I piatti di cannilivari: maccarruna, testê turcu e rrisu ntaanu

(Di Massimo Genchi) – Ci fu un tempo in cui il carnevale ricorreva una volta all’anno e i latini, proprio per questo, avevano coniato la massima, divenuta poi celebre, secondo la quale semel in anno licet insanire, una volta all’anno è lecito fare cose da pazzi. Oggi, invece, almeno qui da noi, ogni giorno è carnevale, per cui ogni giorno è lecito fare cose da pazzi. E a noi malcapitati, ogni giorno, tocca vedere cose da pazzi. Come l’avveniristico trabiccolo, che poi è un tubo cavo, che avantieri è spuntato a Santa Niquasi – ironia della sorte – nelle adiacenze della casa paterna di Sergio Barreca, certificato nemico della cuntintizza. Di cosa di tratta? Dicono un telescopio. Non come quello che nel 1609 Galilei puntò verso il cielo, ma di più. E non solo perché chi lo ha concepito a Galilei mancu u vidi propria ma soprattutto perché questo telescopio, monocolo o qualsiasi cosa rappresenti, innova l’invenzione olandese, funzionando senza apparato ottico.

Certo, dopo il telefono senza fili e il funghifest senza funghi, il monocolo senza lenti lo aspettavano un po’ tutti con una certa impazienza. Dicono che serva ad invogliare il passante, il turista, a osservare il nostro Castello da altra prospettiva. Quanto sia costato non ha importanza. Per ora le commesse non hanno costo, i bene informati dicono che sono: a tutti i costi! Ecco, per ritornare al coso, l’ingegno umano è in grado di regalarci la Divina Commedia, la Nike di Samotracia, la Pietà, il secondo principio della termodinamica ma anche una cagata pazzesca come questa. Poveri noi. E dicono che altro uguale monocolo sarà impiantato alla Madonna del Palmento, certo per ammirare lo scatolone della nuova scuola media e la fontana ormai conciata come una pupa di Germania. Poveri noi.

Ma facciamoci la bocca dolce. Almeno questo. Ci fu un tempo in cui l’arte culinaria, che ancora non si chiamava enogastronomia, fu rigorosamente scandita dalla stagionalità dei prodotti e questi avevano una loro precisa ritualità ma anche un protocollo di trasformazione in cibi. Altro che street food e finger food. Anzi, a tavola, se la sprovveduta ragazzaglia usava i finger per afferrare il food gli facevano cadere i mani ccu tuttu u rradicuni. Quando il cucinare e il desinare erano pratiche veramente slow, senza speculazioni di sorta, gli alimenti, al contrario di quanto avviene oggi, erano a chilometro zero oltre che bio, senza bisogno di alcuna certificazione. Eppure in quel tempo, pur nelle gravi e non desiderabili ristrettezze che tutti sappiamo, nei giorni di carnevale, si mangiava sette volte.

A dire il vero, un po’ ovunque in Sicilia, si cominciava a fare bagordi con largo anticipo, tre o quattro giovedì prima di carnevale. Nelle alte Madonie, ad esempio, la tradizione resiste e, ancora oggi, si festeggia il giovedì dei compari, poi quello delle comari, indi quello degli amici e infine il giovedì grasso, naturalmente seduti al cospetto di tavole riccamente imbandite e irrigate da lauti beveraggi. A Castelbuono, invece, se mai c’è stata questa tradizione, si è persa tantissimo tempo fa, sopravvivendo – forse – solo quella dû iùovi rassu.

Fino a non moltissimi anni fa, già la sera del giovedì grasso, in piazza c’era gran ressa, tanta gente vestita in maschera che scherniva i numerosi affezionati della passeggiata notturna, in tanti luoghi si teneva u sùonu e si ballava fino a notte. Oggi, in piazza, c’è la morte civile che scandisce i rantoli di un paese al tramonto. Ma allora, per tutto il periodo di carnevale, vestiti in maschera, si girava l’intero paese in cerca di case in cui si tinìeva u sùonu. I mascarati salivano, facevano un paio di balli, quindi andavano via in cerca di altri posti. E succedeva che, con il pretesto del ballo, il mascarato approfittasse per strusciare contro il corpo della ragazza scelta. Ma accadde anche che un genitore, esperto di quelle pratiche, visto quel magistero, bussò sulla spalla del mascarato dicendogli con terminologia mutuata dal gioco della scopa: ou!, amico mio, asu e asu!, per dire: giovanotto, qui si balla tra maschi.

Diversamente dagli altri paesi delle Madonie, e in linea con le tradizioni della parte più occidentale della provincia, a Castelbuono, e saranno ancora in molti a ricordarlo, l’indomani del giovedì grasso si festeggiava u vènniri dû zzuppiddru, dove u zzuppiddru nella credenza popolare siciliana è il diavolo che istiga al divertimento, all’allegria e alla voluttà. Ma anche a mangiare in maniera smodata, anzi per usare la giusta similitudine: a mmanciari com’un pùorcu. Infatti, nella tradizione popolare, la figura di Carnevale è assimilata al porco. Prova ne sia che, nell’attesa del carnevale, in paese si diceva: ora veni ddru pùorcu di Cannilivari e perciò si mancia. In occasione di questi giorni precedenti il carnevale si soleva dire: iùovi rassu e vvènnir’i zzuppiddru c’un si càmmara mali ppi iddru cioè chi non mangia carne per il giovedì grasso e il venerdì successivo, peggio per lui. Dove il criptico termine cammaràrisi significa ‘mangiare carne nei giorni di astinenza, rompere il digiuno’.

Ma qual era la base dei pantagruelici banchetti di carnevale? Diciamo che erano più le quantità che le varietà a sbalordire. Il primo piatto era sempre costituito dai maccarruna ccû ssucu. I maccarruna venivano confezionati in casa, fatti a mano a unu a unu. E qui c’è da dire che chi non li ha mai mangiati non potrà neppure lontanamente capire di quale bontà si sta parlando. I maccarruna di cannilivari hanno la lunghezza di mezzo spaghetto e risultano più sottili dei bucatini anche nella sezione del buco. Si preparavano un paio di giorni prima facendo un pastone ben sodo con farina, acqua, sale e uova, queste ultime per conferire elasticità alla pasta, onde poterla stendere con la bbura, lo stelo secco dell’erba mazzolina (Dactylis glomerata).

Tagliata dal pastone un po’ di pasta, dopo averla spianata sommariamente con il matterello, la si taglia a strisce larghe un paio di centimetri e da ciascuna si ricavano tanti pezzettini, i vittiddri, simili a degli gnocchetti. Ogni vittiddra si avvolge attorno alla bbura e con movimento rotatorio della mano sulla pasta, posta su una spianatoia (u scanaturi) appena oleata, si allunga fino a farle raggiungere la lunghezza di una dozzina di centimetri. La maestria interviene allorché giunti alla dimensione desiderata, occorre imprimere una decisa rotazione in senso contrario, perché il maccherone si stacchi dalla bbura. Infine, con un movimento deciso che dà solo l’esperienza, il maccherone si sfila dalla bbura e si lancia su un ripiano poco vicino, ricoperto con una tovaglia cosparsa di farina affinché i maccarruna non si attacchino gli uni agli altri. I ricordi della mia infanzia sono indissolubilmente legati a diverse donne sedute nei pressi della cunculina con la spianatoia sulle gambe, intente ad allungare la pasta con la bbura e a lanciare i maccheroni su un tavolo posto nei pressi, dove noi bambini avevamo il compito di prelevarli delicatamente e di arringalli, di disporli per righe e colonne sulla tovaglia. Vi sarebbero rimasti per almeno otto ore, per poi essere ritirati e sistemati in un cesto di vimini. Non era raro che il giorno della produzione qualsiasi elemento che potesse fungere da ripiano venisse apparato di maccarruna stesi ad asciugare. Ricordo che spesse volte, per far fronte alla copiosità della produzione, al fine di recuperare spazi, si sistemavano anche sul letto, quello vero, dove si dorme.

Il condimento dei maccarruna era esclusivamente a base di sugo di carne di maiale, una vera devozione. A ogni pùorcu veni lu so Cannilivari, dice un proverbio non nostro ma che chiarisce il nesso fra le due cose. Anche per la preparazione del sugo cci vulìeva u bbeddru tìempu perché, tutti argomentiamo, disquisiamo ma la cottura del sugo di carne – ma anche quella del bollito o dei legumi – se non avviene nella pentola di coccio, alimentata da una furnacella a carbone, produce un gusto assai diverso. La stessa differenza che passa fra il mangiare formaggi valdostani prodotti in alpeggio e gli analoghi comprati al supermercato. Per fare il sugo di carne non si può prescindere dal concentrato di pomodoro, u strattu, e dalla cottura, in pentola di coccio, a fuoco assai tenue per un tempo lunghissimo. In passato, il sugo si lasciava cuocere – si lassava ncapu – per l’intera notte sotto l’azione del potere calorifico di due pezzettini di carbone accesi e l’indomani mattina era bell’e pronto. Certo, ci vuole il tempo che ci vuole ma realizzato in questo modo, più che altro, ci vogliono papille gustative per comprendere. Con questa bontà si condivano i maccarruna, la cui cottura richiedeva non più di due minuti, e qualcuno particolarmente spiritoso – ma si faceva ordinariamente, in paese – per sottolineare quanto fosse laido Carnevale, soleva mangiarli facendoseli servire in abbondanza dentro un orinale, lo stesso usato per scopi ben diversi fino a qualche ora prima.

I secondi piatti della festa di carnevale, se si eccettua qualche famiglia che soleva preparare il capretto al forno con le patate affogati nello strutto, piatto che avrebbe messo a repentaglio anche il collaudato apparato digerente dello struzzo, erano esclusivamente a base di carne al sugo e di salsiccia, anch’essa al sugo, a mai finire. Oggi, noi, vorremmo dare a intendere che il pidocchio ha la tosse, specialmente a proposito di aperitivi rinforzati. Ma in anni lontani si era soliti rinforzare questi secondi piatti con una vera e propria bomba alimentare. Si chiamavano canaletti e se qualcuno vuole provare la morte dolce è sufficiente mangiarne quattro a cena e mettersi istantaneamente in contatto con Santi Leta, non la mente pensante di Castelbuono in Comune, si capisce, ma il cugino pompefunebraio.

Che cosa siano i canaletti è presto detto. Si preparino: cacio fresco tagliato a fette di 10x6x1 centimetri circa, ragù assai ristretto di tritato, allora chiamato capoliato, perché, prima del tritacarne, la carne veniva capuliata sopra u ccippu ccû satuni, un coltellaccio usato dai macellai per battere la carne. Poi due uova sbattute e pan grattato. Dopo avere immerso per qualche istante la fetta di cacio fresco nell’acqua bollente, la si estrae, si sistema su un piatto piano e, pressandola con una forchetta, per la sua migliorata malleabilità, si riesce ad aumentarne la superficie. A questo punto si preleva una cucchiaiata di ragù ristretto, che poi si chiama rraoncinu, si situa sulla fetta di cacio fresco e la si avvolge su se stessa a mo’ di sigaretta. Dopo averne sigillato i margini con la chiara d’uovo, si passa nell’uovo sbattuto, si impana e si frigge. Per gustare al meglio i canaletti bisogna mangiarli caldi, via via che escono dal pentolino di alluminio, che è poi il bisnonno della friggitrice.

Usciti boccheggianti dai secondi piatti, supportati da grande levità gravitazionale, si sferrava l’attacco ai dolci. Nei pranzi di carnevale del palermitano, a questo punto era previsto un giro di finocchi dolci, se non altro per togliere u stùpitu, ma noi allo stato ebraico in cui eravamo e siamo, prediligiamo di passare subito, senza pèrdiri tìempu, all’abbraccio letale con la testa di turco della quale, da consuetudine, non se ne possono trangugiare meno di due porzioni pro capite.

A testô turcu è un dolce di grande vitalità e variabilità. Non è per niente esagerato affermare che su tremila famiglie residenti si potrebbe riuscire nell’impresa di testare almeno tremila ricette differenti. Infatti, c’è chi la fa con gli Oro Saiwa al posto della scòrcia, c’è chi – sempre per sbrigarsi – ma anche per recuperare avanzi del non lontano Natale, utilizza il pandoro o il panettone: però, volete mettere il fascino proibito dell’uvetta passa che si contamina con la clema? Una volta mi è stato riferito di una celeberrima testa di turco fatta con i pavesini. A dire il vero, in questo periodo in cui «l’arte della cucina nella nostra Castelbuono è stata elevata a cultura», intrigandomi a dismisura l’accostamento dolce-salato, anelerei a sperimentare una audace testa di turco fatta con i crackers e la clema cosparsa di pepe verde in grani. Una trattazione completa, esaustiva, minuziosa, analitica della testê turcu, che va dalla corretta accensione del fuoco per scaldare il latte, alla velocità angolare che deve possedere la paletta allorché si rrumina la clema, la potete trovare al link A testô turcu della mamma è la più buona.

Ma non è finita qui, e si capisce, perché non è pranzo di cannilivari se non c’è u rrisu ntaanu. Si tratta, come si sa, di un riso cotto in poca acqua e preliminarmente condito con molto zucchero, noce moscata e zafferano. Dopo avere aggiunto una consistente quantità di formaggio fresco tagliato a cubetti, si rrumina per amalgamare il tutto e poi si versa in un capace contenitore, ma sarebbe più giusto – data l’enorme richiesta – versarlo nnô lemmu. Si può anche procedere, più ordinatamente, a ssùolu a ssùolu: un suolo di riso e uno di formaggio, fino ad arrivare quasi all’orlo.

A questo punto, si passa alla guarnitura: si friggono, facendole dorare, delle stoffe triangolari di cacio fresco che vengono disposte in superficie, fino a coprirla quasi del tutto, quindi si passa un leggero strato di zucchero mparpàbbili. Una versione storica, per la finitura prevede di versare sullo strato superficiale quattro uova sbattute miste a cannella e far cuocere a fùocu di supra e fùocu di sutta, mettendo la brace su un apposito coperchio, finché l’uovo non si sia rappreso. Ora, anche se u cannarùozzu fa nnicchi e nnacchi, bisogna armarsi di santa pazienza e aspettare che si raffreddi dato che u rrisu ntaanu si mangia freddo o, al massimo, se proprio vi sta scappannu, tiepido. E non mettetevi lì a guardarlo, pensando di raffreddarlo con lo sguardo, perché dietro si annida un complicato processo quantistico, identico a quello che governa l’acqua messa a scaldare, in base al quale, passando dalla meccanica quantistica alla saggezza popolare, a pignata taliata un vuddri.

Per i più malfermi di stomaco, si fa per dire, nelle famiglie gastronomicamente più arrendevoli ci si accontentava di preparare u bbiancu manciari, una crema di latte alquanto densa, simile al budino, a base di una tonnellata di amido, zucchero, aromatizzata con vaniglia e limone grattugiato, che talvolta si soleva servire su una foglia di limone. Ma è noto anche un altro dolce light, vale a dire u rrisu ccû latti, riso cotto nel latte servito in una terrina, cosparso di cannella, benché da noi sia più nota la versione in cui al riso cotto si mescola abbondante cioccolato e cannella che, pertanto, prende il nome di rrisu turcu o anche rrisu nìviru.

Quando ancora non c’erano le chiacchiere, e neanche i tabbaccheri i lignu, a carnevale, per stuzzico, si facevano i zzìppuli ottenute impastando tre once (200 g) di strutto con la quantità di farina che prende un litro di acqua. La pasta così ottenuta si stendeva col matterello per ricavare poi, con la rotellina, delle forme allungate, vagamente triangolari, che si friggevano in abbondante olio di oliva. Dopo averle fatte scolare, si mettevano a riposare nella carta camoscina perché rilasciassero altro olio e infine si servivano, abbondantemente spolverate di zucchero mparpàbbili. I nostri avi avevano il coraggio civile, verso le sei del pomeriggio, reduci da una cavalcata gastronomica come quella qui narrata, per scongiurare anche una vaga forma di allammicu, di rinzeppare lo stomaco con due piatti di friabili zippole, accompagnate con un bicchierino di vino moscato o di malvasia.

Nel frattempo si facevano le otto e qualcuno cominciava a rampognare: ca stasira chi ffa un si mancia?? E allora partivano con un paio di cardi fritti in pastella, per aprire – un po’ come si apre a poker, l’appetito – e poi di nuovo, carne al sugo e salsiccia, e testê turcu again, come se rompessero un digiuno che si protraeva da un mese.

La serata si chiudeva, si fa per dire, con balli, danze, musica, ricevimenti di mascarati e qualche gruppo che veniva a farti la maschera in house. E qui, naturalmente, di nuovo passate di dolci a mai finire e vìppita, o meglio abbondanti libagioni. Mio padre mi ha più volte raccontato che, durante i loro tour in cui rappresentavano la maschera casicasi, con Peppe Spallino, con Cesare, con Franco Lupo, presso alcune famiglie borghesi, i fangotta di testê turcu e i nzalateri di rrisu ntaanu si susseguivano a perdita d’occhio. E impressione ancora maggiore destavano non solo i carteddri traboccanti di cannoli, vale a dire svariate centinaia di cannoli. Insomma, cose da fare vèniri a cunfusioni anche a posteriori, soprattutto se si pensa al tempo che ci voleva per preparare le cialde e per ottenere la crema di ricotta che, dopo averla fatta intridere del necessario zucchero, si doveva passare nnô crivu â sita. Ma si coglieva l’attimo, e si sapeva cogliere, ci si divertiva e si rideva, e si sapeva ridere, e non finiva carnevale se, almeno una sera, non si andava al veglione, dapprima nel Teatro di corte, poi Teatro Comunale – altro che il teatrino di cui continua a parlare uno screanzato architetto. Infine, da metà degli anni Cinquanta, alle Fontanelle. Che funzionò per trent’anni senza bisogno di fondazioni, come di recente teorizzato da qualche cultural-economist, e non funzionava tre giorni all’anno a carnevale, solo per il veglione, come decretato da colui che tutta sa e tutto può. Secondo lui. E non è una battuta di carnevale.

Ma non vi faccio perdere altro tempo perché, data la giornata, avrete certamente qualche fangùottu di testê turcu verso cui partire all’assalto. E come darvi torto? D’altra parte dunni maggiuri c’è, minuri cessa.

Iscriviti per seguire i commenti
Notificami

4 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments
4
0
Cosa ne pensi? Commenta!x