La prima radio a Castelbuono
Memoria fotografica – lo ripetiamo per quanti si fossero messi all’ascolto (a proposito di radio) solo ora – non è un giacimento fotografico ed è pure qualcosa di diverso dalle quattro fotografie rastrellate e sparpagliate a destra e a manca nel più totale disordine metodologico e di dati, ma anche di date. Memoria fotografica è un tentativo di studio – se non del tutto scientifico, certamente non empirico – condotto su fotografie di una certa epoca, con lo scopo di classificarle, di datarle, di capire il contesto dello scatto e di dare un nome ai volti che le animano, per farli riemergere dal gorgo muto dell’oblio, rendendole vivide. Impresa non sempre facile, questa, che diventa addirittura disperata via via che si analizzano immagini scattate in periodi sempre più distanti dai giorni nostri. Ma la sfida ci piace, ci motiva e ci affascina.
Oggi, presentiamo una sola fotografia. Una sola. Ma si tratta di una grande fotografia. Una fotografia molto bella, tecnicamente ben costruita ed eseguita, che cattura per quel suo magnetismo intrinseco.
E’ stata stampata su carta satinata in formato 13X18 cm e montata – come si usava allora – su cartoncino rigido formato artiste di 20X25 cm circa. Questo cartoncino, identico a quello utilizzato per tante altre foto note recanti il timbro del fotografo, permette di dedurre che lo scatto è opera della sapiente mano di Silvestre Zito, uno dei primi fotografi di Castelbuono, già attivo negli anni ’20, e sicuramente il primo ad avere curato a dovere messa a fuoco, esposizione, stampa, ma soprattutto la significatività delle inquadrature.
La nostra foto è costruita in maniera tale che il fulcro, quello che Roland Barthes avrebbe poi chiamato il punctus, risultasse la radio della Philips. Si tratta della 930 A, uno dei primi modelli prodotti dalla casa di Hannover, essendo stata commercializzata a partire dal 1931. Per il suo particolare design, fu subito soprannominata boîte à jambon, letteralmente buatta di prosciutto. A ben guardare, un soprannome molto più che aderente. L’involucro è tinto in palissandro, la base e i piedini sono in bachelite, così come il celebre logo della Philips, con le quattro stelle sulle onde. Naturalmente funzionava a valvole e riceveva sulle onde medie e lunghe.
Come è noto, di lì a qualche anno la febbre della radio avrebbe contagiato moltissimi e, a partire dal 1939, un po’ ovunque in Europa, la radio sarebbe stata mitizzata, soprattutto per le trasmissioni di Radio Londra che, a sera, anche qui in paese, facevano radunare gli antifascisti nelle case di uno di essi per ascoltare le novità politiche. Spesso si riunivano in casa Ventimiglia, ô chianâ matrici, o in casa dell’avvocato Gioacchino Failla, per capirci, sopra il Cycas, e non era raro che qualche persona di fiducia montasse di guardia attorno all’isolato per scoraggiare i diversi fascisti, soprattutto giovani zelanti, che solevano appostarsi, osservare e andare a denunziare.
Ma ritorniamo alla nostra foto. Essa è stata scattata all’interno della direzione didattica, alla Badia, allora ubicata nella stanza d’angolo a primo piano fra la rua Fera e lo slargo che sbocca verso piazza Parrocchia. L’ufficio del direttore, con le pareti ricoperte da elegante carta da parati, è ricco di elementi di arredo, i più evidenti dei quali sono: il ritratto della regina Elena del Montenegro, sopra la pendola, in basso, quello dell’idolo del momento, il calendario della Paravia, nota casa editrice di testi scolastici e, sopra, la riproduzione del dipinto di Raffaello Sanzio Disputa del Sacramento. All’altra estremità una libreria di faggio con le ante a motivi floreali, in chiaro stile liberty, che fa parte di una ricca e varia produzione di ebanisti locali di quegli anni, che conosco assai bene. Il quadro del procelloso mare rimanda immediatamente a un dipinto di Paolo Cicero, cognato del maestro Marco Speciale, ma non lo è. Se l’orologio a parete è prodigo di informazioni, compreso il fatto che il pendolo sta oscillando, il termometro a parete è refrattario a propalare notizie di sé. Solo acquisendo l’originale ad altissima risoluzione e adottando strategie da periti del photoshop, si riesce a capire, che la scala termometrica è Réaumur a sinistra e Celsius a destra e la temperatura della stanza è poco al di sopra di 12° C. Neanche tanto bassa per essere, come vedremo, inverno. In primo piano, sul tavolo, c’è un altro feticcio dell’epoca, sul quale non è il caso di perdere tempo.
Ciò che rende estremamente particolare questo scatto di Silvestre Zito è la strana coniugazione tra le parti in ombra e il gioco prodotto dalla luce che, entrando in direzioni perpendicolari dalle due finestre, incide sui corpi lateralmente e frontalmente. Ne è un esempio il viso in chiaroscuro (mentre il resto del corpo è vivamente illuminato) della maestra Michelina Cicero Velardi, la prima a destra con la borsetta sulle gambe, mentre, appena alla sua destra, la maestra Maria Mogavero, è quasi completamente immersa nel buio. Spostandoci ancora un po’ verso il centro della foto, la maestra Anita La Placa, come si dice da noi: un tempio, appare quasi diafana e non solo per i suoi occhi chiarissimi. La maestra La Placa, castelbuonese, ma di padre petralese, aveva sposato il maestro Alfredo Ippolito, che diresse il nostro corpo bandistico per lungo tempo, fin quasi all’arrivo del maestro Loreto Perrini nel 1958. Il maestro Alfredo, primogenito del maestro Vincenzo – autentica colonna della nostra musica fin dalla sua fondazione – quando cominciò a sostituire il padre all’organo della Madrice nuova, «era così piccolo che non arrivava con i piedi a premere la pedaliera dei bassi profondi; sicché si rese necessario sistemare una seconda pedaliera un po’ più alta e adatta per lui».
Fra i presenti, forse l’unico che non viene sfiorato dai bizzarri giochi di luce, in piedi accanto agli attaccapanni, è il sacerdote don Vincenzino Fiasconaro (1888-1968), rettore della chiesa di sant’Agostino, insegnante e vicedirettore della scuola, stimato pedagogista e autore in gioventù di una pubblicazione che raccoglie pensieri e riflessioni attorno a L’Emilio. Naturalmente quello di Rousseau e non già quello delle fotografie, perennemente di stanza Sopra il ponte.
Seduta davanti a don Vincenzino, con lo sguardo un po’ perso in un punto indefinito dello spazio (cosa, questa, che arricchisce ulteriormente l’atmosfera della fotografia), una maestra leggendaria, per essere stata la maestra di almeno la metà dei castelbuonesi nel periodo compreso fra il 1900 e il 1950, per essere stata didatticamente portentosa e non ultimo per avere vissuto 106 anni senza mai perdere un niente di vivacità intellettuale. Naturalmente stiamo parlando della maestra Bartolina – Lina – Capuana, ma per tutti qui in paese a maistra a Capuana. Sposò il maestro Domenico Bonafede, che fu anche sindaco nel non facile periodo compreso fra il 1944 e il 1946. Nel nuovo lavoro del professore Cancila “Castelbuono 700 anni”, in corso di avanzata redazione, si legge: Quando, si insediò il nuovo sindaco Filippo Bonomo, il sindaco uscente Bonafede cosi concluse il suo intervento all’intera assemblea consiliare: «Ora un consiglio, io vecchio più di tutti voi, posso e debbo darvi: in ogni questione che riguarda il miglioramento del nostro caro paese e il benessere dei cittadini, vi animi, al di sopra delle vostre diverse concezioni umane e politiche, il desiderio di trovare sempre un terreno d’intesa che superi i limiti delle personali predilezioni». Parole bellissime e nobili ma assai datate. Nel senso che difficilmente potrebbero rivolgersi a chi oggi, in via sant’Anna, occupa gli stessi posti.
Sprofondato nella sua poltroncina stile Thonet in paglia di Vienna, volgarmente detta di finocchino, è il direttore didattico, sacerdote Michele Pistorio (1875-1960), originario di Resuttano. Dopo avere preso parte alla grande guerra, nel 1924 fu nominato direttore didattico a Castelbuono, dove trascorse il resto della sua vita. Stimatissimo da tutti come direttore e come sacerdote, fu un benemerito concittadino. A seguito della soppressione dei beni ecclesiastici del 1866, il monastero benedettino dell’Annunziata era transitato da un privato all’altro finché i 2/3 dell’edificio giunsero al geometra Emanuele Martorana. Alla sua morte, gli eredi misero in vendita l’immobile che fu acquistato dal sacerdote Pistorio e donato alle suore delle Figlie della Croce. Per questo atto Castelbuono concesse al magnanimo sacerdote la cittadinanza onoraria.
Pur rischiando di divagare, non si può perdere l’occasione per ricordare che Emanuele Martorana, inteso Lisi, perciò popolarmente don Manieli Lisa, era un tipo smisuratamente alto al punto che le gambe raggiungevano quasi l’altezza della ringhiera del balcone. Era consuetudine giocando a tombola, allora e fino a non molto tempo fa, che l’uscita dell’undici venisse annunziato come i ammi i don Manieli Lisa.
Ritornando a monsignor Pistorio, la rivista che ha in mano permette di datare la fotografia con estrema precisione. Si tratta infatti del numero 49 del Radiocorriere, relativo alla settimana 5-12 dicembre 1931. Ora, se si tiene conto che in paese l’erogazione dell’energia elettrica per la pubblica illuminazione ebbe inizio il 3 ottobre 1926 e per l’uso domestico certamente dopo il 1927, si può inferire che la radio Philips, che sembra in posa anch’essa sulla scrivania (come si è detto, in commercio dal 1931), sia stata la prima radio ad essere sintonizzata ed ascoltata a Castelbuono.
In asse con la pendola, con lo sguardo rivolto verso la porta di ingresso, è la maestra Grazia Obole, anch’ella all’altezza di tanti suoi colleghi, insomma una che in fatto di ars docendi du fila si manciava puri iddra. Diversamente da qualche suo collega. L’aneddoto seguente mi è stato narrato con il sottile humour che gli è proprio, dal giornalista Mario Obole. Nei primi anni quaranta, lui e il futuro magistrato e senatore della Repubblica Silvio Coco, entrambi nipoti della maestra Obole, erano inseparabili compagni di scuola e non solo. Un giorno il loro maestro (di cui ovviamente non dirò il nome) formulò un problema che lasciò ai suoi alunni per casa. Nel primo pomeriggio i due erano già all’opera col problema ma non riuscivano a venirne a capo. Siccome erano tosti, riprovarono svariate volte ma l’esito fu sempre lo stesso. Sul tardi ebbero un lampo: «andiamo dalla zia per chiarimenti». La maestra Obole ebbe solo bisogno di dare una fugace occhiata al quaderno per concludere: «manca un dato». E scosse più volte la testa per dire ah, sì-sì, siamo a posto. I due non sapevano se essere risollevati per non doversi ritenere degli incapaci oppure inveire contro il maestro e la sua imperizia che gli aveva fatto perdere un intero pomeriggio. Andarono. Percorsero il tratto di via Turrisi dove abitava la zia, svicolarono da via Giordano, si immisero sul corso in direzione chiazza nnintra e, lupus in fabula, incocciarono il maestro al quale felicemente parteciparono, nel chiaro tentativo di metterlo in difficoltà: «signor maestro, forse le è sfuggito, ma nel problema mancava un dato». Ma il maestro li lasciò si sale rispondendo a tamburo battente: «no, no, io l’ho fatto apposta, per vedere se voi sareste stati in grado di accorgervene». Rimasero lì, impietriti, per un tempo incalcolabile senza riuscire a dire una sola parola.