Il rito del fuoco solstiziale. Le quarare e le fave di San Giovanni

In occasione della Festa di San Giovanni, riproponiamo questo scritto, in parte riveduto, del prof. Massimo Genchi

(Di Massimo Genchi) – La festa di San Giovanni, che a Castelbuono, pur celebrandosi dalla notte dei tempi, mostra una grande inossidabilità, fra le feste popolari è certamente la più amata e viva. Il motivo risiede forse anche – ma non solo – nel fatto che rappresenta l’occasione per trascorrere una serata conviviale in strada all’insegna dell’allegria, di genuini cibi della terra e del buon vino di botte che accompagna le abbondanti fave e patate bollite consumate a stricasali, cioè condite con olio e aceto e insapidite a dovere con pepe e sale.

Dietro l’aria di festa e di devozione al santo, fra le pieghe della spensieratezza che essa infonde e la baldoria che attenua i fumi del alcol e delle fave fumanti, non è immediato scorgere, però, intricati riti religiosi e pagani che vengono anche da lontano e che si perdono nelle remote origini delle civiltà europee.

La festa di San Giovanni, finché rimase viva la civiltà contadina, innanzitutto, fu una festa di ringraziamento per i recenti raccolti, segnatamente cereali e leguminose. Il fuoco vivace delle nostre quarare è però soltanto un simbolo o meglio una piccola porzione del plurimillenario e spettacolare rito dell’accensione dei fuochi nelle campagne, comune, in questi giorni d’estate, a tutti i popoli dell’Europa continentale e non solo.

Quello di accendere i fuochi, dapprima la notte del 21 giugno poi, con l’avvento del cristianesimo, la notte di San Giovanni Battista, è un antichissimo rituale di matrice celtica per celebrare il solstizio d’estate. ‘Sol stat’, il sole culmina. E questo momento dell’anno, per i popoli nordici, significava riavviarsi rapidamente verso il grande buio dell’inverno. Il solstizio, è dunque la festa del sole, che è il fuoco della terra. Ma l’etnologia ci insegna che i fuochi, i falò, simboleggiano i sacrifici umani. In tutta Europa, non solo fra i celti, si svolgevano riti propiziatori nel corso dei quali si bruciavano, insieme, biade ed esseri umani affinché la Madre Terra si nutrisse a dovere con i migliori concimi regalando, così, copiosi raccolti per molte stagioni.

Anche i Greci praticarono sacrifici umani e, in definitiva, ogni civiltà contadina ha fatto questo. Ciò fino all’età contemporanea. La leggenda di John Barleycorn è la prova dell’adorazione, nelle Isole Britanniche, di un dio della vegetazione. John Barleycorn, little sir John, è lo spirito del grano, sacrificato per portare fertilità nei campi, che ciclicamente nasce, cresce, mette la barba, si imbionda e viene falciato «lasciato steso fino al giorno di mezza estate (il solstizio)». John Barleycorn must die, deve morire. Anche la simbologia cristiana, emanazione delle civiltà antiche, è piena di riferimenti ai cereali, dal pane alla parabola del seminatore, fino alla famosa frase nel vangelo di Giovanni: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Ecco, il necessario passaggio dalla vita alla morte affinché essa possa ridare altra vita.

Anche in Italia, tutte le contrade campagnole di quell’Italia che fu profondamente agricola e contadina, quindi legata alle credenze e ai pregiudizi, la notte di San Giovanni erano rischiarate dai falò solstiziali per festeggiare la notte più breve e onorare la potenza della Madre Terra. Nelle Langhe, fino al secondo dopoguerra e oltre, sopravvisse l’ancestrale credenza contadina secondo la quale i falò propiziatori avessero il potere di fecondare e di vivificare la terra. «Li hanno fatti quest’anno i falò?» – scrive Pavese – «Noi li facevamo sempre. La notte di S. Giovanni tutta la collina era accesa». Che, in simboli, è pur sempre una invocazione al Dio dei raccolti. A Castelbuono, dove non v’è o forse non è rimasta traccia di collegamenti coi sacrifici umani per saziare la terra, rimane però viva la simbologia del fuoco propiziatorio.

In Sardegna il rito arcaico dei fuochi comincia il 21 giugno e si chiude, generalmente, il 29 giugno con la festa dei Santi Pietro e Paolo. E qui vi è più di una coincidenza con la tradizione di Isnello dove la festa delle fave è fissata in concomitanza con quella di san Pietro e non, come da noi, di san Giovanni.

Ancora in Sardegna, in quei giorni, tenendosi per mano e saltando il falò per tre volte, le persone sancivano rapporti di comparatico ma anche l’interesse di un uomo nei confronti di una donna. L’uomo che voleva chiedere la mano di una ragazza saltava il fuoco per dimostrare il suo coraggio e la fermezza delle proprie intenzioni.

Queste usanze, identiche a quelle che tradizionalmente erano in voga da noi il giorno di San Giovanni, ne differiscono per il fatto che qui non venivano suggellate con il sacro fuoco ma con il profumo gentile dei galòfari, i garofani. Infatti, anche a Castelbuono, fino alla fine dell’Ottocento, per consacrare la simpatia tra un ragazzo e una ragazza in un legame di amicizia per la vita, era usanza che lui, il giorno di San Giovanni, lanciasse un garofano dalla strada a lei che stava alla finestra in segno di preferenza e di scelta.

Così come in Sardegna, in Abruzzo e in altre regioni, qui ci si faceva cumpari a san Giuvanni scambiandosi un garofano, una stretta di mano, dandosi del vu e legandosi così in un’amicizia particolare, una sorta di patto, un impegno d’onore a tempo indeterminato assunto sotto l’egida del santo, che si realizzava recitando la seguente filastrocca dopo avere intrecciato i mignoli e staccato un capello che veniva soffiato via:

E ccumpari ccû piricuddru

quanni mànciu un vùojju a nnuddru

â finuta di manciari

vùojju a ttutti i ma cumpari.

Piliddru d’oru, piliddru d’argentu

sìemu cumpari ppi tuttu l’annu.

Oltre a queste simpatiche usanze, ormai quasi del tutto dimenticate, la tradizione – non sappiamo da quando, ma possiamo dire da sempre – associa alla festa di san Giovanni il rito delle quarare e del fuoco – che è al contempo simbolo del ringraziamento e auspicio di fertilità della terra. Quel caldaio di fave all’aperto, al centro della strada, rappresenta una manifestazione di gioia collettiva e, come la festa sull’aia, o i canti della vendemmia, rappresentava il trionfo del lavoro contadino, perché il raccolto delle fave costituiva la ricchezza, la provvista per tutto l’anno.

Per il loro elevato apporto proteico, nel corso dei lunghi mesi invernali, in tempi in cui spesso mancava il necessario, non era da disdegnare un piatto caldo a base di fave bollite o di favi a ccunìjju, fave secche cucinate in un sughetto a base di salsa di pomodoro e cipolla o ancora di favi pisciati, fave sobbollite in acqua salata e, successivamente, cotte al forno o anche di favi pizzicati, fave intagliate e cucinate con salsa e cipolla. Senza dire che la pasta ccu i favi spicchiati costituisce ancora oggi una prelibatezza non solo per chi è alla ricerca di antichi significativi sapori. Che non sono quelli Slow ma quelli che riesci a riprodurre filologicamente a casa tua.

Il giorno della festa, dopo la rituale messa mattutina celebrata nella chiesetta campestre di San Giovanni, nel primo pomeriggio in ogni strada cominciavano i preparativi. Ora, sia detto per inciso, si poteva tollerare tutto, anche che si organizzasse una quarara senza vino o con poche fave ma non era pensabile una quarara sulla quale non troneggiasse il quadro del Santo così com’è ritratto nell’iconografia ufficiale, con l’agnello in braccio e il bastone. Proprio per questo, nei giorni precedenti, si scatenava una corsa in giro per le case per cercare di avere in prestito il quadro del Santo. Al donatore, ppi cumprimientu, secondo tradizione, la sera della festa sarebbe stato recapitato fino a casa un bel piatto di fave fumanti.

In onore di san Giovanni, per tutto il vicinato e anche per i numerosi avventori che facevano il giro delle quarare dislocate in tutto il paese, ci sarebbero state fave del nuovo raccolto in abbondanza e vino. E poi musica e canti e balli e tanto divertimento. Allora veramente, semel in anno. O poco più. Un po’ meno ci si dovette divertire quelle rare volte – accadde anche questo – che per imperizia o accidentalmente o perché il vino aveva già prodotto i suoi prodigiosi effetti, sotto il vigoroso e incontrollato impulso impresso ai cucchiaioni di legno la quarara si abbuccò e con essa tutte le fave che, trascinate dall’acqua, se ne scesero a pinnina, mentre i santi acchianàvanu li mura.

Fra i miei ricordi più remoti rintraccio il racconto di un San Giovanni campestre festeggiato fra vicini di un crocchio di case di campagna. Peppe, un mezzadro che si spezzava la schiena dalla mattina alla sera per un tozzo di pane, dopo la frugale cena – incurante della quarara già gorgogliante sul fuoco, si mise a letto cadendo immediatamente in un sonno profondo. Non solo il poveretto era schiantato dalla fatica ma dovette anche subire gli scherni dei quei malfattori dei suoi vicini. Terribile verità del detto cu avi un mali vicinu, avi un mali matinu! A volte, però, anche na mala siritina. Infatti, non appena le fave furono al punto giusto, un paio di buontemponi salirono sul tetto della casa di Peppe, in corrispondenza del suo letto, cominciando a scanalari, a togliere un po’ di tegole finché non scorsero l’inconsapevole Peppe che dormiva come un sasso. Cominciarono a fare un gran baccano, percuotendo grandi contenitori di latta con pietre e pezzi di legno. Intanto dall’alto, con una corda, gli calarono sul letto, fino a sfiorargli il naso, una gamella di fave appena scolate, intervallando il frastuono con il refrain: Sùsiti Peppi ca i favi su ppronti! Ma Peppe sembrava sprofondato nel sonno di San Giovanni che, come si sa, durò tre giorni. Alla fine, forse, riuscirono a svegliarlo, non ricordo più. Ricordo invece, perché era l’amaro epilogo della narrazione che mi fecero da piccolissimo, che, per le sempre maggiori ristrettezze economiche in cui versava, il povero Peppe fu costretto a lasciare la campagna, la giovane moglie, due piccolissimi figli e ad arruolarsi come volontario (volontari della fame vennero chiamati) nelle forze nazionaliste durante la guerra civile spagnola, dove, invece che migliori condizioni di vita, trovò la morte. Davvero una brutta storia.

Benché in quei tempi non fosse ancora invalsa l’usanza di indire concorsi per la quarara più accogliente, più caratteristica, più originale, più etnografica, tutti si adoperavano per addobbare al meglio il loro angolino, il loro cantone, sia pure nella semplicità di allora.

Questa, per me bellissima, fotografia scattata nel 1925 in via Collotti dà l’idea di quanto già allora ci si ingegnasse per creare qualcosa di originale. A proposito di quella edizione, Il Bancarello scrisse che la buona annata per il raccolto delle fave permise ai cittadini di mettere su in abbondanza le tradizionali quarare. Una simpatica festa si svolse all’imbocco della via Collotti, proprio nel quadrangolo geniale! Paparone – Strombolaro – Mimì – Di Galbo Cangelosi”. Nunzio Paparone, nonno degli attuali Paparuna, lo si può notare al centro della scena, con la figlioletta Antonietta in braccio che, pur di pochi mesi, ha già adocchiato le fave nel piatto e verso di esse è protesa in maniera determinata. Come si può notare, la quarara, per mezzo di due robusti ganci, è posta in sopraelevazione, sospesa a una lunga trave che collega due case poste dirimpetto. Imponente è l’addobbo che adorna il grande quadro di San Giovanni e ci sono anche i musicanti armati di grancassa, flicorno, clarino e qualcos’altro ancora pronti ad attaccare. Conosco tre esemplari di questa fotografia, una delle quali fu spedita con questo interessante scritto:

«Caro figlio, ti rimetto la fotografia che abbiamo fatto il giorno di S. Giovanni sul cantone della nostra bottega. Facemmo un arco di foglie e fiori con il quadro di San Giovanni in testa; la caldaia appesa all’arco che bolliva in aria, cioè il fuoco era acceso sopra le tavole sostenute da due cavalletti da muratori; sopra le tavole una fila di mattoni per non bruciarci, insomma un lavoretto di vera novità. Ci siamo divertiti con musica, vino ecc. Il mio ritratto venne un po’ scuro con la bottiglia in mano […] di Totò col piccolo Rosario in braccio».

Il signore che scrive, ovviamente, è quello coi baffi e il berretto e la bottiglia in mano. Il Totò di cui si parla, alla sua destra è Antonio Minutella papà di Emilio che ha in braccio il nipotino – Rosario – vestito di nero per la recente morte del giovanissimo papà.

In quest’altra foto, scattata nello stesso punto ventidue anni dopo, dove si nota ancora un particolare allestimento, possiamo vedere lo stesso Rosario Minutella, ormai adulto, con i baffetti, accanto a Giovanni Lupo sul palchetto della musica allietare la serata con la sua chitarra assieme a tanti volti noti della scena pubblica castelbuonese e assieme ai tanti volti noti dell’orchestra.

Sariddru Scalunìeddru con Peppino Napulìeddru e Mimì a Puviriddrami, oltre a fare parte dell’orchestra del maestro Nicolino Carollo, avrebbero anche allietato tante feste serenate, matrimoni  e feste di san Giovanni, a partire da quelle che nei primi anni Settanta si organizzarono nello slargo dell’attuale Cycas, sicuramente la più partecipata quarara di tutti tempi, l’organizzazione della quale fu appannaggio di Peppino Mazzola, di Santo Vignieri, del cavaliere Di Liberti e di tutti i personaggi che, ogni giorno, animavano la piazza in quei pressi e in quegli anni.

A un certo punto, dopo tante altre quarare del passato, quella dî canaleddra â Stratalonga quelle storiche dâ Chiazzetta e dâ Rrua Fera, si spensero i fuochi anche di quest’ultima mentre altri se ne accesero e se ne accenderanno perché la vita è un fiume che fluisce dove tutto passa, tutto scorre, come disse qualcuno che se ne intendeva. E un altro, per non essere da meno, gli fece eco ricordandoci che «mentre parliamo il tempo è già in fuga, come se provasse invidia di noi. Dunque, afferra la giornata sperando il meno possibile nel domani.» E quindi, in questa festa di San Giovanni, mentre riempiamo il bicchier che è vuoto e svuotiamo quello che è pieno, affinché non sia mai vuoto e, soprattutto, affinché non sia mai pieno, facciamo nostro, ancora una volta, l’invito del Poeta a cogliere l’attimo alzando i calici: sursum corda!

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