Ieri: quel disinvolto commercio. “Putii” e “putiari” a Castelbuono


IERI: QUEL DISINVOLTO COMMERCIO
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 15 Ottobre 1989]

Sarebbe azzardato, oggi, presumere che l’idea di creare catene di punti di vendita gli azionisti dei grandi magazzini l’abbiano maturata proprio a Castelbuono, osservando e studiando l’attività di commercio praticata in questo minuscolo centro delle Madonie, all’inizio del secolo? Mah!… Forse no… forse sì.
Vogliamo tuffare, un momentino, il naso negli affari dei primi decenni del novecento?
Bisogna premettere, anzitutto, che, allora, in paese, i putii (i negozi) si contavano sulle dita di una sola mano: una qua… una là…
La mattina non si alzava la saracinesca (perché non esisteva), ma si toglievano i paracristalli; non si era vincolati da scomodi orari ufficiali (c’era chi si alzava appena albeggiava per servire contadini e pastori che si recavano al lavoro e, dopo mezzogiorno, si metteva a dormire saporitamente dietro la bancata [banco di vendita]; la sera, chiudeva quando non circolava piu nessuno).
E poi la licenza di vendita serviva per smirciari (rivendere) un po ‘di tutto, alimentari e non alimentari.
Non esistevano insegne: eccezionalmente si esponevano, appesi ad un chiodo, al muro esterno, un mazzo di scope di ciafagliuni (cerfuglione – chamaerops humilis L.) da un lato e u bbummarieddru (ziretto) dall’altro: dietro i vetri della porta, per attirare l’attenzione, si mostravano una noce e una mandorla che pendevano attaccate ad un mozzicone di spago, oppure, legati con lo stesso sistema, quattro fili di pirciatìeddru (bucatino); o, anche, trattenuti da una tasca di cartone, quattro fave e quattro castagne; qualche volta, una collana di zolfanelli.

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Occorre ancora precisare che le commissioni di acquisto, in quel tempo, venivano sbrigate, quasi esclusivamente, dai ragazzini: le donne non uscivano se non in rarissime occasioni: in casa avevano troppo da fare: impastare ed infornare il pane – dopo aver nettato il frumento e setacciato un sacchetto di farina -; impegnarsi nel bucato (a liscìa); badare alle galline; pulire la stalla (ccû scupunìeddru d’agghiastru – ramazza d’oleastro); rattoppare, rammendare, ricamare, filare, tessere al telaio; fari a quasetta (sferruzzare le calze) per tutta la famiglia; e gli uomini, dall’adolescenza fino alla tarda vecchiaia, da quando cioé erano ritenuti utili fino a quando potevano far qualcosa, andavano tutti i giorni in campagna per i lavori agricoli o pastorali.
Fra l’altro i ragazzi si recavano ad acquistare non con il denaro (ce n’era così poco in circolazione… e quel poco rischiavano di perderlo strada facendo!), ma con la nera libbretta da pochi centesimi. In questo minuscolo quadernetto il commerciante, usando penna con asticciuola – legata saldamente al bancone con un lungo spago – e l’inchiostro della bottiglietta di vetro, segnava i debiti di quella famiglia, trascrivendone copia sul suo logoro, unto e bisunto, grosso quaderno dei crediti di vendita, che, in più di un caso, stagionando, rischiavano di invecchiare a dismisura. Tutto questo avveniva ignorando, ognuno, il quadretto bene esposto alle spalle del negoziante; il quale vi era raffigurato, si fa per dire, in due artistiche pose: in una «vendeva in contanti», ben pasciuto con il sigaro in bocca, nell’altra, addirittura dimagrito ed emaciato, con i vestiti a brandelli, si rammaricava contristato: «vendevo a credito!». Spesso in aiuto di questo cartello soccorrevano, di rinforzo, poche parole scarabocchiate alla meglio: «Oggi non si fa credito, domani sì; torna domani e troverai così!…», oppure «Per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno». Ma il bottegaio, anche se l’aveva scritto con le sue mani, non poteva leggerli perché i cartelli erano posti alle sue spalle, ed al cliente, anche se sapeva leggere, non conveniva guardarli. Dopo il raccolto della manna, dell’olio, dopo la vendita dei prodotti agricoli o pastorali, secondo le stagioni, si cercava di saldare i debiti… se si poteva, altrimenti il conto allungava… allungava…
Entrando in negozio si era però certi di trovarvi tutto ciò di cui si abbisognava, in quella situazione socio-economica e finanziaria, per ogni circostanza della vita di quei giorni.

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Come si è detto, non si faceva distinzione fra alimentari e merceria. Poteva quindi capitare che il commerciante, dopo aver pompato – con l’aspirante premente – ed aver misurato, con il mezzo litro o il bicchiere di latta, l’arsùoliu (il petrolio) per il lume, dopo averlo versato nel carrabbuni (bottiglia di zinco), si trovasse, successivamente, nella necessità di pesare u senza (lett. ‘senza buchi’, gli spaghetti), u pirciatìeddru (bucatino) oppure a canna i pipa (cannelloni), prelevando la pasta con le mani dalla cassa di legno che stava sotto la bilancia a piatti e a pesi cilindrici. Non si sperava affatto che potesse lavarsi le estremità con acqua e sapone: era impensabile! Ma non badava neanche ad asciugarsi il petrolio!… Tanto nessuno reclamava: in quell’epoca i bambini che «avevano i vermi», che prendevano cioé un qualsiasi spavento, venivano curati con l’odore dell’aglio e del petrolio strofinati sul labbro superiore, sotto le narici… Quindi eventuali residui di odor di petrolio nella pasta erano bene accolti: fungevano da vermifughi: erano accettati come gratuita vaccinazione contro qualsiasi genere di scanti (paure e fobie varie).

Se si trattava di pasta curta (ditalino, rigatoni ed altro), questa veniva prelevata con u navittuni (vaso a forma di nave) dai grandi sacchi di iuta, rimboccati agli orli man mano che la pasta scemava, (capitava, però, che, spesso, mentre si mangiava, fuoruscissero grossi fili di iuta e che si fosse costretti a… tirar le cordicelle dalla bocca).
E, poi, come si portava a casa la pasta? Ognuno arrivava fornito di un esteso ed estroso fazzolettone blu o rosso di zzabbara (agave) (che si impegnava anche in altri usi – al collo o come copricapo), oppure di un sacchitìeddru (sacchetto) di sfilatieddru (tessuto casalingo intramato di cotone sfilato dai gambaletti delle calze scarcagnati – sciupate alle calcagna). I frantumi dei fili di spaghetto, bucatino, cannelloni e di tanti pezzi di pasta corta sbriciolata componevano u sminuzzu (rottame), che si vendeva a buon mercato e che costituiva il delizioso pasto dei più poveri (immaginarsi la cottura uniforme di quella pasta!). Non esisteva assolutamente pasta impacchettata, se non in pacchi da dieci o da cinque chili, e questa non sempre era disponibile:la pasta arrivava da Termini o dalle – «montagne» (Gangi o le Petralie) con i carretti o con i muli. Ma si è parlato di pesi, trascurando il fatto che, fino ai primi decenni di questo secolo, nelle botteghe ci si intendeva anche con antichi pesi e misure: un rrùotulu (800 g), menzu rrùotulu (400 g), un’unza (66 g), un’unza e mmenza (100 g), tri unzi (200 g), un cantaru e così via… Ma spesso si usavano anche cozzi, munneddra, tùmmini, sarmi.
Se si comprava lo zucchero, in quei tempi quasi esclusivamente a petra (sconoscendosi quello semolato), il commerciante approntava, non sempre ben volentieri, un cùoppu (sacchetto), usando un cilindro di legno per accartocciare la robusta carta celestina; oppure lo metteva nel solito fazzolettone del cliente, il quale provvedeva ad annodarne le quattro punte.

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