notaio Vittorio Mazza, b. 2363, 12 novembre 1598, cc. 36r sgg).
[25] Trp, Riveli, 1607, b. 942, cc. 645-646.
[26] A. Quondam, L’Accademia, in A. Asor Rosa (dir.), Letteratura italiana, vol. I, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino, 1982, p. 831. Quondam in appendice indica in due le accademie fiorite a Castelbuono, entrambe nel Seicento (Ivi, p. 891). In realtà, l’Accademia dei Curiosi era attiva già a fine Cinquecento.
[27] A. Mongitore, Bibliotheca sicula, Panormi, 1708, II, p. 281.
[28] A. Narbone, Bibliografia sicola sistematica, Palermo, 1855, IV, p. 99.
[29] G.M. Mira, Bibliografia siciliana, . 1875, I, pp. 92, 330.
[30] E. Teza, Vincenzo Belando. Versi veneziani nel Cinquecento di un siciliano, «Atti e memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova», anno CCCLIX (1899-1900), N.S. vol. XVI, p. 97. Il riferimento a incognito e balordo è dovuto al fatto che, nelle sue lettere, il Belando si nominava talvolta el dottor incognito, talvolta accademic balord (Ibid.). Nello stesso anno, il Teza ritornò ancora su Belando, per ribadire di «vedere tutti i segni di unicità nelle parole che accompagnano quell’operuccia: ed ecco infatti che cosa ci afferma il Belando: “Ho composto questa commedia, o più tosto spasso, in questi miei miseri ultimi anni e torbidi tempi. Io non voleva porla in luce…”. Se una edizione era uscita nel 1603, non coglierebbe l’autore occasione per ricordarlo? Vero è che i commedianti usano la maschera e le mascherate, e che il giurare nelle loro parole è imprudente: potendo anche darsi che il libro vecchio fosse tanto rinnovato da permettere all’autore di trascurarlo» (Id., Intorno alla commedia “Gli amorosi inganni” di Vincenzo Belando, Ivi, pp. 295-296). Eppure, l’espressione del Belando “Io non voleva porla in luce” avrebbe dovuto far riflettere il Teza un po’ di più! Significa che nel 1609 l’autore la presentava per la prima volta e non una seconda volta dopo il 1603. E quindi il testo del 1603 non poteva appartenere al Belando.
[31]C. Naselli, Commedie del Seicento. Noterella bibliografica, «La Bibliofilia», XXXIV (1932), 6-7, pp. 237-242; Ead., Commediografi e accademici siciliani del Seicento, «Convivium», V (1933), pp. 232-248.
[32]A. Migliori, Belando, Vincenzo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 7 (1970), ad vocem.
[33] R. Contarino, Errante Vincenzo, Ivi, vol. 43 (1993), ad vocem.
[34] Trp, Riveli, 1607, b. 941, c. illeggibile.
[35] Archivio Parrocchiale di Pettineo, Registro di Matrimoni 1561-1670, b. 23, ad diem. Debbo alla cortesia di Angelo Pettineo, che ringrazio, l’indagine sui registri parrocchiali di matrimoni e defunti di Pettineo.
[36] Trp, Riveli di Pettineo, 1615,b. 1490, Rivelo di Vincenzo Errante, Pettineo, 9 dicembre 1615, cc. 671r-672r. Il rivelo è redatto dallo stesso Errante, come si rileva confrontando l’espressione iniziale “Vincenzo Errante capo di casa” con quella finale della terza pagina “Io Vincenzo Errante confirmo ut supra manu propria”, mentre il “Vincenzo Erranti” successivo è di mano del funzionario che ha accolto il rivelo e calcolato l’entità dei beni rivelati.
[37] Ivi, Riveli di Pettineo, 1625,b. 1492, vol. II, Rivelo di Vincenzo Errante, 31 gennaio 1625, cc. 167r-169v.
[38] Archivio di Stato di Messina, Fondo notarile di Mistretta, notaio Paolo Gulioso, b. 366, II, 14 gennaio 1635, cc. 29v-30r. Debbo l’indicazione alla cortesia del sig. Salvatore Casablanca, ricercatore dell’Archivio di Stato di Messina, che ringrazio.
[39] Lo avrebbe comunicato all’architetto Angelo Pettineo che lo aveva interpellato per mio conto.
[40] Trp, Riveli di Pettineo, 1637,b. 1492, vol. III, Rivelo di Vincenzo Errante, 21 agosto 1637, cc. 91r-v.
[41] Archivio Parrocchiale di Pettineo, Registro di defunti 1631-1655, b. 33, c. 180.
[42] Ivi, c. 217. Una ricerca nei notai di Pettineo, conservati presso l’Archivio di Stato di Messina, potrebbe fornirci interessanti lumi sulla sua attività economica e forse anche sull’attività intellettuale. Spero che a Pettineo qualcuno voglia occuparsene.
[43] Cit. in R. Termotto, Documenti per una storia della musica sacra nelle Madonie, «Valdinoto. Rivista della Società calatina di Storia patria e Cultura», n. 1, 2006, pp. 195-196.
[44] Asti, notaio Pietro Paolo Abruzzo, b. 2191, 6 maggio 1579, c. 551r. Il più antico claviorgano oggi esistente è conservato presso il Victoria and Albert Museum di Londra ed è stato costruito da un fiammingo proprio nel 1579, l’anno in cui l’artigiano palermitano costruiva quello di don Cesare. Non so se facesse parte del claviorgano di don Cesare il «cimbalo di sonari di tasti a due registri con suo cascionetto di sotto e due trispi», che nel 1671 Giovanni Flodiola, gabelloto della secrezia di Castelbuono, vendette a Francesco Bonafede per o. 12 (cit. in R. Termotto, Documenti per una storia della musica sacra nelle Madonie cit., p. 199).
[45] R. Termotto, Documenti per una storia della musica sacra nelle Madonie cit., p. 194.
[46] Asti, notaio Filippo Guarneri, b. 2235, 2 gennaio 1580 (s. c. 1581). Attorno al 1590, il sacerdote Pagesio impiegava i compensi ricevuti nell’acquisto di parecchi piccoli uliveti.
[47] Ivi, 7 agosto 1582, cc. 491v-492r.
[48] Il notaio Russo, che con una scrittura ostica ha redatto l’inventario, ha rilevato dai frontespizi dei volumi, senza comprenderli, quelli che a lui parevano titoli (per esempio, elenca un non meglio specificato «opus aureum»). Con grosse difficoltà sono riuscito a individuare le seguenti opere e autori: «cinco testi civili»(probabilmente i cinque volumi del corpus iuris civilis), l’opera di Bartolo compresi i volumi con i trattati e i consilia e compreso il repertorio, un «index alfabeticum omnium Capitulorum Siciliae», la Summa artis notariae di Rolandino de’ Passaggeri, lo Speculum di Guglielmo Durante, Giason del Maino, un «Repertorium Marsilii» (riferibile ad un’opera di Ippolito Marsili), ilDe origine Italiae (di Mirsilo Lesbio? il nome è sconciato), la Practica sindicatus di Girolamo Giorlando, le Constitutioni prammaticali del Regno di Sicilia fatte sotto … Marc’Antonio Colonna (Palermo, 1583), l’Istruzione della milizia ordinaria del regno di Sicilia riformata dal Viceré conte di Olivares nel 1595, gli Iura municipalia seu consuetudines felicis urbis Panormi di Paolo Caggio, il Convivium Quadragesimale di Valente Quaresima, Speculum confessorum del francescano Matteo Corradone, il Tiraqueau, la cosiddetta Practica di Lanfranco di Oriano, la cosiddetta Practica Baldi (cioè la Compendiosa di Tancredi da Corneto), il Tractatus de maleficiis di Angelo Gambiglioni, un De pactis (di Andrea ab Exea? il cognome è sconciato), la Pratica criminalis di Pietro Follerio, delle «communes opiniones criminales» (di Prospero Farinacci?), Egidio Bossi, Giulio Claro, le Prammatiche del Regno di Sicilia, il Supplementum chronicarum orbis ab initio mundi usque ad annum 1482 di Filippo di Bergamo, Nicolò Intriglioli, Ottavio Corsetto, Giuseppe Cumia (Asti, notaio Gian Giacomo Russo, b. 2299, 12 settembre 1606, cc. 3v-5r).
[49] Asti, notaio Vittorio Mazza, b. 2363, 4 maggio 1596.