Quando la reliquia di Sant’Anna rischiò di bruciare | di Orazio Cancila
Questo pezzo è stato scritto nel 2014 e pubblicato su le Madonie. Gli auspici del prof. Cancila sono andati a buon fine perché nel 2017 il prof. Angelo Ciolino ha ordinato il carteggio Levante Gallegra pubblicandolo nel volume Grande guerra piccolo paese.
L’8 febbraio 1917 nel castello di Castelbuono, allora ancora proprietà del barone Fraccia, si scatenò uno spaventoso incendio che rischiò di distruggere la cappella palatina e con essa l’urna contenente il teschio di Sant’Anna e il tesoro, frutto di donazioni plurisecolari dei castelbuonesi. Di esso non c’è stata tramandata alcuna notizia e ormai se ne è perso persino il ricordo. Al marito avvocato Francesco Gallegra, già segretario comunale di Castelbuono e allora sottotenente d’artiglieria a Bologna, in cura per una ferita di guerra, così lo raccontò la moglie donna Gisella Levante:
«Qui da ieri vi è un inferno, spavento per tutto il paese e più che spavento terrore; dalle 4 p. m. di ieri vi è un incendio al castello di S. Anna, tre pagliere in fiamme, a grande stento e coraggio si poterono uscire dalla cappella il teschio e il mezzo busto d’argento con tutti gli oggetti d’oro, i quadri, arredi sacri e altre cose di valore e tutto questo ieri sera i carabinieri e soldati portarono in consegna tutto alla Matrice nuova, fra le grida terrorizzante delle donne, i bambini, frastuono di campane al buio, perché il vento smorzava i ceri il povero tenente dei carabinieri con la sua pancia, che la folla lo spingeva a dritta e a manca, lui che aveva paura che col buio avrebbero rubati tutti quegli oggetti messi così a scompiglio, perciò correvano quei soldati con la vara e le casse, i quadri, come perseguitati.
«Fra tutte queste scene si volgeva l’occhio verso il castello e si vedevano dalle finestre uscire fiamme e fumo che pareva di un momento all’altro tutto dovesse diroccare. Figurati il fumo e la puzza della paglia giungeva fino a casa nostra [in via Garibaldi]. «Tuttora sono le tre, quasi ventiquattro ore, e non si potuto spegnere il fuoco a causa che le pompe d’incendio sono rotte e non si è pensato a telegrafare per altre pompe e pompieri e si permette distruggersi tanto valore. Disgraziato paese!!!!! [i latini avrebbero detto: “nihil novi sub sole”].
«Diceva Gontrano [Corrado Levante, cugino di donna Gisella] ch’era stato uno dei coraggiosi ad entrare nella cappella, che gli stucchi col calore infernale, perché dette pagliere erano al secondo piano immediatamente sotto la cappella, diceva che se ne vedeva spezzare qualche pezzo mentre loro a gran corsa raccoglievano tutto quanto potevano. Dicevano che avevano sceso tutto dai balconi, perché per le scale era impossibile il transito per il fumo soffocante e le fiamme; vedremo ciò che resterà».
La lettera fa parte di un corpus di circa 200-250 lettere, quasi tutte con la propria busta affrancata, che donna Gisella si è scambiate prima, nel 1907, con il fidanzato e poi, nel 1916-18, con il marito, aspirante ufficiale alla scuola d’artiglieria di Torino, ufficiale sul fronte italiano, convalescente a Bologna e infine ufficiale sul fronte francese. Ci sono anche lettere sparse degli anni successivi. Sono state messe a mia disposizione dai familiari e in particolare dall’amica e collega Rosanna Pirajno, nipote ex filia di donna Gisella, che ringrazio, ma temo di non avere più il tempo di occuparmene, anche se mi piacerebbe molto farlo. Potrebbero offrire lo spunto per un libro dal titolo Cronache castelbuonesi del primo Novecento, perché oltre alle vicende personali raccontano la storia dei personaggi del paese in un’età in cui il Bancarello non era stato ancora fondato. Ma intanto è necessario ordinarle e inventariarle, prima di pensare a un loro versamento in un pubblico archivio.
Non meno interessanti sono le lettere dal fronte: «Il mio pensiero – scrive il giorno di Natale del 1917 da Goito Francesco Gallegra alla moglie – è a voi, ma non rimpiango di trovarmi per il giorno più bello fra tutti: il Natale, tra il fango dello stradale in marcia con i miei uomini, che accompagno alle batterie loro assegnate, se i nostri sacrifici varranno a salvare l’Italia dal disonore e dalla rovina». Erano passati appena due mesi dalla disastrosa disfatta di Caporetto, alla quale da Vittorio Veneto Francesco accenna in un’altra commovente (almeno per me) lettera di quei giorni, che mi rammarico di non riuscire più a trovare confusa tra le altre: sgomento perché il “sacro suolo della patria” era stato calpestato dalle truppe straniere, egli era fiducioso che il valore dei soldati italiani alla fine sarebbe risultato vittorioso. Oggi è di moda fare i borbonici, sparare a zero contro l’unificazione italiana e contro i piemontesi chiamati conquistatori e colonizzatori, ma la verità è che i siciliani di quelle generazioni non si sentivano affatto colonizzati e non aspiravano a nessuna autonomia regionale, che sarebbe stato meglio se non ci fosse mai stata. Per loro la patria era l’Italia, non la Sicilia!
Donna Gisella era figlia di don Alessandro Levante, per tre volte sindaco benemerito di Castelbuono negli anni Ottanta-Novanta del Novecento e fratello del deputato Mario. I Levante erano allora la famiglia più potente del paese, ma i Gallegra sembrano in possesso di una maggiore disponibilità finanziaria e per di più strettamente imparentati con i Guerrieri e il barone Collotti, ossia con l’aristocrazia più antica. L’avvocato Francesco Gallegra era figlio di don Alessandro, a sua volta figlio di don Francesco, originario di Capizzi giunto a Castelbuono a metà Ottocento credo come titolare dell’ufficio postale. La madre Annetta era figlia di don Emanuele Gambaro, che era solito impiegare la sua grande liquidità nella concessione di crediti e mutui, che spesso portavano all’esproprio a suo favore dei beni su cui gravavano. La dote che don Alessandro Levante, padre di almeno nove figli, poteva offrire a Gisella non era ritenuta perciò adeguata dai genitori di Francesco, cosicché il fidanzamento fu più volte sul punto di rompersi. I due giovani, a giudicare dalle loro lettere, erano però fortemente innamorati: Francesco minacciò di partire per l’America e Gisella dichiarava contemporaneamente di essere pronta a seguirlo. L’intermediazione di amici valse ad ammorbidire le posizioni e alla fine il matrimonio fu celebrato.
L’importanza del carteggio è fuori discussione, non soltanto per la storia di Castelbuono, ma forse anche perché le lettere di Francesco ci aiutano a comprendere meglio gli stati d’animo dei soldati della grande guerra, l’unica forse veramente sentita dagli italiani di qualsiasi regione.
Orazio Cancila