Il vicolo del rilievo, a Marturana e il teorema di Cammarata

Il vicolo del rilievo, a Marturana e il teorema di Cammarata

 

A volte succede che un toponimo abbastanza radicato nel parlato cozzi, anche fortemente, con l’attestazione storica di quello stesso toponimo. Succede quindi che a chiazza nnintra, anche se oggi è difficile da accettare, in origine designava la via che dal Castello portava (e porta) nella piazza della Banca di Corte. Questo fatto non deve sorprendere perché a ben pensare, ancora oggi, la via che collega la Piazza Margherita alla Piazza del Popolo è detta semplicemente a chiazza (foto 1). Ciò perché per piazza (latino platĕa(m) che è dal greco plateía, derivato a sua volta da platús “ampio, largo”) si dovette intendere un posto ampio e largo, sede di attività specialmente commerciali.

foto 1. A Chiazza (1949) Foto Peppino Puccia

foto 1 – A Chiazza (1949), foto Peppino Puccia

 

Non è inutile qui precisare che la denominazione di via sant’Anna risale al 1882 (anche se da quando sant’Anna è diventata patrona di Castelbuono quella strada viene chiamata dal popolo stratê sant’Anna), dopo che la stessa si chiamò per diversi secoli appunto Piazza dintro e, successivamente, Via dei Conti di Geraci. L’attuale Piazza Margherita (foto 2), invece, nei documenti del ‘400 e del ‘500 è detta Piacza publica e, secondo quanto riportato da Mogavero Fina, assunse in successione le denominazioni di Piazza inferiore, Largo della Banca di Corte, Largo delle Prigioni. Ma quando il toponimo chiazza nnintra passò a indicare la piazza e non più la via (sicuramente dopo il XVI secolo) è difficilissimo da stabilire. Così come non è sempre semplice, e non solo in ambito toponomastico, riuscire a risolvere etimologicamente una denominazione.

 

foto 2 - A Chiazza nnintra (1949). Foto Peppino Puccia

foto 2 – A Chiazza nnintra (1949). Foto Peppino Puccia

 

Uno dei problemi meno complicati riguarda, per esempio, lo scioglimento del significato di Vicolo Rilievo. Bisogna innanzitutto tenere presente che il Vicolo in questione, oggi intitolato a Giuseppe Di Garbo, pittore castelbuonese vissuto a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, è quello che collega a chiazza alla rrua fera. Non è secondario ricordare, poi, che l’esatta denominazione era Vicolo del Rilievo e che prima della intitolazione ufficiale delle strade urbane, si chiamava, secondo quanto riferisce Mogavero Fina, Vicolo Fondaci. In effetti, fin dal ‘500, nella zona erano ubicati diversi fondaci. In particolare, nei locali dell’Extra bar – dalla Piazza a Via Collegio Maria – era ubicato il cosiddetto “fondaco piccolo” mentre il “fondaco grande” ricadeva, in parte, negli attuali locali del Play bar. Dunque il significato di Rilievo è da mettere in relazione con la presenza dei fondaci. Infatti, in molti dialetti siciliani per rrilievu si intende “il luogo in cui si posteggiavano le carrozze” (a Grammichele), “l’operazione di cambiare i cavalli alle poste” e “la posta” stessa (secondo i lavori lessicografici di Traina, Macaluso e Arezzo), ma anche la “scuderia” (ad Assoro). Tutto ciò troverebbe conferma nel fatto che in francese il termine relève significa “cambio, muta” e il corrispondente verbo relever significa “dare il cambio”, da cui il termine italiano rilevare, peraltro di uso comune. Ragion per cui con Vicolo del Rilievo (preferito a Vicolo dei Fondaci) il toponomastico ottocentesco ha voluto tramandare che in quei pressi vi erano delle stazioni di posta.

Poiché la traversa successiva, fino a poco tempo fa, si chiamò Vicolo Alberghi, per via delle locande che vi sorgevano, qualcuno ha pensato che Rilievo fosse da mettere sì in relazione ai fondaci, ma per via della presenza delle locande, che richiamerebbero il sostantivo francese relais (che in italiano ha assunto il significato di residence di sublime livello). Termine, quest’ultimo, che permetterebbe di risolvere l’etimo: posto di riposo per gli uomini da un lato dell’isolato e per gli equini dall’altro lato. Ma relais, in francese, significa “posta, stazione in cui si fermavano le diligenze per il cambio dei cavalli”. E qui, sarebbe il caso di dire, arrivàu a mula ô fùnnacu, perché sia relais, sia relève riportano alla posta dei cavalli. Quindi, in definitiva, gli alberghi sembrano entrarci poco con Rilievo.

 

Però se gli alberghi si sono guadagnati l’intitolazione di una via, dovevano essere non pochi e non di poca notorietà. In tempi recenti si poteva alloggiare all’Albergo Alessandro ubicato ô chianâ Matrici nel palazzo Guerrieri, nnâ zza Marana in via Paradiso e per i più esigenti c’era l’Albergo delle Rose. Andando indietro nel tempo rimane traccia di un Albergo Centrale sopra l’attuale bar sant’Anna (foto 3), dell’Albergo Roma in Piazza Margherita nell’attuale casa Speciale (foto 4) e di un Albergo che ha letteralmente fatto il giro del mondo. Si tratta dell’Albergo di Donna Stefana. Questo sorgeva esattamente nei locali a primo piano del Ristorante Nangalarruni ed era gestito da Donna Stefana Schimmenti. La notorietà di questa locanda è dovuta al fatto che i non pochi naturalisti siciliani, italiani ed europei arrivati a Castelbuono per incontrare Minà Palumbo o Failla Tedaldi e da qui iniziare le loro escursioni sulle Madonie alloggiarono da Donna Stefana. Di questi soggiorni rimane traccia nei numerosi rendiconti di queste escursioni pubblicate nelle riviste naturalistiche dell’epoca.

 

Foto 3 - L'Albergo Centrale (1940)

Foto 3 – L’Albergo Centrale (1940)

 

Foto 4 - L'Albergo Roma ubicato nell'attuale casa Speciale (1905)

Foto 4 – L’Albergo Roma ubicato nell’attuale casa Speciale (1905)

 

A partire dagli anni ‘70, una parte di questi locali ospitarono un circolo ricreativo mentre i rimanenti erano, già da tempo, adibiti a casa di civile abitazione del professore Oscar Lo Presti. La scala di accesso comune creava qualche frizione fra il custode del circolo, Antonio, e i figli del professore Oscar secondo i quali la pulizia della stessa lasciava un po’ a desiderare. Un giorno, varcato il portone d’ingresso, li trovai armati di barattoli di marmellata intenti a spalmarla abbondantemente sui gradini. La risposta all’unisono alla mia naturale domanda fu: vistu ca Ntòniu a scala u lla vo llavari, accussì ora l’a llavari ppi fforza. Efficace rimedio e disarmante risposta.

 

Dall’altro lato dell’isolato, fin dalla fine degli anni ’40, una parte dei locali del fondaco grande fu adibita a bar, u bbar i Bonomu (foto 5), dove si poteva giocare a carte, ma soprattutto a biliardo. Ammirato genio della stecca nel bar Bonomo fu Fasanello che per tanti anni era stato a Rio de Janeiro dove lavorava, se si può dire così, in una casa da gioco.

 

Foto 5 - L'esterno del bar Bonomo in Vicolo del Rilievo alla fine degli anni '40

Foto 5 – L’esterno del bar Bonomo in Vicolo del Rilievo alla fine degli anni ’40

 

In realtà lui non lavorò mai, tanto è vero che una volta, trovandosi ad assistere a un comizio, avendo l’oratore esordito dicendo “trabajadores do Brasil”, lavoratori del Brasile, lui disse al suo amico amuninni ca chistu un parra ccu nnuatri. Fasanello era estremamente superstizioso, tanto che non si separava, al gioco e fuori, da un suo amico gobbo. Un giorno il gobbo gli disse: “non vedi che da quando hai comprato questo orologio le cose al gioco non vanno più bene come prima”? Fasanello senza pensarci due volte si sfilò l’orologio d’oro dal polso e lo gettò sotto un tram che in quel momento gli passava davanti. Fasanello con la stecca in mano, per quel che dicono, era spettacolare (foto 6). La sua bilia, appena colpita, impiegava un tempo infinito per raggiungere l’altra e questa, a sua volta, i birilli. I soliti buontemponi, dal pubblico, consigliavano a chi giocava contro di lui: mìegliu lassallu a vvista ca ùorvu, cioè, paradossalmente, è meno pericoloso quando vede l’altra bilia. Antonio Castelli ne Gli ombelichi tenui dà questa bella descrizione: “c’è Jim, italo-americano, ritiratosi da poco nel suo paese d’origine; non proprio anziano, secco e spigoloso, ha la faccia intagliata come una corteccia. Egli è un virtuoso del biliardo; atteggia il corpo naturalmente, ricurvo com’è, per archeggiarvi la stecca. Fissa la mano sinistra, lunga e ossuta, sul panno verde e, con l’altra, attraverso l’indice e il pollice chiusi in un cappio di tendini, fa scorrere la stecca; dapprima con moto lento, misurato, poi con agilità sempre più sciolta, per allungarla di colpo dal suo interno come un artiglio”.

 

foto 6 - Fasanello impegnato in una partita all'italiana (1964)

Foto 6 – Fasanello impegnato in una partita all’italiana (1964)

 

Successivamente il bar fu preso in gestione da un personaggio assai simpatico, sempre pronto alla battuta (vedi la puntata del 24 dicembre 2012), che tutti chiamavano affettuosamente Hombre. Quando ancora Castelbuono non era la capitale mondiale dei panettoni, Hombre – in occasione delle feste natalizie – ordinò un congruo numero di panettoni Motta e Alemagna che mise in bella esposizione. Solo che non ne vendette uno che fosse uno. All’indomani dell’Epifania, giorno di inizio degli sconti dei prodotti natalizi, nel bar ancora costipato di panettoni entrò un signore e chiese al Nostro: – avete per caso panettoni? e Hombre, serafico per definizione, non perse neppure in quella circostanza il suo aplomb. Indicati a dito i panettoni, si rivolse all’avventore e gli disse secco: – sono tutti venduti!

Negli stessi giorni, a metà degli anni ’80, Cammarata con un enorme cartellone affisso sul prospetto del suo bar rese nota la seguente

OFFERTA SPECIALE

1 panettone £ 3500

2 panettoni £ 7000

 

A dire il vero non proprio una offerta di tutti i giorni. Poiché il resto del cartellone era rimasto immacolato, noi non più giovanissimi ma ancora giovani da poterci abbandonare ai dispetti, lo completammo così:

 

3 panettoni £ 10500

4 panettoni £ 14000

…………………………..

10 panettoni £ 35000

 

Costruimmo, cioè, per la prima volta nella storia millenaria dell’aritmetica in base dieci, la tabellina del 3500. E, date le ipotesi e la strabiliante tesi, mi è sembrato doveroso tributare quel formidabile risultato, com’è consuetudine nella matematica e nella fisica, a colui che lo trovò. Quindi accanto al teorema di Pitagora, al teorema di Euclide, al teorema di Ampère, al teorema di Weierstrass e a tutti gli altri, almeno per me, ha trovato posto anche il teorema di Cammarata. Tutte le volte che a scuola spiego le classi di grandezze direttamente proporzionali o leggi regolate da relazioni di proporzionalità diretta, esemplifico sempre in questo modo: perché se un panettone costa 3500, due costano 7000 e tre 10500, in virtù del teorema di Cammarata. Naturalmente tutte le volte che ciò accade i miei alunni vogliono sapere chi sia mai questo Cammarata.

Quel bar, prima di essere rilevato da Cammarata, fu per tanti anni una sorta di Caffé Pedrocchi locale. Il tanto celebrato Caffé Pupillo (foto 7), con annessa pasticceria e la drogheria nel locale dirimpetto, costituì il ritrovo di gente altolocata. La pasticceria di classe di Vincenzo Pupillo era rinomata in tutto il circondario e, almeno per questo, Bruno Caruso ha voluto immortalare in un suo disegno Vincenzo Pupillo con in mano una coppa di gelato e nell’altra un piatto con un tronco di gelato, la sua vera specialità (foto 8). Si dice che i borghesi di posto ai tavoli di quel bar incutessero una tale soggezione nel popolino quasi da costringerlo, per non transitare davanti a quella schiera di “cappelli”, come venivano appellati in maniera sprezzante gli aristocratici, a svoltare per la Salita al monumento, poi ancora a destra per via Turrisi, per ritornare nel Corso attraverso Vicolo del Convegno (altro toponimo di significato oscuro). Una umiliazione di non poco conto che forse si paga in maniera collettiva con la dilagante scostumatezza di oggi.

 

Foto 7 - La drogheria annessa al Caffé Pupillo in una foto dei primi anni '30

Foto 7 – La drogheria annessa al Caffé Pupillo in una foto dei primi anni ’30

 

Foto 8 - Vincenzo Pupillo, disegno di Bruno Caruso (1997)

Foto 8 – Vincenzo Pupillo, disegno di Bruno Caruso (1997)

 

Accanto e di fronte al caffè Pupillo fu, per più di sessant’anni, il salone di Nunzio Bruno, vero terrore di tutte le zazzere dei bambini e giovanotti per più di mezzo secolo. Gli anni della mia infanzia, oltre che alla strata longa, sono indissolubilmente legati ai frequentatori più assidui del suo salone, fra i quali l’avvocato Cedro, il professore Leta, il cavaliere Arturo Levante eroe di Sciara Sciat, don Felicino Tornabene, una vera e propria macchietta, il cavaliere Gugliuzza, l’avvocato Giannino Guzzio, il cavaliere Turrisi e tanti altri. Il cavaliere Peppino Turrisi, alacre imprenditore agrario, proprietario fra l’altro di Luogo Marchese, u lùocu, seguiva in prima persona tutti i lavori che si svolgevano nei suoi possedimenti, convinto com’era della validità del vecchio proverbio locale: ti vo nzignari a mpuviriri manna l’ùomini e un ci iri, equivalente del toscano “chi ha denaro da buttar via tenga l’opre e non vi stia” (foto 9). Ben prima dell’alba, radunati i numerosi contadini, si mettevano in cammino alla volta dû lùocu, dove arrivavano che non era ancora giorno. Ciò era possibile, sulla base di quello che si diceva allora, grazie ad un accordo segreto, ma non tanto, che il cavaliere Turrisi da sempre aveva stipulato col sagrestano della matrice vecchia perché questi suonasse il tocco del pater noster (dû patrinnùosciu) prima del dovuto, a notte fonda.

 

Foto 9 - Luogo Marchese Il cavaliere Turrisi (al centro col cappotto) con una miriade di contadini all'antu

Foto 9 – Luogo Marchese Il cavaliere Turrisi (al centro col cappotto) con una miriade di contadini all’antu

 

La chiazza, si capisce, era piena di attività artigianali e commerciali, fra le quali anche qualche putìa i lùordu (foto 10). Questa denominazione non deve rimandare alle scarse condizioni igieniche del negozio ma, piuttosto, alla vendita dei prodotti a peso lordo. Più precisamente per putìa i lùordu si deve pensare a quello che più tardi sarebbe stato il negozio di generi alimentari. Uno di quelli che si trovavano nel Corso era gestito da una signora particolarmente bella e formosa, una specie di Silvana Mangano o di Marisa Allasio, per citare due indiscusse bellezze del cinema di allora. Giuseppina, supponiamo che si chiamasse così, sapeva di essere piacente e aveva perciò dovuto affinare i mezzi difensivi per parare le battute maliziose dei màsculi ai quali non doveva risultare proprio indifferente e che perciò spesso la stuzzicavano. Un giorno un avventore, ammirando la sua mercanzia ma alludendo chiaramente alla sua prosperosità, constatò: Giusuppì, certu ca bbaccalà comi u tua nuddru nn’avi nnô paisi. E lei al volo: Se, ma però di chissu vossìa un si nni mància!

 

 

Oggi sono assai di moda i nickname ma certamente meno di quanto un tempo non fossero i soprannomi, i nciùrii, ma con una differenza sostanziale: il nick name lo scegli tu, il soprannome te lo affibbiano gli altri e alcune nciùrie sono sopravvissute per diversi secoli. A volte i soprannomi erano veramente infamanti, a volte bonari, altre volte riflettevano aspetti del carattere, del fisico, oppure facevano riferimento al paese d’origine di quella determinata persona, altre volte ancora erano di difficilissima interpretazione. Alcune nciùrie erano strettamente personali, altre caratterizzavano l’intera genia. Certe persone sopportavano di buon grado la propria nciùria, altre si incazzavano terribilmente se qualcuno gli si rivolgeva in quel modo. Uno di questi era il merciaio Puccia con negozio proprio di fronte alla fontana grande, accanto al salone di mio nonno Nunziu Cipuddruni, il quale era inteso Testê riddru. Accadde che una bimba distinta entrò nella sua merceria e gli disse: – “Signor Testa di grillo, mi ha detto la mamma”… Il signor Puccia la troncò con queste precise parole: – cci dici a tto mà ca u riddru vulàu e si ivi a nfilari mmenz’i cosc’i so sùoru.

 

Foto 10 - Una putìa i lùordu (1950)

Foto 10 – Una putìa i lùordu (1950)

 

A pochi passi di distanza si trovava l’emporio con annessa profumeria del cavaliere Peppino Di Liberti, persona simpaticissima e per molti versi unica, del quale si ricordano le serate Paglieri organizzate nel salone della Nebrodese nel corso degli anni ’50 (foto 11). Da piccolissimo, del cavaliere Di Liberti mi colpivano le unghie smaltate di vari colori che usava a mo’ di campionario da mostrare alle clienti. Il cavaliere Di Liberti, invece, non si adombrava, se lo chiamavano Monzù. Monzù significa cuoco delle famiglie signorili, ma anche barbiere e non è noto se il suo soprannome fosse da riferire al primo o al secondo significato. A Castelbuono, però, armàrisi comi a Monzù significa agghindarsi e ingioiellarsi oltre misura perchè il padre di Di Liberti, ordinariamente, andava in giro pieno di anelli, bracciali e collane.

 

Foto 11 - Il cavaliere Di Liberti, in ginocchio, durante una delle serate Paglieri

Foto 11 – Il cavaliere Di Liberti, in ginocchio, durante una delle serate Paglieri

 

Il nostro cavaliere nel suo frequentatissimo negozio sfoggiava, di prammatica, un italiano e un savoir faire che gli conferivano un certo charme. Capitò più di una volta che, avendo qualche bella signora richiesto un reggiseno (allora si diceva reggipetto), lui intervenne prontamente dicendo alla moglie: – aspetta, lascia fare a me, ca ddrùocu sulu ia cci sàcciu mèttiri manu. E poi, compiacendosi di sé stesso, soleva dire: siddri a scola s’avissi studiatu l’amore ia avissi pigliatu deci nna tutti i materii.

 

Queste vicende si svolgevano attorno alla Fontana grande (foto 12), costruita su una fontanella preesistente fra il 1571 e il 1614 dai maestri lapicidi di Carrara e “caratterizzata da un fondale movimentato da nicchie, sculture, mascheroni e vasche nelle quali l’acqua zampilla per poi cadere nel sottostante abbeveratoio”. Dai quattro cannelli l’acqua un tempo sgorgava davvero abbondante. Quando, forse dopo i lavori di restauro, la portata cominciò a scarseggiare, fin quasi a sparire, ho sentito diversi vecchi ricordare i tempi in cui la gittata dell’acqua si spegneva in mezzo alla strada ben, oltre la vasca (foto 13).

 

Foto 12 - La fontana grande insolitamente vista dall'alto

Foto 12 – La fontana grande insolitamente vista dall’alto

 

foto 13      Il notevole getto d'acqua non è tale da fuoriuscire dalla vasca (1939)

foto 13 – Il notevole getto d’acqua non è tale da fuoriuscire dalla vasca (1939)

 

Col restauro della Fontana grande dei primi anni ’80 si è assistito a uno scempio da sempre taciuto da tutti. Come si sa, ai lati della vasca sono poste quattro metope sicuramente di epoca assai remota (foto 14). Nelle due metope più vicine alla vasca è stato asportato l’angolo basso (foto 15) per potervi alloggiare la cornice in pietra arenaria che chiude il bordo superiore della vasca. Scrive Francesco Minà Palumbo nell’Introduzione alla Storia naturale delle Madonie: “in questa fontana meritano attenzione una statua ignuda di una Venera con Cupido al fianco sinistro, situata nel centro; due bassi rilievi a’ lati della fonte, e nella parte superiore la statua di Andromeda anche ignuda con un ginocchio flesso, il volto rivoltato da un lato, che ben esprime il suo dolore, ed il suo spavento nella terribile posizione a cui fu esposta: i due mostri ch’erano ai lati furono distrutti”.

 

Foto 14 - Le metope integre prima del restauro (Foto Mazzola)

Foto 14 – Le metope integre prima del restauro (Foto Mazzola)

 

 

Foto 15 - Le metope dopo il restauro Foto Mazzola)

Foto 15 – Le metope dopo il restauro Foto Mazzola)

 

Quindi, in origine, accanto alla statua di Andromeda (che il popolo chiama a ninfa dâ Funtana ranni) (foto 16), erano state poste altre due statue raffiguranti due mostri. Essendo rimasta Andromeda lassù in perfetta solitudine, il popolo, da sempre avvezzo allo scherno, ha pensato che la ninfa potesse essere la fidanzata ideale dei giovani in cerca di una compagna e deve essere nato così il noto modo di dire si fici zzitu ccu a ninfa dâ funtana ranni. Vale a dire, in mancanza della fidanzata, al giovane maturo si accolla la ninfa in marmo della Fontana di Venere Ciprea.

Foto 16 - A ninfa dâ Funtana ranni

Foto 16 – A ninfa dâ Funtana ranni

Il cerchio narrativo, neppure tanto ideale, attorno alla Fontana grande si chiude con un posto che chi non ha avuto la fortuna di viverlo tende a mitizzarlo e chi, invece, lo ha frequentato lo conserva gelosamente fra i ricordi più cari. Non era un ristorante, né un’osteria, né una trattoria, né una taverna o forse era più di tutto questo messo insieme. Sarebbe più giusto dire che era, semplicemente, A Marturana. (foto 17) Il locale, che in origine funzionava da piccola osteria, era stato aperto chissà quando da Vincenzo Martorana. Mastro Vincenzo, un uomo dai folti baffoni, aveva un modo assai particolare di sgusciare le uova sode. Dopo averle passate sul tavolo per separare il guscio dalla parte interna ormai rappresa, staccava le due calotte alle estremità del guscio quindi tenendo l’uovo avvolto fra le dita e soffiando con forza in una estremità riusciva a fare uscire l’uovo dall’altra. Nel tempo, anche se continuava a funzionare da mescita di vino, il locale si caratterizzò sempre più per la cucina. Cucina naturalmente tradizionale ma di altissimo livello che avrebbe fatto epoca nelle guide Slow food e richiamato gente da ogni dove. Nnâ Marturana si potevano incontrare contemporaneamente professionisti, impiegati del Banco di Sicilia, agenti di commercio, operai, giovani, gente distinta e gente di vino. Tutti attratti dai formidabili piatti della signorina Ddomìnica (foto 18): dai semplici ceci in brodo, ai fagioli e legumi vari, al sugo di carne, alle polpette con le melanzane entrambe fritte e cotte al sugo, alla cotenna di maiale al sugo, agli zampetti di maiale in umido, ai peperoni, al bollito di carne, alla trippa sia bollita, a stricasali, sia â livitana.

 

Foto 17 L'ingresso dâ Marturana dietro la Fontana grande (Foto Mazzola)

Foto 17  – L’ingresso dâ Marturana dietro la Fontana grande (Foto Mazzola)

 

foto 18 La signorina Martorana (a destra) al lavoro (Foto Mazzola)

Foto 18 – La signorina Martorana (a destra) al lavoro (Foto Mazzola)

I segreti, almeno quelli riferibili, dell’alta qualità della cucina della signorina Ddomìnica risiedevano, per esempio, nel fatto che il sugo veniva preparato esclusivamente usando il concentrato di pomodoro, il brodo, il sugo e i legumi tutti venivano cucinati nelle pentole di terracotta e nella tannura a carbone, quindi la cottura avveniva in tempi estremamente lunghi. A dimostrazione del fatto che per riproporre una cucina tradizionale i tempi rapidi mal si conciliano con la qualità. Ma ciò che faceva la differenza era l’esigenza dell’assoluta qualità dei prodotti scelti. Ricordo molto volentieri questo episodio. Poco più che adolescenti, attratti come tanti altri dall’atmosfera del posto, cominciammo a frequentare a Marturana. Una sera le chiedemmo a ventri e lei ci promise che ce l’avrebbe fatta trovare due sere dopo. Quella sera mangiammo altre bontà. Vi ritornammo, come d’accordo, e già u cannarùozzu ci faceva nnicchi nnacchi ma la signorina Ddomìnica ci accolse dispiaciuta dicendo che la trippa, a suo avviso, non era di qualità soddisfacente e perciò non l’aveva comprata. Noi naturalmente rimanemmo e ci preparò dei piatti al livello della sua fama. Purtroppo, penso per tutti, di lì a poco la signorina Ddomìnica chiuse i battenti e a ventri â livitana dâ Marturana ci rimase nnê argi. Quando al ristorante mi rifilano qualche bidone, a distanza di oltre trent’anni, il mio pensiero corre alla signorina Martorana che antepose all’interesse di bottega la dignità della sua persona e della sua professione di provetta cuoca.

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