I Democratici per Castelbuono nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
In occasione del 25 Novembre – Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, pubblichiamo il documento con cui si è aperta l’iniziativa “Uomini si diventa”, organizzata dal nostro Movimento lo scorso 15 ottobre, e pubblicato sull’ultimo numero di Suprauponti il giornale di Castelbuono e oltre.
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In un rapporto pubblicato da “Terre des hommes” leggiamo che lo squilibrio a danno del genere femminile in varie fattispecie di reato, in particolare in quelli considerati “spia” delle violenze di genere, è confermata anche sulla popolazione presa nel suo complesso: nei dati dello stesso Servizio Analisi Criminale, le ragazze e donne sono oltre l’82% delle vittime di maltrattamenti contro familiari e conviventi, oltre il 92% di violenze sessuali. A livello globale, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità il 31% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subito almeno una volta nella vita violenza fisica o sessuale da parte di un uomo: si tratta di 736 milioni di donne e ragazze. Un dato sconvolgente, ma una sotto rappresentazione: una ricerca della Banca Mondiale in 44 Paesi stima che meno della metà (49%) delle donne vittime di violenza fisica o sessuale chieda aiuto.
I recenti avvenimenti di cronaca, dallo stupro di gruppo di Palermo ai numerosi episodi di violenza sessuale, fino ad arrivare ai casi di femminicidio (38 donne uccise in ambito familiare fino all’1 novembre), sollecitano domande in ogni direzione. Ma una cosa salta agli occhi sia nell’informazione che nella realtà (che purtroppo non sempre coincidono): i grandi assenti sono gli uomini, i maschi, che stentano a porsi delle domande alle quali in realtà sono intimamente chiamati a rispondere. Qual’è il modello maschile che prevede la nostra cultura? La maschilità è così profondamente legata alla violenza e alla sopraffazione? Possiamo fare qualcosa nel nostro piccolo per cambiare, arginare, impedire il dilagare di episodi così biechi e feroci, tanto tristemente all’ordine del giorno? Possiamo immaginare modelli alternativi per definire le maschilità?
Nessuno di noi è responsabile direttamente dei comportamenti altrui, ma lo siamo nel momento in cui la costruzione collettiva delle maschilità implica ancora oggi la definizione di una identità di pretesa “natura”, generale e astratta, aggressiva, violenta, razzista, classista, abilista, omofobica, sessista, misogina. “La maschilità tossica non ammette che (un uomo) manifesti in maniera troppo aperta gesti ispirati alla misericordia, alla dolcezza d’animo, alla cura e alla volontà di perdono, considerate mollezze di cuore delle femmine.”
“Ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo, ma minacce, aggressioni, molestie, ricatti sul lavoro, umiliazioni che non vanno necessariamente sui giornali segnano la nostra realtà, solo a volerla vedere. Una realtà che non può far a meno di interrogare ogni uomo. Cosa c’è di quella violenza che mi chiama in causa?
È facile la tentazione di liquidare come mostri, criminali, matti, gli autori di gesti terribili. Ma l’indignazione dura il breve spazio dell’attenzione mediatica e, soprattutto, allontana dagli uomini il problema, riducendolo a una patologia estranea alla realtà degli uomini da delegare alle forze dell’ordine la sua repressione e, soddisfatti, tornare alla propria normalità. Invece di rassicurarmi, dicendo a Voi stessi che non Vi riguarda, dovreste guardare negli occhi quell’orrore e chiederVi cosa dice degli uomini.”
Quel fischiare dietro a una donna per strada, aggredirla con una battuta volgare e poi riderne con gli amici, quanto ha che fare col “desiderio” verso quella donna? Chi le fischia dietro, suona il clacson, urla la battuta volgare cerca di sollecitare forse il suo interesse o la sua disponibilità? Chi può pensare che lo stupro di gruppo abbia a che fare con la possibilità di fare sesso in una società in cui l’incontro sessuale è sdoganato e accessibile? E perché riprendere con il cellulare quello stupro? E cosa dicono i commenti in chat? La donna scompare e resta la complicità tra maschi, l’esercizio del potere, il gregarismo.
E l’unica alternativa che la maggioranza degli uomini mette in atto è distogliere lo sguardo, rimuovere mentalmente un desiderio che crediamo connaturato (ancora una volta la natura!) a una maschilità che dobbiamo definire pubblicamente odiosa ma che poi ci sorprende complici quando incrociamo lo sguardo di un altro uomo a cui non rivolgiamo mai un rimprovero, quanto piuttosto un ammiccamento? “Nelle chat tra i giovani uomini che hanno stuprano in gruppo la ragazza a Palermo, quando uno scrive: “mi ha fatto un po’ schifo, ma la carne è carne” troviamo la “natura” del desiderio maschile, che qui diventa una giustificazione assolutoria.”
“E’ un potere maschio, nel senso che a pensarlo in questi termini e praticarlo per secoli sono stati gli uomini. Il fatto che oggi a interpretarlo possano esserci anche delle donne arrivate in posizione apicale non ne modifica la natura: resta il potere del patriarcato, che esige si possa essere forti solo rendendo debole qualcun altro. La stessa parola “potente” nella nostra lingua è genderizzata: gli uomini la usano per poter definire la propria capacità sessuale. C’è una ragione se per indicare la funzionalità degli organi genitali femminili non usiamo i concetti di potente o impotente, mentre per quelli maschili sì, e la ragione è l’aspettativa di performatività: il linguaggio sottintende che il potere esista solo se è usato e usato in quel preciso modo.”
Se il desiderio e la sessualità maschili sono per loro natura bestiali, oppressivi e umilianti, le donne cosa devono fare? Coprire i corpi delle donne, preservarli con un burqa dallo sguardo maschile e riservarli per quell’unico uomo che “legittimamente” ha accesso a quel corpo? Affidarsi alla tradizionale capacità virile di autocontrollo? “Civilizzare” le pulsioni maschili? Sembrano prospettive apparentemente lontanissime ma in verità vicinissime a tutti coloro che hanno un’idea del maschile scisso tra pulsione bestiale e dominio razionale del corpo.
Ma il desiderio è un dato naturale? Oppure è socialmente costruito, continuamente colonizzato da un immaginario dominante, conformista e mimetico? Riconoscere la dimensione ambigua del desiderio, non farne un dato “originario”, “naturale” apre un terreno culturale, politico e personale di trasformazione che interroga tutti.
Sembra che per gli uomini sia insopportabile l’idea che una donna “viva per se stessa”, non sia lì per gli uomini. E le violenze, fino alla morte, puniscono le donne che scelgono di andarsene, di non considerare più accettabile o “normale” una relazione che ne nega la libertà e la soggettività. Non è il mero abbandono che scatena la violenza, ma il fatto che la scelta di andarsene fatta dalla donna aggredisce alle fondamenta la nostra idea di maschi: svela quanto i maschi hanno un disperato bisogno di sapere che le donne siamo complementari, non possiamo essere “autonome”. In questo caso l’unica lettura possibile della scelta della donna è attribuirla a un egoismo e un opportunismo, una presunzione per gli uomini umiliante, da punire, da lavare col sangue. “Andrò pure in galera ma io non posso perdere la faccia e tu non puoi farla franca”.
“(a diciassette anni) In quanto donna e giovane ero sottoposta al doppio potere degli adulti e dei maschi, che mi avrebbero voluta sempre bambina e dipendente, incapace di prendere decisioni adeguate, irresponsabile delle conseguenze e quindi a buon diritto controllabile in eterno. […] Tutto il mio contesto non faceva che ripetermi che ero e sarei rimasta in qualche misura impotente, una creatura fragile per la quale altri avrebbero scelto, e che prima mi fossi affidata meglio sarei vissuta. Il maschilismo benevolo di cui ero circondata rafforzava di continuo il sottinteso della mia pretesa impotenza, insinuando con garbo che in quanto donna mi servisse un uomo ad aprirmi una portiera o spostarmi una sedia, pagare al mio posto o offrirmi una protezione paternalistica che rendeva superfluo il mio coraggio.”
E poi anche demandare alla giustizia la soluzione, credere solo nella risposta repressiva, è illusorio e ipocrita: “se ne occupi la polizia: li mettano in galera e buttino la chiave”, come se gli uomini – quelli cosiddetti “per bene” – non avessero nulla da fare o da dire, nulla da domandarsi sulle relazioni e sul proprio immaginario.
E rischia di essere un luogo comune anche dire che serve “un cambiamento culturale”, se resta uno slogan astratto, oppure dire che “se ne occupi la scuola” di quel cambiamento che non sappiamo produrre noi maschi nel nostro linguaggio, nella nostra quotidianità. Per un “cambiamento culturale”, che comunque necessita di tempi lunghi e, si deve necessariamente confliggere. Vuol dire litigare e fare fatica: litigare con il parente che azzittisce la compagna, fare la fatica di non risolvere col sorriso di maniera le battute nello spogliatoio di calcetto. La fatica di pensare sé stessi senza bisogno di pensare la dipendenza e la vulnerabilità dell’altra.
Quando avverrà che gli uomini riconoscano di essere prigionieri di un sistema che vincola la loro identità al potere e le loro relazioni al dominio, alla competizione e al conformismo?
Che sia chiaro: nessuno pensi che gli uomini devono distogliere lo sguardo, contenere il desiderio, “amministrare” il piacere. Piuttosto, è possibile provare a pensare un altro desiderio? Un desiderio che non cerchi la muta disponibilità, la dipendenza, l’accudimento, la fragilità. Che non insegua la presunzione di controllo, dominio e autosufficienza ma, al contrario, scopra la parzialità e la vulnerabilità come opportunità di relazione. Scoprire un altro desiderio che li veda cercare una libertà nella relazione e non dalla relazione.
Le donne sono cambiate, e molto: l’intera umanità godrebbe di un cambiamento degli uomini – atteso da millenni – che volesse scoprire insieme alle donne un altro desiderio, un altro piacere, e dunque una diversa esperienza dello stare al mondo e dello stare in relazione.