I cosichïni, dolci storici del Natale di Castelbuono
(Di Massimo Genchi) – Con estremo rammarico ci lasciamo alle spalle anche il secondo round di Dolcemente Castelbuono, «l’evento che celebra l’incanto del Natale» (misca!). Due fine settimana, cinque giorni, di sperticati omaggi «alla cultura culinaria e alle specialità dolciarie che caratterizzano il periodo festivo nella meravigliosa cornice di Castelbuono», prima fra tutte la salsiccia arrostita assieme al suo inebriante fumo e profumo. A seguire – a pari merito – due celebratissimi dolci tradizionali: le panelle e i cazzilli, quindi altri dolci di non minore rilievo: le arancine e il kebab. E “per finire invece pure” il principe dei dolci di Natale: la squisita testa di turco. Nca certu, sempri s’a dittu! E qui tu ti trovi perso di fronte a un immenso bivio: o questi vorrebbero prendere tutti per il culo o, più verosimilmente, non sanno neppure cosa dicono quando parlano, senza entrare nel merito se sanno o non sanno cosa sia la testa di turco e quando si prepara. Grande assente, e qui deve essere successo qualcosa di politicamente rilevante, è stato il dolce dei dolci di Natale, le polpette d’uovo. C’erano invece le sfince fritte e le sfince di san Giuseppe. Aspé, ha obiettato uno in piazza, ma che c’entrano le sfince di San Giuseppe con il Natale? A colui che ha sollevato la stupida domanda il Capo ha prontamente risposto: «Sopprende la sterile polemica e ancora una volta lei a dimostrato tanta ignoranza». Quindi ha continuato: «Quello che si insinua con questa domanda e assurdo è paradossale» perché, ha spiegato mentre trangugiava due fette di panettone imbottito con la sasizza ai ferri, «nella grotta del presepe assieme al bambinello, alla madonna, al bue e ha me chi c’era? San Giuseppe! E allora, c’entrano o non c’entrano le sfinge di san Giuseppe a Natale»? Come si fa a non concordare?
Dolcemente ha consacrato diversi dolci, tutti rigorosamente di Natale e tradizionali di Castelbuono: taralli, bigné, cannola (non quelli di manna di Giulio Gelarti, scritto proprio così), buccellato, lo sfoglio madonita (stavolta fasola bbaddra niente) e, naturalmente, il vin briulé quello che i nostri nonni appena alzati, nelle gelide mattine d’inverno, vi intingevano due belle fette di pane caliato. No, quello era u vinu cùottu, il vin briulé è un’altra cosa. E vabbè, u stissu è!, però vin briulé è più chic, più creativo. Comunque nel corso dei cinque giorni i visitatori hanno avuto l’opportunità di vivere un’esperienza multisensoriale. Ou!, mu-lti-se-nso-ria-le, non so se mi spiego! Significa che chi è venuto al borgo (Borgo vecchio o Borgo nuovo?) guardando, che so, una sfincia, aveva anche il privilegio di toccarla, odorarla, gustarla e magari annacarla per sentire se faceva un qualche scrùscio. Il tutto contemporaneamente, appunto, multisensorial. Ora, dico, potreste mai voi ripetere una esperienza così entusiasmante a casa vostra o in qualsiasi altro posto?
Ma a proposito di dolci di Natale, in mezzo a tutta questa multisensorialità di polpette d’uova che si possono ascoltare e di fumo di salsiccia che si può toccare, in mezzo a tutto questo incanto natalizio che si può odorare, in ogni castelbuonese che legge tutte queste puttanate, sorge spontanea una domanda: ma i cosi chïni cchi mminchia di fini fìciru?
Sarà pure che non sono trendy come i Waffles ma, piaccia o no, i cosi chïni sono e rimangono i nostri dolci tradizionali di Natale. Ogni Natale, da sempre è stato, suggellato dalla produzione, un tempo esclusivamente casalinga, di cosi chïni. Innanzitutto partiamo dal nome che, rispetto a quelli assunti nel resto della Sicilia è un po’ particolare, riunendo l’impersonale cosi, nel senso di ‘dolci’ e, in generale, di ‘oggetti’, e l’univoco chïni, ‘ripieni’. Nei paesi a noi più vicini, invece, i dolci natalizi si chiamano cucchï, cucciddrati, cassati, catùobbisi, turtigliuna e così via. Ma è a Isnello che raggiungono lo zenit denominativo, assumendo il suggestivo nome di corna.
Tutti conoscono il simpatico dialogo fra popolane di Isnello a proposito dei dolci di Natale giocato sul doppio senso di corna nel senso di ‘dolci’ e di ‘infedeltà coniugale’:
- Cummari, cci facìstivi i corna a vostru maritu?
- Un ci l’a fattu, ma fari cci l’hai!
Questa denominazione strana, ma non troppo, del dolce natalizio di Isnello trae origine dalla sua particolare forma ad arco, che richiama proprio le corna animali.
In origine, anche da noi i cosi chïni ebbero una forma del genere, venendo modellati a fagottino, sigillati, tagliati con la rotellina (u spiruni) e poi curvati. Ancora più arcaico sarebbe un’altra procedura consistente nel sistemare il ripieno sulla foglia e poi plasmare quest’ultima in maniera da ottenere un canestrino oblungo che veniva chiuso superiormente da una strisciolina di pasta, in maniera da lasciare due solchi laterali attraverso cui si intravedesse il ripieno.
La forma dei cosi chïni che conosciamo oggi – vale a dire quella con il contorno a petali, ottenuto con le formelle di zinco – è, in definitiva, abbastanza recente, essendo stata introdotta pressappoco nel periodo compreso fra le due guerre. Tale forma giustifica il tipo lessicale cùcchia, di area alto-madonita, il cui significato intrinseco è quello di ‘coppia’. Infatti, il dolce fatto in questo modo si ottiene facendo combaciare – ncucchiari – perfettamente due foglie di pasta preventivamente inframmezzate da una pallina di ripieno. D’altronde anche i fichi essiccati sezionati e aperti, si dispongono l’uno contro l’altro, a cucchï appunto, prima di impilarli, infilzandoli con gli spiedi di canne.
Anche per i cosi chïni, come per ogni altra ricetta,da famiglia a famiglia, si registra una grande variabilità, sia nelle dosi che negli ingredienti. Volendo parlare semplicemente del ripieno, basti pensare che esso, oltre che a base di marmellata di fichi, può ottenersi con quella di zucchina (rigorosamente della varietà lunga) e di zucca rossa, una tipologia di ripieno caduta in disuso, ma assai buona, a dimostrazione del fatto che non è del tutto vero il detto popolare secondo il quale sali metticcinni na visazza, falla comi vua sempri è ccucuzza. D’altra parte, basterebbe ricordarsi della sublime bontà della cucuzzata anche fuori dal contesto dei cosi chïni. Ma anche a volere analizzare solo le varianti del ripieno a base di fichi, ci si perderebbe. Qui è sufficiente osservare che se oggi è quasi esclusivo l’utilizzo della marmellata, un tempo si soleva impiegare i fichi secchi, preventivamente macinati e poi cotti con il caffè, l’uva passa, le mandorle o le noci tostate e triturate, i vari aromi, fra cui la cannella pestata all’istante perché non si disperda il profumo e l’insostituibile buccia di mandarino tagliata a piccoli pezzettini.
Ora, se è vero che i cosi chïni sono i dolci di Natale, è anche vero che non ci si può decidere all’ultimo minuto di produrli ma, almeno una volta, bisognava pensarci, usando una iperbole, ppi Sant’Anna. Infatti, benché la loro produzione fosse limitata agli ultimi venti giorni dell’anno, era in estate che bisognava mettersi all’opera, visto che il grosso del lavoro era rappresentato dalla essiccazione dei fichi, dalla trasformazione dell’uva in uva passa, i pàssuli, dalla preparazione delle marmellate prima di zucchine, poi di fichi e infine, in autunno, di zucca rossa.
Sembra tutto fatto ma il difficile comincia quando c’è da preparare la pasta per la foglia dove tutti gli ingredienti, farina di maiorca, strutto, ma noi diciamo saima, zucchero, uova, cannella pestata finemente, vaniglia, ammoniaca e scorza di limone grattugiata, devono essere amalgamati più che bene per lavorare il composto a lungo, manualmente, fino a ottenere una pasta morbida, assolutamente priva di grumi, avente la consistenza della pasta frolla che viene spianata col matterello, fino a ridurla allo spessore di pochi millimetri. Ecco, se la foglia non è abbastanza sottile non è un vero cosichïnu.
Stesa la foglia, a distanza opportuna vi si dispongono le cucchiaiate di ripieno e, dopo avere stirato un’altra foglia, la si dispone sulla prima pressandola leggermente intorno al ripieno, quindi con le forme di zinco si ritagliano i dolci e, dopo averli deposti nelle teglie unte leggermente, si infornano.
I cosi chïni si decorano a cottura ultimata. Quelli ripieni di marmellata di zucca spolverandoli ccû zzùccaru mparpàbbili, gli altri con una glassa, che da noi si chiama argintatu, e una spolverata di diavulicchï. Per essere apprezzati al meglio, i cosi chïni vanno decorati con una glassa lieve e morbida, per ottenere la quale nel mortaio bisogna mescolare a lungo lo zucchero in polvere, con l’aggiunta di una chiara d’uovo e qualche goccia di limone, per conferirgli lucentezza, finché il composto non comincia a fare le bolle. Dicono gli anziani, appena accumìncia a ffari i palluna è prontu e quindi si può cominciare a decorarli.
Ed è proprio a partire da questo momento che hanno inizio strane manovre di accerchiamento del tavolo da parte dei più piccoli, ma soprattutto dei grandi, per sferrare l’assalto ê cosi chïni, con le donne severamente impegnate a tenerli lontani dal neanche tanto oscuro oggetto del desiderio, benché non sempre con i risultati desiderati. Per evitare ulteriori assalti da parte degli insaziabili masculazzi, a qualsiasi ora del giorno e della notte, le poverette dovevano inventarsi dei nascondigli fuori da ogni immaginazione negli angoli più sperduti della casa dove tenere al sicuro i cosi chini e fare in modo che arrivassero sani e salvi almeno al Natale. Poi, per il Capodanno, come si diceva una volta, suli spinci e Ddia pruvvidi. E infatti dopo Natale bisognava rifarli perché nel grande canestro di vimini in cui erano contenuti, per quanto ben nascosti, a seguito dei ripetuti assalti era rimasto a stento il fondo con qualche briciola e pochi diavulicchï sparsi qua e là. Segno tangibile della prelibatezza e del gradimento di questo antico dolce.