Giornate castelbuonesi, sbriciolate… Usuali diete del passato
Giornate castelbuonesi, sbriciolate… Usuali diete del passato
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 15 marzo 1990]
Quasi impossibile condensare in poche righe le abitudini alimentari di circa un secolo addietro, sia per la quantità e la qualità delle calorie, sia per i sistemi di preparazione culinaria.
Un tentativo del genere, addentellato e riferito alle masse del popolo, tenendo conto delle cadenze autonome ed autarchiche imposte dalle vicende individuali del lavoro agropastorale ed artigianale di allora, non può prescindere dall’’inquadratura della famiglia nel contesto delle tendenze socio-economiche dell’epoca trascorsa.
Occorre anzitutto ricordare che, in quei tempi, le campagne in ogni minimo angolo di terreno erano tutte coltivate, sia a cura dei contadini o dei mezzadri, sia anche a cura dei proprietari, che non disdegnavano, pur se bravi artigiani, o solerti professionisti o santi sacerdoti, di prendere talvolta in mano, nei ritagli di tempo, la zappa e la roncola e di portare la capretta al pascolo. Bisogna, poi, ignorare l’invitante e funzionale cucina all’’americana e le lucide, splendide batterie di oggi per immergersi nell’affumicato ma, forse, più raccolto ambiente di ieri. Occorre, ancora, presentare le armi alla gloriosa e più redditizia tannura a vapuri (fornacella a legna), che conferiva, dato l’alto grado di calore sviluppato, alla pasta ed alla verdura, scodellate dalla ridente pentola di rame stagnata, un sapore differente, ben più gradevole; e si deve, pure, rendere l’onore delle armi al casalingo, annerito ma benemerito, forno a legna che quasi settimanalmente approntava il pane per tutta la famiglia.
E non si può tralasciare la minuscola, rustica, caratteristica tavuletta–buffetta, bisunta e zoppicante sull’impiantito irregolare del pavimento di parmarischi (mattoni quadrati di terracotta): attorno ad essa si riuniva all’unisono la patriarcale comunità familiare, salmodiando preventivamente in preghiera, consumando rassegnatamente, con tanta gioia, quello che «passava» il Buon Dio… che, in verità, in quei giorni, non era proprio abbondante ed elaborato: si accettava, però, di buon grado il detto che privazioni e pitittu fannu duci lu pani schittu…
Comunque, è certo, in quegli anni non era necessario assumere aperitivi di alcuna specie!… Provvedevano a tutto ed a tutti il Signore e la natura da Lui, come sempre, ben governata.
In quelle mattine di parecchi anni fa, da punti «strategici» del paese, cioé dalle mandrie di S. Agostino, di vicolo Capre, dû chianu ‘a badda, di darra i mura, di pontisiccu, uscivano i caprai con çisca (moltra) e stagnata (secchiello), per andare a misurare di porta in porta, ognuno presso i propri clienti, il latte appena munto, ancora tiepido di calore animale: molte famiglie, come si è già accennato, per convenienza, allevavano e provvedevano di persona al pascolo della capretta, che assicurava il latte a tutti i componenti. Era questo latte, schiumoso e vivo, spesso senza altri condimenti, talvolta privo di zucchero, il primo sostanziale alimento della giornata ed era già un grosso privilegio se si riusciva ad accompagnarlo quotidianamente con una fetta odorosa di pane casalingo, caliatu (abbrustolito) sulla graticola posta sul carbone. Nessuno usciva mortificato: si sapeva che qualche raro biscotto confezionato in casa si poteva gustare solamente nelle grandi solennità festive o in occasione di memorabili avvenimenti familiari: chi sospettava l’avvento delle odierne fette biscottate, dei grissini, delle merendine, dei crackers?…
Gli uomini si recavano in campagna al lavoro con il buio, al «Padre Nostro», e partivano quasi sempre digiuni, e consumavano una colazione di pane e cipolla cruda, o di pane e ricotta salata, o di pane e olive, con qualche raro frutto, solamente quando il sole era già alto, dopo aver lavorato almeno un paio di ore.
Impensabile, in quell’epoca, la mensa o la refezione scolastica, a mezzogiorno: i ragazzi più fortunati, nell’intervallo delle lezioni (la cosiddetta menz’ura), riuscivano a sgranocchiare un po’ di fichi secchi, qualche sorba o pera secca oppure noci, mandorle e castagne infornate. E poiché i lavoratori, a mezzogiorno, non avevano possibilità di rientrare a casa, ognuno continuava ad arrangiarsi così come poteva, con un pasto freddo. La sera, finalmente, si poteva consumare un pasto caldo.
Il pane costituiva l’alimento base della giornata: era già segno di solido benessere se il frumento bastava alla famiglia per tutta l’annata.
Bisogna, intanto, considerare il fatto che pasta e riso non erano alla portata di tutti i giorni e di tutte le tasche. La pasta si confezionava, il più delle volte, in casa: con gli spiti (schidioni) di «buda» (mazzasorda, Typha latifolia L.) si confezionavano i maccarruneddri (bucatini), che si asciugavano ntô lìettu di un’estesa tovaglia, da larghe foglie di pasta, stirate ed appiattite, con u signaturi (mattarello) di legno di arancio, e ritagliate con un affilato coltello, si ricavavano ottimamente i tagliarini (tagliatelle) che si stendevano per indurire su appositi bastoni di canna (Arundo donax L.); i pollici di dinamiche praticissime mani di brave massaie sapevano allestire sveltamente uniformi saporiti brugniceddri (buccinelle, conchigliette o gnocchi), ricavati da palline di pasta, metodicamente schiacciate ed arricciolate. Ma questi bocconi, conditi con salsa d’estrattu di pomidoro e spruzzati con ricotta salata grattugiata, erano riservati per la domenica o per festose occasioni.
Di tanto in tanto, specialmente quando si offriva a parenti, vicini e amici u cùonzulu, in occasione di lutto recente, le massaie preparavano a scumiddra (schiumetta), pasta stirata con il mattarello, fino a diventare quasi trasparente, arrotolata a tronchetto, e poi ritagliata sottilmente, quasi a «capello d’angelo», che, asciugata, si accompagnava ad una gallina, nel cui brodo la famiglia colpita si «consolava»…
Oppure, in alternativa a questa pasta si offrivano scagliddri (scagliette), stirate con il solito signaturi e tagliate di traverso sulle liste di tagliatelle in modo da formare un insieme di coriandoletti a forma di piccoli quadratini o rombetti irregolari. U cùonzulu comprendeva talvolta un’«impastata» di taralle, o biscotti, o pastine (sempre prodotti in casa) accompagnati da un fiaschetto d’argilla di muscatìeddru (vino di uva moscato) o di zibibbo (vino di uva zibibbo).
In mancanza di pasta c’era riso con ogni genere di legumi: fagioli, lenticchie, piselli, ceci, anguzzi (cicerchie, Lathyrus sativus L.) oggi sparite dalla circolazione, e, soprattutto, fave. Il toscano Giuseppe Bandi, autore de « I Mille», al seguito di Garibaldi, si meravigliò, e ne lasciò memoria, di aver visto i siciliani che, in ogni tempo, consumavano volentieri fave – verdi o secche –in uno con gli animali domestici: quadrupedi da soma, capre, suini, galline. Le fave si consumavano comunque: lesse, a maccu (favarella – puré di fave), con la verdura, pizzicati (intagliate), infornate, abbrustolite nel braciere, pisciati (sic!), (bollite ed infornate), a fritteddra (frittella) se verdi, forse per una inconsapevole esigenza di assimilarne la proprietà antimalarica (in quei tempi, nella zona, la malaria mieteva parecchie vittime).
Quando le finanze della famiglia lo permettevano c’era a pasta â sira: tante volte i poverelli usavano u sminuzzu (rottame composto da diversi tagli e forme di pasta): beato chi può riuscire ad immaginarsi l’uniformità della cottura di quest’ultima qualità di pasta!…