Ieri: quel disinvolto commercio. “Putii” e “putiari” a Castelbuono. Seconda parte
IERI: QUEL DISINVOLTO COMMERCIO
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 1 novembre 1989]
[Prima parte disponibile a questo link]
Il magazzino (o conviene, forse, chiamarlo bazar?) era ingombro di tanti sacchi rimboccati: farina, diverse varietà di pasta, furmintuni (granturco), frumento, riso e risone, fave (per i cristiani, persone), zicchini (favette per gli animali), caniglia (crusca per le galline e per i cani), ceci, luppini (lupini), fagiuoli, lenticchie, anguzzi (cicerchie), ùoriu (orzo), patate, grossi barili di legno con le sarde salate ed altro.
E poi secchi e vasche di zinco, pentole di rame o di terracotta o di ferro smaltato rosso o blu, cunculini (bracieri), fusti di sapone molle color miele (per il bucato si sconoscevano i detersivi a base di petrolio, in quanto l’italiano Natta, premio Nobel, non li aveva ancora inventati), ncìegni (congegni), tubi di vetro, mecci (lucignoli) per lumi a petrolio (luce elettrica, a Castelbuono, nel 1925 – ma fino al 1943 vi erano ancora dimore, nel centro abitato, illuminate dalla luce a petrolio o da lumiere ad olio), pacchi di quaderni, scatoli di asticciuole, scatole di pennini, matite, carta e buste per lettere, cartoline illustrate (che si vendevano pure dopo aver toccato le sarde salate), pacchi di cotone «Andalusa», avana per le calze e bianco per i merletti, rucchelli (rocchetti) di filo, spagnolette, pesanti matasse di cordame di tutte le grossezze e di tutte le lunghezze e per i muli e per i carretti e per il secchio del pozzo e per la capretta di famiglia, càncari (gangheri), chiodi per ogni uso, tacci (bullette), ùocchi ‘i pirnici (occhielli per le scarpe) e matassine di stringhe per i calzolai, cùoriu (cuoiame) per riparare i finimenti e le bardature degli animali e, ancora, il sacco di petra celesti (solfato di rame) tra il sacco di baccalà e quello delle pietre di salgemma delle Petralie, i surfareddra (per le botti), la cera vergine ed i coltelli per innestare, i lucignoli galleggianti per i lumini ad olio, candele e torce di cera accanto ai barattoli di bicarbonato o di citrato di magnesia o di cremor di tartaro; o di graziosi confettini multicolori o di cannittigli (granoni attorcigliati di cannella zuccherata, boglioni) o di cannella, vicini alla latta dû cirùottu (del lucido da scarpe), che si vendeva a peso, – ma parecchi, questa crema, la compravano raramente, nelle feste solenni, sia perché usualmente camminavano con le scarpe di pilu (di pelo, della pelle degli animali), sia perché preferivano per convenienza pestare ed impastare u sivu (grasso di pecora) con «nerofumo» (fuliggine) che raschiavano dalla «ciminìa» (canna fumaria) del forno di casa – e, infine, grosse matasse di zabbara per i sedili delle sedie e fasci di vuscalora (ventole) manufatturate con il cerfuglione.
E per avvolgere tutta questa mercanzia, non circolando, allora, carta da imballaggio, u putiaru doveva darsi da fare per ripulire, dove e come se ne fosse presentata l’occasione, tutti gli stipi (ripostigli) delle abitazioni dei «civili» (Ecco uno dei motivi per cui, oggi, raramente, nelle case, si trovano carte o giornali di antichi archivi; l’altra ragione è perché la carta si adoperava in funzione di appiccicugli, fuscelli,per accendere la fornacella o il forno). La maggior parte di questa carta serviva quotidianamente per il sapone molle da bucato prelevato dal fustone con apposita paletta, o, indifferentemente, per le sarde salate, per le patate, per i chiodi, i tacci; era incessantemente usata per impaccare qualsiasi cosa!…
E, tornando alla bilancia, non sempre si usciva dalla putìa certi di aver ricevuto il giusto peso: magari, qualche volta, con la bona misura o u bon pisu (sovrappiù) ma altra… C’era un negoziante che, per avere inseguito, per tanti anni, l’oscillazione dei piatti della sua bilancia, aveva contratto il «tic» dell’altalena della testa, la quale gli dondolava da destra a sinistra e viceversa, continuamente e contemporaneamente ai piatti! Per i pesi maggiori veniva usata la stadera il cui rumanu immancabilmente scapulava (scivolava, al momento definitivo, di modo che, spesso, non si sapeva che peso si portasse a casa. E chi non ha sentito parlare delle oscure e fumose taverne e della putìa dû lùordu (con verdure selvatiche: cicoria, finocchietti spàraci» (asparagi), napruddri (onopordi), cardeddri (cicerbite), purrazzi (asfodeli), pizzucùorvu (polmonaria), qualazzi (cavolacci), sinapi (senape), vurrànii (borraggini) e dû mulu ‘a piscami che veniva ad offrire, da Sant’Ambrogio o da Cefalù, dentro i carteddri (ceste), sarde e pesci da brodo, che, a volte, sotto il sole, arrivavano a mezza cottura?
E la carne? I due o tre vuccera (dal francese boucher, macellaio) macellavano una capra o una pecora alla settimana e… ne restava: donde il detto tantu sta a carni ô cippu finu a quannu un minchiuni s’a va càrrica, tanto sta la carne al ceppo fino a quando un fesso se la compra… – anche se poco buona).
Non esistevano frigoriferi. Non esistevano tritacarne e la carne capuliata (tritata) a mano ccû satuni (coltello pesante) faceva assaporare in bocca pure schegge del ceppo (di frassino o di rovere). Anche la salsiccia veniva preparata ccû satuni ed insaccata con il pollice che pressava nell’imbuto. C’erano alcune massaie che si sobbarcavano, in privato, per aiutare l’economia familiare, a preparare e vendere qualche impastata di biscotti (undici per ogni lira oppure dieci centesimi l’uno), e le taralle, e le pastine, e turruncini e susameli (dolci di mandorle), a richiesta dei clienti.
Uno o due pannieri, suonando il corno del postiglione, offrivano in giro per il paese tila Mari, percalle, barracani, velluto. Non esistevano negozi di calzature. Qualche giornale.si comprava presso un lattoniere-stagnino. Si vedevano spesso, specialmente d’estate, carretti carichi di grano che scendevano dalle solite «montagne» ed i carrettieri venivano a venderlo fra mille stenti e diatribe; e, per essere un po’ agevolati, si servivano dei sensali del luogo, che, conoscendo i possibili acquirenti, si rifornivano di stadera e di stanga e ne bandizzavano anche, esaltandone qualità e pregi, i tipi (maiorca, tumminìa). Il solo forno pubblico esistente riusciva ad evadere la domanda, ma, spesso, con elevate rimanenze, che poi svendeva. D’estate giravano anche i puddriniti (pollinesi) con i caratteristici muli carichi di fiscini (bigonce) di pira riiddru (reuccio), di pere addruzzu (galletto), di pere putiri (butirro), di pere spìngula (spillo-settembrino), di pere ucciarduni (ucciardone, dal francese chardons – color dei cardoni); in autunno tornavano con le castagne, che venivano vendute e misurate con panieri che ne stabilivano la quantità in cozzi e munneddri.
Giravano ragazzi che, con una latta di petrolio per l’illuminazione, cercavano di guadagnare qualche soldino; ragazzi che vendevano pedane per il braciere o gabbiette per i pulcini, o lattine e palette per la raccolta della manna, o altri prodotti artigianali.
Né si debbono dimenticare i mannalùori (commercianti di manna) che, con stadera e sacchi, andavano per il paese, accompagnati dai ragazzi che recavano la cesta per i cannoli di manna e che vanniàvanu: A ccu avi cannola manna! (gridavano: Chi ha cannoli e manna?).
Regnava, però, su tutto e su tutti, il baratto: olio contro vino e frumento; fave contro pecorino duro o fresco o ricotta salata; carbone, carbonella e legna contro lana e ogni genere di alimenti, uova in cambio del quaderno o del pennino …
E oggi? Mah!.. Non si contano più i Market, microscopici o giganti, i Center, super ed extra, le boutiques ed i bar dai nomi xenofili, con imponenti insegne luminose al neon e vaste vetrine scintillanti… al limite di ogni ben di Dio…
Chi avrebbe sognato, in quei tempi, l’era del consumismo e… dello sperpero? .Chi avrebbe preteso con arrogante insistenza un impossibile superfluo?…