IL DEGNO, L’INDEGNO, LO SDEGNO

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(Di Francesco Di Garbo) – “Chi potrà mai essere stato?”. Domanda di difficile lettura. Eccolo, stravaccato all’americana coi talloni sul bordo della scrivania in mogano istoriata da un ebanista stile settecentesco e cesellata in avorio di tricheco polare cacciato di frodo da bracconieri spatentati. Lì, steso nella poltrona ergonomica Chesterfield reclinata, mascherina copri occhi tipo Zorro per riposare la vista e uno scacciapensieri antireumatico per le dita anchilosate. Nell’altra, Romario, alternava l’iphone. Ufficio al 27° piano del grattacielo multifunzionale sede centrale in piena city. Quella mattina Romario aveva saltato piscina e tennis al 30° piano. Circolo ricreativo dopolavoro per disgraziati.

Immerso nel buio la domanda l’arrovellava: “Chi potrà mai essere stato?”.

Lo stilato piombò all’improvviso fiondato con mano ferma a colpo di fulmine, sicuro di far centro. Notizia a ciel sereno.

“Notizia di emergenza, agite con urgenza, un pazzo si è lanciato contro un treno…”. Cantava La Locomotiva di Guccini. Lo stilato è cascato in pieno centro… “trionfi la giustizia proletaria!”.

Romario strabuzza gli occhi, lo stupore l’assale a gradi Fahrenheit dai bollori acuti tanto da non riuscire a capacitarsi, leggendo lo stilato, di certi voli pindarici e farragine di erbe infarcite con uova strapazzate. Leggendo bene Romario viene a sapere che la dignità delle persone è principio prioritario per il MI-DI (M.D.). E Romario, esperto in materia, non si chiedeva percome fosse possibile che il neoliberismo capitalista potesse stare attento alla dignità delle persone eccetto quella degli azionisti. I due corni indistricabili in cui si dibatteva erano quelli tra la dignità di tutti, tutti? o solo quella degli amici e amici degli amici? La prima è cosa rivoluzionaria, la seconda cosa per élite. La prima considera prioritarie le decisioni politiche a favore dei poveri, gli indigenti, i disoccupati, i precari etc. cioè la giustizia sociale. La seconda mette in primo piano il benessere degli amici stretti con le mani in pasta, cioè il favoritismo amorale.

Dallo stilato in mano Romario non capiva bene qual’era la priorità, e non riusciva a dirimere il senso profondo dello scritto concludendo di tagliarlo come un nodo gordiano. Prese l’ascensore e percorse fino al parcheggio meno undici il grattacielo, risalendo di rimbalzo a palla fino al 27°. Un viaggio virtuale come dalle stelle alle stalle fatto calzando gli occhiali di Meta, e forse il senso dello stilato era basato sul virtuale e non sul reale. Infatti effettuando un giro per il paese reale di giustizia sociale non se ne vedeva un accidenti. Di vita dignitosa men che meno. Eccetto i benestanti che per meriti propri s’erano garantiti una vita dignitosa, per il resto erano solo assegnati clientelari o povertà strisciante.

Quindi il rebus rimaneva insolubile e neppure una soluzione chimica detergente lo schiariva. Romario si lambiccava con la mascherina sugli occhi a dipanare il groviglio quando un raggio di sole lo colpì in fronte, e fu fulminea illuminazione. Strano perché i vetri schermati antisolari non facevano filtrare neppure un barlume di sole, manco una particella che dicasi una. Rimuginava: “Il Sindaco, la Giunta, la Maggioranza disubbidiscono al Potere per garantire la dignità delle persone. Ma quindi, allora, hanno abbracciato la causa rivoluzionaria?”. Si chiedeva. Infatti per essere rivoluzionari si devono trasgredire le leggi costituite, de-istituirle e farne di nuove rispettando l’uguaglianza, la giustizia, la libertà (messa in ultimo apposta per importanza). Tuttavia in questo bailamme rivoluzionario non c’era alcun sentore di eclatanti proteste, mobilitazioni sociali o iniziative di lotta.

Romario si felicitava che in paese andasse tutto per il verso giusto, che la dignità dei poveri e dei lavoratori fosse salvaguardata da un movimento rivoluzionario di destra e sinistra all’unisono e dal Sindaco sua espressione. Qualcosa tuttavia lo turbava, allora si fece un altro scendi e sali con l’ascensore iperveloce da mezzo secondo a piano. Rileggendo bene Romario realizza che è della dignità in senso lato che parla lo stilato, quindi non di rivolta sociale pro indigenti contro l’inopia di classe. È la dignità delle partite Iva dei piccoli artigiani semi benestanti, ceto medio basso che rischia di finire basso basso.

Se ne deduce che, mancando e/o essendo in pericolo la dignità personale il paese se la passa economicamente maluccio e la colpa di ciò ovviamente è dell’opposizione che mette i bastoni fra le ruote invocando la legalità. Quindi malgrado si sparge ai quattro venti che il paese è in crescita, che si sta bene, che, che, che… non sono poi così scontati tutti i bla bla bla in cui si fa credere che tutto va bene Madama la Marchesa. Mistero! Sotto sotto si nasconde un certo declino socioeconomico del paese e la colpa è degli altri. Si raschia il barile con la mannaia e si pratica l’illecito per salvaguardare la vita dignitosa di alcuni e non quella di tutti, elargendo elemosine di carità. Il MI-DI pretende di voler governare al di sopra della legge, però senza finirvi sotto, per poter garantire ai suoi clientes la dignità personale. Cioè l’introduzione dalla finestra dell’immunità per i Sindaci che non l’hanno mai avuta. Così dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio: l’immunità totale. Sennonché la pretensione che nessuno rompa i cabasisi.

Immune non Comune: immunus non com-munis. Non nel, dentro, il comune ma sopraelevarsi, privilegiarsi dell’immune. Il sogno dell’anomia, a-nomos, d’essere sopra le regole. Non voler seguire il nomos comune e agire in stato d’eccezione come era d’uso fare tra i barbari. Voler essere l’eccezione rispetto a tutti gli altri che si conformano alle regole. Significa un volere assoluto di fare quello che si vuole impunemente dando totale precedenza ai propri desideri e a quelli degli accoliti e protetti. Assoluto. Totale. Termini dal sapore particolare che ben conosciamo. Si può essere assoluti, totalitari anche in democrazia dove il termine usato è “autocrazia” autocratico, ma il risultato è lo stesso; la pillola è solo edulcorata, addolcita. E mi fermo qui per non essere volgare.   Cercare di scansare, sfuggire i contrappesi che le regole istituiscono considerandoli fronzoli o impedimenti da bypassare. Siamo al punto che si ha la boria di: “…nessuno mi può giudicare nemmeno tu”.

Romario non era il solo a leggere lo stilato in quel frangente. A distanza di qualche migliaio di chilometri in una casetta dimessa spartana tapina, Tina aveva ricevuto un colombo viaggiatore che la informava dello stilato in rete. “Si commenta da sé”. Si disse. “Non merita parole. Invece di difendere il reddito di cittadinanza si difende e si propugna l’immunità, il privilegio, le prebende. E i poveri che s’arrangino eludendo la loro esistenza”. Si diceva Tina e lo gridava ai quattro venti rimuginando sul reddito ineguale e l’indegna condizione di giovane coppia. Ma nessuno la sentiva.

Col suo Gab lambiccavano la magra sarda d’una vita sfigata. Circostanze avverse li fanno tribolare, non è colpa loro se di lavoro decente non se ne trova.

L’invito per la pizza l’avevano declinato, era troppo esoso per il misero budget familiare. Erano entrambi inoccupati e solo lavoretti precari sottopagati saltuariamente a pietà e misericordia rimediavano. Si stringeva la cinghia nel marasma d’un comprensorio arretrato rispetto ai dignitosi standard europei, un sud da sempre bistrattato e solo per le élite considerato. La crisi mordeva pungeva crampi allo stomaco, col cuoci e mangia ci si barcamenava e la pentola sul focolare non bastava. Tra bolle finanziarie, guerre industriali, pandemie sanitarie ed arretratezza cronica-atavica che a iosa imperversavano.

“Diglielo tu che non andiamo”. Disse Gab.

“Io? Perché non tu?”. Ribatté Tina indispettita.

La grama situazione rendeva il rapporto teso come la corda della lira, si pizzicava e quasi si spezzava. Sebbene la gioia dell’amore trionfasse in ogni angolo della casa e in senso ludico si stuzzicavano.

“No, è che tu riesci a trovare le parole giuste”. Disse Gab blandendo Tina. “Hai il tono mellifluo acconcio per accomodare la faccenda senza dare adito a dissapori amari”. Concluse. Di malavoglia Tina gli fece uno sberleffo sardonico e alzò la cornetta dello smartphone per comporre il numero a memoria.

La fine del mese era un miraggio e il deserto della solidarietà di un impiego languiva in uno scatolone di sabbia che la clessidra non diluiva. Ci si rassegnava a stare a casa al freddo dopo la mattinata presto che il “caporale” aveva chiuso le porte. Freddo rigido rannicchiati attorno al braciere con la carbonella riciclato dalla nonna perché il gas per la stufa è d’importo proibitivo. La dignità della persona! Lo sviluppo senza progresso! La prima solo per gli amici accoliti. La seconda ci si sviluppa economicamente, ma non si progredisce mentalmente: “Si pensa con la pancia, si mangia con la testa!”.

Avevano un conto dal salumiere e un altro dal panettiere più altri debiti in corso. Il credito dal capomastro che aveva fatto lavorare Gab per una decina di giorni poteva ricoprire i debiti per un terzo massimo.

“Amo’ mi si sono rotte le scarpe da tennis e mi sono bagnata i piedi tornado dalla signora”. Tina faceva un lavoretto part-time come badante presso un’anziana signora ultra nonagenaria. Gab fece un gesto di stizza e si prese la strizza, poi attirò Tina e la baciò in fronte dicendo: “Chiederò un altro prestito a mia madre dicendo che servono per pagare la bolletta dell’acqua se no la tagliano”. Tina strinse forte Gab pensando alla bolletta scaduta da qualche giorno. Una cifra enorme dall’ultimo rincaro con la scusa della siccità come ciliegina sulla torta. L’hanno detto ai servizi sociali, ma in paese non hanno fondi per fornire un giusto ed efficace servizio mentre gli Assessori si sono aumentati lo stipendio e la diaria: si predica bene e si razzola male. Si giravano i pollici accoccolati sul braciere in religioso silenzio che mancava pure la voglia di parlare.

“Da quando hanno tolto il Reddito di Cittadinanza siamo rovinati!”. Sbottò Gab.

“Eravamo a posto con una vita dignitosa grazie ai 5 stelle”. Gli fece eco Tina. “Si riusciva ad arrivare a fine mese senza strafare…”. Aggiunse col viso intriso di mestizia.

Facce tristi e pensierose vagavano con estrema dignità a raccogliere funghi per rimediare il pasto serale. Erano partiti prima dell’alba per vedere l’aurora a 1600 d’altitudine, la strada irta e ruvida piena di buche e dossi trasversali per drenare l’acqua profondi anche mezzo metro che facevano sobbalzare con tremolio scioccante il corpo. Strade interpoderali abbandonate alla furia degli elementi dall’Ente comunale che non se ne cura. Con due chili di funghi si possono comprare le scarpe per Tina confidava Gab ad essere fortunato, che manca il R. di C. per la dignità personale asseverata.

Tina era inquieta e vedeva il futuro scuro e minaccioso da cimentosa buriana. Irreale rispetto ai sogni concepiti con Gab seduti in panca seminascosta in un angolino riparato da un pennacchio tra chiesa e convento. Tanti bei progetti di futuro radioso svanito come neve di marzo. Rigirava i lunghi capelli ondulati increspati con shatush marrone chiaro su castano scuro. I suoi occhi grandi e luminosi avevano sempre un che di tristitia malcelata. Rideva per non piangere superba e orgogliosa, solare per virtù d’apparire serena, mentre dentro si struggeva. A Gab nascondeva i patimenti interiori e manifestava solo quelli, ineludibili giocoforza, d’affrontare nel quotidiano.

“Cosa sdignusa, rivutusa e fitusa fu”.

Dall’alto in basso del grattacielo in quei 14 secondi Romario poneva la discesa in questi termini: “Ogni testa è un tribunale. Abnorme espressione d’essere fuori dalle norme”. Quel giorno la mania del saliscendi gli aveva preso il sopravvento angustiato e impetrato di fronte al volto di Medusa. Romario rivangava: faceva “terravutata”. “Nello stilato si scambia la dignità generale con quella di parte; ci si riferisce a tutti come alibi per favorire alcuni”. Strano concetto questo di scambiare il tutto con la parte, detto in soldoni: “dei castelbuonesi faccio gli interessi, ma guardo per tornaconto la mia parte”. Una sorta di metonimia politica mascherata dall’idea di dare libera iniziativa alle capacità individuali, che senza l’aiuto del pubblico però farebbero fatica. “Allora perché il pubblico aiuta solo la dignità di alcuni e non quella di tutti?” La questione ritornava a bomba.

La dignità personale è un concetto generale che riguarda tutti e quando il benessere di alcuni non si riverbera verso tutti si formano le classi sociali: l’antinomia ricchi/poveri in senso piramidale a cascata, dagli eletti ai sommersi. Tutto ciò causa disagio, risentimento e odio sociale. Romario dall’alto del belvedere del grattacielo guardava in basso, ma non era lui ad effettuare queste riflessioni. Lui operava avallava perorava questo vile e truce andazzo. Non era neppure la coscienza o l’inconscio. I suoi pensieri erano scevri e levi come bolle di sapone in  aria. Il bene comune inteso nel suo senso appropriato riguarda tutti gli appartenenti al com-munis e non ammette im-munitas, non consente eccezioni o figli della gallina bianca.

Per dirimere l’increspato groviglio Romario si rivolse al suo amico culo di gomma famoso filologo della meccanica politica. Cenarono al Casottel e il digestivo al C.I.Q. Da Est a Ovest si videro in Duomo. Nell’invito Gigi inserì il link dello stilato per farlo leggere a Gigi. Quando gli sguardi s’incrociarono il ghigno sardonico di Gigi diceva tutto. Era quasi inutile parlarne. Romario non ebbe neppure il tempo d’aprire bocca che Gigi lo zittì. Allibito più dalla forma farraginosa quanto della sostanza inconcludente dello stilato e senza voler entrare nel merito che la forma fa la sostanza e viceversa: “Per decodificare il contenuto ci vorrebbero chiavi interpretative extraterrestri”. Disse d’acchito con tono basito.

“Mettiamoci a tavola che dopo ne parliamo”. Aggiunse toccandosi la pancia per la fame.

“Detta nei termini dello stilato la dignità personale è configurata con un forte accento populista, un riferirsi al popolo in maniera indiscriminata in senso demagogico, in quanto si ha l’occhio rivolto alla propria parte. Si adduce un senso divisivo in cui alcuni plaudono mentre altri criticano. Va da sé che la logica induce che non tutti possono essere salvati ci devono essere i sommersi per poter garantire un certo standard di vita ai salvati. Quindi si agisce non per il bene comune, ma per il bene di alcuni. Chi lo rivendica in senso lato lo fa in malafede. Viene meno il concetto originario di popolo, (tutti quanti), e si degenera nel populismo dei salvati. Di conseguenza la società si divide e si stratifica in classi sociali. Agli estremi le classi agiate, élite un polo, indigenti l’altro, in mezzo il ceto medio alto e il ceto medio basso. Voler forzare le regole per tenere in piedi il forziere in nome della dignità personale di alcuni e non di tutti è il classico populismo demagogico leghista e destrorso, un forte strabismo politico di stampo verticistico-piramidale di comodo. Arretra il Welfare, avanza il Warfare. Che mondo di emme. Ognuno abbandonato, reietto, deiezione da sotto il ponte nella cloaca; che si arrangino come meglio possono. Che usino ogni arma a disposizione per la dignità personale. Tutto è lecito eppure illecito. Niente legge né morale neppure il culo si può salvare, e che l’onore vada al diavolo”. Gigi trasecolò si schiarì la gola affricata dal tanto parlare, scosse la testa come un cavallo baio dall’incipiente canizie. Appena si riprese dallo stordimento confermò: “Mondo di emme!!!”.

Quando attacca a concionare Gigi è impetuoso, ci va giù duro e taglia carne e osso. Quando stacca non riprende più. Per lui il discorso è chiuso e non c’è modo di farlo ritornare a tema. Ti stoppa prima che apri bocca. Così passammo ad altro.

In quel tempo di recessione dissesto depressione socioeconomica imperversava la querelle spettegolata dell’affaire Boccia-Sangiuliano. I media strombazzavano a tambur battente e fino all’estero il succulento onor perduto. Non c’era bocca che non ne mormorava dettagli e ricami da ghiottonerie da cortile e barbiere.

Il messaggio in sostanza era che per far carriera, avere un posto di lavoro bisogna darsi da fare con ogni mezzo, compreso l’uso del corpo, la malizia ruffiana e via dicendo. Tina ci pensava da tempo e l’affaire fu la riprova che se voleva una vita dignitosa si doveva dare da fare senza farsi remore fisime o inibizioni d’alcuna sorta, questo vuole il Potere per farti uscire dalla grama situazione. Detto in breve: “Il Potere, in questo mondo di Emme, fa in modo che la dignità economica surclassi e annulli la dignità morale e legale”.

Gab se ne rendeva conto e ad ogni momento ripeteva: “Che Potere di Emme!”. Gridava. Ripigliava fiato e a squarciagola infuriava “Cosa sdignusa, rivutusa e fitusa!”.

P.S. Va da sé la conclusione lapalissiana, un mondo di emme non si può pulire mica con il politically correct, il buonismo, il terzismo o il cerchiobottismo. Tutte queste modalità di fare politica hanno condotto la sinistra a rovinosi rovesci di consenso e nell’efficace azione strategica. Non si può far finta di niente, non si può dimenticare. La storia prima o poi presenta il conto. Non si può a rigor di termini strategici solo guardare l’immediato e il contingente, ma oltremodo pure il medio e lungo obiettivo se si vuole essere concreti e con-vincenti. Se ne facciano una ragione tutti coloro che predicano e avallano il neoliberismo di sinistra.

Questo mondo è talmente sporco (sia in senso politico quanto in senso ambientale) che lo si può pulire solo e soltanto rivoltandolo come un calzino, altrimenti si mettono toppe e si tappano falle. Con questo Potere non ci possono essere mediazioni che tengano, perché esso non sente ragioni se non gli si toglie il pallino dalle mani, il coltello dalla parte del manico (sia in senso globale quanto in senso locale). Quindi è necessario instaurare un modello socioeconomico alternativo al capitalismo imperante. Senza alternativa saremo sempre nelle mani del demonio: lo sterco del diavolo.

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