I terremoti, il colera, la spagnola, il covid e quattro sindaci (per non parlare del quinto)
La giacitura in forte declivio di Castelbuono fa sì che per esso sia pressoché nullo il rischio di inondazioni. I vecchi, che possedevano grande capacità di osservazione, sostenevano che l’unico posto in paese che, a rigore, potrebbe congestionarsi di acque piovane sarebbe darrìa a funtana ranni sito, allora come oggi, fortemente consacrato ai beveraggi.
Se una tale calamità non si è mai verificata deve essere stato certamente perché l’acqua rifugge da quel sacro refugio (bella puttanata!) del vino. Tuttavia accadde più volte che, a seguito di piogge torrenziali, le strade si trasformarono in spaventevoli, ululanti, fiumi in piena. L’ultima volta accadde nei primi anni Cinquanta, durante la festa del Crocifisso, quando la furia dell’acqua nella Strata longa trascinò con sé le logge fino al Rosario, dove le tavolette di torrone, i ceci, la càlia, le mandorle agghiacciate e le noccioline galleggiarono nelle pozze per più e più giorni. Allo stesso modo, più volte accadde, come tra il 31 maggio e il primo giugno 1939, che la potenza del fiume in piena falciasse il ponte della fiumara.
Ma inondazioni niente, mai. Terremoti, per contro, sì e tanti. A parte quelli settecenteschi, il più celebre rimane senz’altro l’interminabile sciame sismico del 1818/19 che investì tutte le Madonie e, pur senza causare vittime, privò 84 famiglie castelbuonesi delle loro case e provocò, come si sa, danni irreparabili al patrimonio architettonico e urbanistico del paese. In conseguenza di quelle ininterrotte scosse crollarono i campanili, la favolosa e rifulgente cupola maiolicata e la navata centrale della Matrice Nuova. Anche il castello, allora refugio di nient’altro che di caci e pricintini nei sotterranei e di diseredati nei locali a pianterreno, aveva accusato più di qualche allarmante cedimento nella fràbbica al punto che la reliquia venne trasferita nella chiesa dell’Annunziata.
A causa delle sopravvenute condizioni di precaria stabilità, si dovette abbattere la parte sommitale del castello con la merlatura e il loggiato soprastante il portone d’ingresso, di cui ancora oggi si individuano le vestigia. Certo, la demolizione si rese necessaria, in quei momenti convulsi nessuno ci fece caso ma subito dopo qualcuno notò: e tutta la bella pietra squadrata derivante da questa demolizione dove è finita?
Non ci volle molto a sapere che “di notte e notte”, aumm aumm, il tutto venne prelevato da un caro amico del sindaco dell’epoca, don Mario Levante, che resse il Comune dal 1818 al 1822. In altre parole, finito il suo mandato finirono i terremoti. L’unica considerazione che si può fare è più che immediata.
Al fine di studiare scientificamente il gravoso accadimento e di effettuare una stima degli ingenti danni, il governo borbonico incaricò il prof. Domenico Scinà, fisico di chiara fama, di intraprendere un viaggio nelle Madonie mentre imperversavano le scosse a frequenza impressionante: dal 20 febbraio 1818 al 12 maggio 1820. Questa fu l’ultima di una serie di sessanta scosse che seguirono a quella assai forte dell’11 maggio 1819 e a quella rovinosa del 24/25 febbraio in seguito alla quale scrive Scinà nel suo Rapporto: “patirono le case, che nella linea son situate, la quale dal Castello si stende fino ai Cappuccini. Né ciò deriva dal suolo o dalla vecchiezza delle fabbriche, comprende quella linea le case le più antiche e le più moderne del paese. I campanili della cattedrale di Castelbuono, goffi come sono, e pesanti, sebben puntellati, minacciano ancora rovina”. Come difatti accadde di lì a poco.
Scinà era arrivato a Castelbuono la sera del 6 aprile e – come lui stesso scrive – “mi portai ad abitare l’ornatissima casa dei miei amici, i fratelli Turrisi, che mi furono larghi di ogni favore”. Mauro e Vincenzo Turrisi, baroni di fresco titolo, possedevano mandrie sterminate e terreni a perdita d’occhio. Erano i titolari della Cartiera di Gonato e della grande fattoria insistente nel feudo di San’Anastasia condotta con moderne tecniche razionali importate dalle parti più evolute dell’Europa agricola; nei pressi di Gibilmanna possedevano i feudi di Gorgo con il castello di Bonvicino e nel versante di San Mauro i feudi San Giorgio, Ogliastro e Palminteri. Si potevano a buon diritto definire imprenditori a differenza di quanto accade oggi che lo diventi non appena apri una bottega di spille e calamite.
I Turrisi erano anche proprietari dell’ex convento dei domenicani al Rosario e di tutto il terreno retrostante, fin quasi a Piano Marchese, nel quale, per dire dell’ampiezza dei loro orizzonti culturali, vi avevano impiantato un orto botanico, curato dal naturalista belga Maurimon, che era anche luogo di pubblico passeggio e dovette essere un sito di meravigliosa beltà.
Purtroppo, a metà Ottocento, la realizzazione dello stradone per Geraci, rese necessario l’attraversamento di quel terreno e l’orto botanico, giocoforza, venne sacrificato.
I meriti dei Turrisi e dei loro figli dovettero essere veramente notevoli se l’attento toponomastico che curò l’intitolazione delle strade urbane nel 1882 volle intitolare all’intera famiglia la lunga e stretta via, su cui insiste il palazzo residenziale, parallela al corso, che sbocca nello slargo popolarmente detto u furn’i Marcellu. Ciò perché, in antico, vi sorgeva un forno che dovette essere veramente grande se per dire di un esteso ambiente chiuso si usava la similitudine è granni quant’u furn’i Marcellu. E,dato che mangiare smodatamente da noi si dice nfurnari, a uno che mangia a quattro ganasce si dice: e cchi è furn’i Marcellu!
Nei pressi del forno di Marcello, il 22 febbraio 1848 fu barbaramente ucciso il sindaco Luigi Calascibetta. Tale fatto cruento fu storicamente tramandato come connesso con l’epidemia di colera che imperversava in Sicilia e tante vittime mieté pure a Castelbuono. Ora, però, nel 1848 non sembra ci sia stata alcuna epidemia di colera in Sicilia, mentre c’era stata nel 1837. Il 1848 fu, invece, un anno di sollevamenti e di tumulti in tutta l’isola, a partire dall’insurrezione antiborbonica di Palermo del 12 gennaio. In conseguenza di ciò, in paese gli animi erano alquanto infiammati – allora, a differenza di oggi, ci voleva veramente niente – anche per via delle dicerie relative al fatto che i Borbone volessero diffondere il colera, che si credeva fosse un potentissimo veleno, per eliminare fisicamente i rivoltosi. Quindi questa idea della eliminazione fisica degli oppositori è stata da lungo tempo al centro dei pensieri di chi vuole conservare il potere per sempre, naturalmente per il bene pubblico. Ma non divaghiamo. In altre parole, i Borboni,tramite persone di fiducia, spargevano il colera, ittàvanu u qualera, perché le sue esalazioni sterminassero il popolo in rivolta dopo terribili crisi diarroiche. In considerazione di questi terribili effetti a Palermo, racconta Giuseppe Pitré, i rivoltosi più esagitati, innalzarono barricate contro la forza pubblica al grido di mìagghiu mòriri sparannu ca mòriri cacannu.
Dunque il clima era abbastanza elettrico e bastò che a gennaio-febbraio 1848 il numero dei morti aumentasse lievemente per infondere in tutti il convincimento che il colera fosse già arrivato ô paisi. Come se ciò non costituisse già una spada di Damocle per i maggiorenti locali, accadde – supra pasta finucchieddri – che una sera â virmarìa un mulattiere scaricò al municipio un carico non di visiere ma di damigiane di alcol denaturato. Avendo qualcuno scorto il mulattiere armeggiare con quei bottiglioni, la notizia si propagò in un niente: al municipio erano arrivate delle damigiane piene di colera. E chi mai avrà mandato queste damigiane di veleno al sindaco? I Borbone, e chi se no?, fu la risposta. E si fìciru i ficu! Si aprì una terribile caccia all’uomo.
Armati di forconi, asce, fucili, coltelli, pietre gli esagitati penetrarono nella casa del sindaco, ô chianâ Matrici, lo cercarono, trovarono, lo trucidarono. Lo trascinarono per le scale, lo legarono per i piedi a un mulo che lanciarono al galoppo per le strade del paese. Secondo alcuni, alla fine di questo orrendo rito il corpo di Luigi Calascibetta fu esposto, a mo’ di trofeo, sotto il portico della Matrice vecchia, secondo altri venne abbandonato davanti al municipio, ma cambia poco. Era il 22 febbraio 1848 ed era stata appena scritta la pagina più vergognosa e orribile della storia di Castelbuono.
Se quella del 1848 fu solo una paventata epidemia di colera dovuta allo scoppio dei moti insurrezionali, nel 1854 il colera arrivò veramente e benché l’ondata si esaurì in un lampo, il suo devastante passaggio fece circa 130 morti in un mese. Il vecchio cimitero ben presto si congestionò, non c’era dove tumulare le salme ormai accatastate ovunque, si utilizzarono anche le chiese, segnatamente la chiesetta campestre di San Paolo, nei dintorni del campo sportivo. Fortuna che durò poco e finì. Ma tornò.
“Annunciato dai consolati dei vari Paesi il colera nel 1865 veniva segnalato ad Alessandria d’Egitto portato dai pellegrini provenienti dalla Mecca”. Non sappiamo se fra questi consoli c’erano pure i nostri consoli referenti ma forse no.
Partito che fu dalla Mecca nel 1865, il colera impiegò un paio di anni per arrivare da noi dove si trattenne per l’intero biennio 67/68 coincidendo con millimetrica precisione temporale con la sindacatura di Mario Levante che, in analogia con il suo ascendente del 1819, potrebbe essere definito il sindaco del colera. Quell’ondata fu terribile e in due anni causò diverse centinaia di morti. Ma il sindaco Mario Levante, da tutti chiamato don Nonnò, perché a differenza di altri sindaci, passati e soprattutto futuri, durante quell’emergenza si comportò in maniera più che degna. Non risulta che accalcò gente al castello per la festa di Sant’Anna né che abbia proclamato con toni trionfali che il paese fosse cholera free e neppure che durante l’isolamento abbia organizzato pranzetti nella sua tenuta della Vignicella. Insomma costituì un mirabile esempio per i suoi cittadini tanto che per il comportamento irreprensibile tenuto durante quella triste stagione sia il governo che il consiglio comunale, lo decorarono con una medaglia d’oro insieme al medico condotto Filippo Redanò, che con la sua ars medica fu in grado di strappare alla morte almeno il 70% dei contagiati. Nell’aula consiliare, dove troneggiano i loro ritratti, la loro abnegazione durante l’epidemia, a perenne memoria, rimane scolpita sul marmo. Non risulta che Mario Levante e Filippo Redanò in vita furono ossessionati dall’idea di passare alla Storia ma entrambi vi riuscirono senza fare sciocchi proclami, senza riempirsi stoltamente la bocca, senza tappezzare il municipio di loro fotografie, come a voler dire cusà vû scurdati…. Quando si è degni di passare alla Storia è la storia stessa che chiama. Se siamo noi a chiederlo goffamente e insistentemente perché sappiamo bene di non avere alcun titolo, sarà la Storia a dire: Grazie di lei non c’è alcun bisogno qui, rimanga pure dove si trova!
Più tardi, nella XVI legislatura (1886-1890), Mario Levante sarebbe stato eletto deputato al Parlamento del Regno (che culo, però, che ha certa gente!). Grazie a lui Castelbuono ebbe lo scalo ferroviario e non solo. Nel 1895, tentò di riprendere il potere che sentiva sfuggirgli ma, nel breve volgere di due settimane, venne battuto prima alle elezioni provinciali e quindi alle comunali. Non accettando che la sua parabola politica si fosse ormai esaurita, il 26 luglio, a mezzogiorno, allo scoppio della maschiata di sant’Anna si uccise esplodendo un colpo con il revolver. Ma rimase un sindaco amato, nonostante il tragico epilogo.
Sia pure con minore veemenza il colera ritornò in paese ancora due volte, nel 1893 e nel 1911.
Ma non si fece in tempo neppure a gioire e ci imbatté nella immane sciagura della grande guerra che inghiottì uomini, padri, forza lavoro e anche ragazzi, in ultimo anche quelli del ’99, continuavano a cadere com’i pira sui campi di battaglia del Carso e dell’Isonzo. Si era alla fine del 1917, c’era già stata Caporetto e si entrava nell’ultimo anno di guerra.
Il 1918 fu un anno terribile per Castelbuono. La popolazione era quasi alla fame per via delle grossissime difficoltà che aveva il centro commerciale naturale ad approvvigionarsi di grano e farina. Tutto ciò aveva delle pesanti ricadute sulla immagine e sulla credibilità dell’amministrazione guidata da Mario Raimondi, al suo terzo mandato. No, forse era il secondo ma non importa. Organi di controllo sovracomunali avvertivano il prefetto che nel comune «sta per succedere il finimondo, se non si provvede di urgenza a mettere un freno alle irregolarità e alle parzialità di quella civica amministrazione e specialmente del sindaco». Il prefetto, per niente convinto di queste accuse, pensava piuttosto che ciò fosse opera di “agitatori per mettere in difficolta l’amministrazione”. La mente del prefetto andò subito a quelli che allora nel paese venivano chiamati i nnimici dâ cuntintizza. Non lo disse ma in compenso fu il sindaco a puntare il dito contro di loro, contro i nnimici dâ cuntintizza, che erano sempre gli stessi 12, che facevano ressa attorno a un giornale e che fra gli autori della campagna diffamatoria contro di lui, continuava il sindaco, «vi era anche il funzionario di P.S., che più volte lo aveva additato come “volgare affarista”».
Nel mezzo di questo non trascurabile aggrissu, il mondo fu colpito dalla Spagnola, uno dei maggiori disastri sanitari che abbia mai flagellato l’umanità. Si calcola che l’influenza abbia contagiato un miliardo di esseri umani uccidendone più di quaranta milioni. In Sicilia, dove l’epidemia arrivò a settembre, le vittime furono trentamila, na bbabbiata. A Castelbuono si registrò una impennata di morti alla fine di settembre e un decollo nel mese di ottobre, quando – riporta il prof. Cancila – “si contarono ben 160 morti, ossia una media di oltre 5 funerali al giorno”. Non sappiamo se strategicamente, per non allarmare la plebe, per non perturbare l’economia o per qualcos’altro, Mario Raimondi cercò in tutti i modi di nascondere la cosa ribadendo con forza che fra i deceduti non c’erano morti di spagnola ma solo di morte naturale, di mal di stomaco. O forse non disse niente, tanto i social non c’erano e aveva ben poco da postare. A dare una enorme mano al sindaco contribuì non il recovery fund ma la fine della guerra. La situazione interna, però, non si placò del tutto, così come non si placò la spagnola. Questa si trascinò ancora per qualche settimana mentre le furiose polemiche, che non finivano di sopprendere il sindaco, si trascinarono fino al maggio 1920 allorché il primo cittadino presentò le sue dimissioni – ma com’era, pazzu? – al Consiglio comunale, deluso e convinto di non potere «più oltre sostenere il gravissimo carico di responsabilità connesso all’ufficio di sindaco». Chi c’era ricorda che chiuse l’intervento con una per lui insolita esclamazione: «Grazie Castelbuono!» e fra i presenti qualcuno non potè non esclamare: «ma che cazzo dice!». Per solidarietà con il sindaco si dimise il suo fido assessore, la giunta e il Consiglio. Anche Gianclelia. No, Giancleia no. No perché non si dimise ma perché non c’era. Altrimenti, si capisce, non si sarebbe dimessa.
Ricordo che negli sessanta il salone di mio nonno materno Nunzio Bruno alias Cipollone era frequentato da una congrega di personaggi di cui ho più volte parlato: don Filicinu, il cavaliere Turrisi, don Arturo Levante, Peppino Gugliuzza, don Enzo Raimondi, il professore Totò Leta end meny meny mor. Io, bambino, mi recavo lì ogni sera, felice, sedevo, ascoltavo, ridevo e assorbivo ogni loro discorso. Molti di loro erano comicissimi ma forse don Arturo superava tutti. Di sé soleva dire che era così sfortunato che se fosse stato un produttore di pettini la gente certamente sarebbe nata calva. Negli ultimi anni della sua vita, sindaco era l’avvocato Antonio Mercanti che abitava dirimpetto al salone. Spesso, vedendolo passare, lo chiamava dicendogli: Ntò, ancora tu si u sinnacu? Va bbeni, va! Amu caputu! Don Arturo morì in tempo risparmiandosi così di vedere anche di peggio, molto peggio, a tal riguardo. Molte cose sui terremoti, sul colera e sulla spagnola le sentii raccontare a lui. Mentre raccontava della spagnola si fermò di botto esclamando: Ou, ma è un fatto! u tirrimùotu: sinnacu u nunnu Mario Levante; u qualera: mio zio Mario Levante; a spagnola: Mario Raimondi. Ma bbuttana dû munnu!, comi si spiega ca quanni si scatina l’ira di Ddia u sinnacu si chiama sempri Mario?
Ava a ssapiri, il povero don Arturo!!!!!