La Villa Belvedere, I viscottê Sparacinu e u pappaaddr’i Culotta
La Villa Belvedere (foto 1), residenza alternativa dei signori Ventimiglia, con il suo giardino, un paradiso di delizie, in cui facevano bella vista statue, aiuole, fontane e zampilli, orologi ad acqua (foto 2) dovette essere nel ‘600 un mirabile esempio di giardino aristocratico.
Un viale uscente dalla villa correva lungo il fiume attraverso l’umbratile giardino dei cerasi (foto 3). Quando il fiume fu coperto e la scarpata compresa fra esso e la passeggiata del Belvedere recuperata ed edificata, le otto traverse sorte, ebbero una denominazione, dapprima popolare poi ufficiale, che riconduceva alle piante dell’antico giardino: via Viola, via Esperidi, via Camelie, via Cedro, via Ulivo, via Ciliegio. Fecero eccezione le due più lunghe: via Collotti e via Garibaldi.
La via Viola mantenne il suo antico nome fino al 1967 quando fu chiamata via Gioacchino Pupillo, per ricordare il sacerdote che formò diverse generazioni di giovani studenti castelbuonesi che si avviavano agli studi medi e superiori. Don Iachinu, come tutti lo chiamavano, fu anche fra i fondatori e gli animatori dell’Istituto parificato sant’Anna (foto 4).
Parallela a via Viola è la via Esperidi che fortunatamente ha mantenuto la sua originaria denominazione la quale, però, ha dato luogo a un secolare equivoco. Si crede, infatti, che tale nome sia da ricondurre al giardino mitologico delle Esperidi dove cresceva l’albero dei pomi d’oro. Lo stesso Antonio Mogavero Fina, nello stradario di Castelbuono, fa risalire tale denominazione a ‘giardino fiorito’, in riferimento alla Villa Belvedere. La denominazione esatta, però, non è via delle Espèridi ma via degli Esperìdi, come si legge sulla targa di maiolica. L’esperidio è un tipo di frutto, simile alla bacca, tipico degli agrumi e ciò in ragione del viridario di aranci che sorgeva in quei pressi, come documentato da Orazio Cancila nel suo ultimo lavoro in corso di stampa.
La terza traversa a scìnniri si chiamò via Camelie fino alla fine della prima guerra mondiale allorché fu intitolata al sergente Mariano Carollo (foto 5), caduto in guerra. In un locale di questa via, per lungo tempo, si effettuò la vendita di carne di basso macello che uno spazzino comunale, sbatacchiando una campana così andava bandendo (ittava u bbannu) per le vie del paese: cu a ppigliari carni a bassi macelli in via sergenti Marianu Carolli. In tempi più recenti l’annuncio fu ingentilito dalla voce amplificata di Momò, prima, e di Emilio Minutella dopo. Quest’ultimo, soleva declamare tra il serio e il faceto: “si vende carne di basso macello in via sergente Mariano Carollo, in via sergente Mariano Carollo si vende carne di basso macello”.
L’attuale via Gugliuzza, fra tutte, è quella che presenta maggiori stratificazioni onomastiche avendo conosciuto anche il nome di via Cedro e via Mercanti.
Il primo, se vogliamo, è una ripetizione di via degli Esperidi, essendo il cedro un esperidio, come l’arancia, il limone e il bergamotto. Il secondo è da riferirsi ai fratelli Giuseppe e Paolo Mercanti, antenati dei Gugliuzza, che abitarono il palazzo nobiliare che sorge in questa via (foto 6).
I fratelli Mercanti, nati alla fine del ‘700, furono due naturalisti che, riferisce Francesco Minà Palumbo, raccolsero “molte piante delle Madonie, mandarono una collezione delle querce e sue varietà che vegetano nei boschi nebrodensi, al botanico barone Antonino Bivona-Bernardi, raccolsero anche lepidotteri e coleotteri ma nulla portarono a compimento per l’immatura morte”. Non sappiamo quando essi morirono, ma nel 1824 – questo è documentato – erano soci della prestigiosa Accademia Gioenia di Catania.
Contrariamente a quanto affermato da Minà Palumbo, Antonio Mogavero Fina sostiene che i Mercanti lasciarono delle pubblicazioni andate, però, perdute. Paolo Mercanti, legò il proprio nome alla scoperta in Sicilia dell’anfibio Proteus anguinis, ma la questione, già allora, lasciò perplessi molti naturalisti. Infatti, nel suo studio monografico attorno a “Rettili ed anfibi nebrodensi”, Francesco Minà Palumbo così si esprime: “il mio concittadino Paolo Mercanti disse di aver trovato questa specie interessante nelle Nebrodi, ed ebbe una onorificenza dall’Accademia di Mosca; io gli chiesi schiarimenti sulla forma dell’animale e non restai soddisfatto, visitai quel luogo [dove lo aveva trovato] ed è impossibile potervi vivere il proteo”.
Estintisi i Mercanti quella strada divenne per tutti a stratê Ugliuzza. Il capostipite Giuseppe Gugliuzza (1847-1925) fu notaio, sindaco e consigliere provinciale, il figlio Antonio fu sindaco e podestà di Castelbuono (foto 7) e Giuseppe, don Peppino, figlio di quest’ultimo, un facoltoso proprietario terriero e perciò acerrimo nemico dei comunisti. Io lo conobbi molto bene per via del suo intimo rapporto con mio nonno materno.
A vecchia, proprio come stamattina, ma nel 1964, mi portò un fucile che io ben presto gli esibii con molta spavalderia. Lui, sapendo della provata fede comunista dei Genchi, ogni volta che mi incontrava mi ripeteva scherzosamente: ssu fucili ti servi ppi sparari ê comunista? Però, pur nelle contrapposizioni politiche, c’era una grande forma di mutuo rispetto, soprattutto fra suo padre Antonio, a lungo podestà di Castelbuono, e mio nonno Sariddru Genchi, antifascista della prima ora.
Il cavaliere Peppino Gugliuzza, non era il tipo che andava tanto per il sottile. Transitando con la sua Lancia bianca nella strada in cui abitava, arrotò un numero incalcolabile di galline e tante volte mandò in pezzi i manufatti in legno che mastro Ciccio Sottile aveva appena incollato e steso ad asciugare in mezzo alla strada. Non scansava niente e nessuno, forte come doveva essere del motto mussoliniano “noi andremo sempre avanti”.
Nella via Gugliuzza, la figura di mastro Ciccio è legata indissolubilmente a un fatto accaduto durante l’invasione americana (foto 8).
Un giorno dell’estate del ’43, nella sua bottega di mastro d’ascia irruppero alcuni soldati. Mastro Ciccio in un angolo teneva due botti e gli americani, a quella vista, gliene indicarono una, facendogli intendere che volevano bere. Mastro Ciccio li servì. Bevvero a volontà, quindi additarono l’altra. Mastro Ciccio con ampie volute delle braccia e chiari segni di diniego cercò di spiegare che in quella non c’era del vino ma dell’aceto. Mastro Ciccio forse non si spiegò bene, gli americani – certamente già avvinazzati – capirono che voleva eludere la loro richiesta e lo obbligarono, non proprio con le buone, a prelevarne un boccale. Nell’atto di bere, essendo stati investiti dall’afrore dell’aceto, gli americani pensarono che mastro Ciccio li aveva voluto beffare per cui lo immobilizzarono e lo costrinsero con la forza a trangugiare quella cannata piena di aceto che era, come si dice a Castelbuono, comi u fìerru filatu. Al povero mastro Ciccio non gli si spezzarono le budella per intervento dell’autorità divina.
La via dell’Ulivo, la popolare stratô per’âlivi, alla fine della prima guerra mondiale venne intitolata al capitano Pietro Di Garbo (foto 9), decorato con due medaglie d’argento, e la via del Ciliegio negli anni ’30 fu dedicata al sindaco Antonio Spallino ucciso nel 1921 da un capraio assoldato da coloro che non avevano gradito le rigide restrizioni messe in atto dal sindaco per combattere il dilagante pascolo abusivo.
Visto il pascolo abusivo di macchine in tutte le piazze, strade e traversine di Castelbuono approviamo l’operato dei nostri sindaci che si sono guardati bene dall’affrontare il problema. Così, di loro tutto si può dire meno che non siano stati previdenti.
La via Collotti non ebbe, a differenza delle precedenti, un nome riconducibile a piante del giardino dei cerasi ma quello della famiglia dei baroni proprietari del bel palazzo che prospetta in questa strada (foto 10).
Uno di questi Collotti, che verso la fine dell’Ottocento avrebbe perso al gioco il settecentesco palazzo, è ricordato perché, per ostentare le sue possibilità economiche, soleva farsi avvoltolare la carne o il pesce in una cartamoneta da mille lire. Ma anche per il suo pappagallo al quale il cuoco Mimì, che lo accudiva, aveva insegnato a parlare. Poiché il barone risultava inviso al cuoco, Mimì tutti i giorni, preparando i pranzi, in presenza del pappagallo continuava a ripetere a voce alta: – bbaruni, oi si nni vua si mància chistu. O chistu o cazzu!
Un bel giorno, arrivata che fu l’ora del pranzo, il barone si affacciò in cucina e chiese: – Mimì cchi si mància oi? E il pappagallo: – bbaruni, o chistu o cazzu!
Tuttora, quando si vuol dire che non ci sono alternative si dice scherzosamente: o chistu o cazzu, dici u pappaddr’i Culotta.
La via Garibaldi, intitolata all’eroe dei due mondi, nell’Ottocento era popolarmente chiamata a stratô capitanu, per via dei due capitan d’arme della polizia borbonica, Tommaso Gambaro e il figlio Francesco (foto 11), che vi risiedevano.
Successivamente, nella stessa via fu impiantato un mulino a lavorazione industriale e quindi il primo forno non tradizionale, che venne detto furnu elettricu e la via Garibaldi divenne per tutti a stratô furn’elèttricu. In quel tempo la panificazione avveniva in casa e nei forni pubblici si rifornivano solamente gli artigiani e i commercianti i quali perciò vennero chiamati in segno di scherno, specialmente dai pastori e dai contadini, sciddri arsi vale a dire ascelle scottate. Ciò perché la forma di pane appena sfornata, si portava a casa imbracciandola. Il forno elettrico era fu impiantato dalla famiglia Sparacino e celebri furono i friabili biscotti che vi si producevano. Tanto è vero che, volendo minacciare uno, gli si diceva: ti stùoccu ntri, com’i viscottê Sparacinu, cioè perfettamente in tre parti, senza produrre briciole. I dolci di Natale, i cosi chini, però, ancora per lungo tempo, si continuarono a produrre in casa e per tenerli lontani dalla vista e dalla portata di grandi e piccoli si tenevano ben nascosti nnê cannisci di fibre vegetali. Arrivando parenti e amici per gli auguri, in giorni come oggi, si esordiva dicendo:
bbon capu d’annu e bbon capu di misi
i cosi chini nnacchi su mmisi?
E dunque chiudiamo augurando
bbon capu d’annu e bbon capu di misi
a tutti i casteddrabbunisi
a cchiddri cchi stani fora
e a cchiddri cchi stanô paisi.