L’autocritica pelosa | Brevi fatti e misfatti sull’autonomia differenziata e oltre
Tempo di lettura 7/9 minuti
(Di Francesco Di Garbo) – L’invito nella sua scarna formalità era urgente e perentorio, bisognava immediatamente riunirsi; convocava la direzione ristretta del Comitato Centrale in via straordinaria e seppure in piena estate tutti i membri erano obbligati a presiedere in aggiunta al convitato di pietra presente/assente.
La direzione si annunciava infuocata. C’era chi buttava benzina sul fuoco per mettere in difficoltà i dirigenti e trarne vantaggio. I piani politici non erano andati a buon fine su un tema capitale per il buon nome del partito. Qualcuno aveva remato contro, l’obiettivo non era stato raggiunto e ora si doveva accollare le responsabilità. Questo qualcuno dalla doppiezza facile prima aveva invogliato e ora nascondeva la mano, come l’allievo che prima carpisce i segreti al maestro e due minuti dopo li usa per fargli le scarpe.
La discussione verteva su diversi punti caldi all’o.d.g., ma ce n’era uno più caldo e gli altri si riallacciavano ad esso. Il punto era sulla linea politica del partito in merito alla proposta di legge sull’Autonomia Differenziata. Nello scenario politico ognuno tirava la coperta dalla sua parte e le forze centrifughe erano baldanzose e attrezzate per raggiungere l’intento. La maggioranza in parlamento avrebbe approvato la legge a mani basse grazie al do ut des di programma in cambio del premierato. La scusa che davano in pasto ai boccaloni era quella, come sempre, d’avvicinare le istituzioni ai cittadini. Nondimeno cavallo di battaglia da lungo tempo della Lega da sbandierare ai propri elettori.
Alla fine il succo sarebbe rimasto lo stesso di prima: i ricchi un po’ più ricchi, i poveri un più poveri. Panacee per quest’ultimi non ne esistevano. Il punto, o meglio il puntiglio da fisima di potere, era quello d’avere un po’ di potere in più, tanto per poter dire: “qui comando io, questa è casa mia, adesso sono Stato. Una volta non sono stato Stato, ero e fui stato ma non Stato. Infine non sarò più Stato unitario ma stato Arlecchino”. Ad Arlecchino la penisola vi rassomiglia in senso figurato e letterale.
Il C.C. doveva discutere sul tema, anche se il vero tema era l’accusa politica lanciata contro un esponente di spicco che s’era espresso favorevolmente per l’A.D. creando una faglia nella linea politica, nondimeno facendo da sponda ai leghisti. All’interno del C.C. s’erano creati due fronti (pro e contro) che si scornavano a muso duro, solo che adesso i rapporti di forza s’erano rovesciati e nel C.C. era prevalsa la linea sfavorevole all’A.D. e i pro rosicavano. Si puntava il dito contro il maggiorente favorevole, si balenava l’idea di un referendum abrogativo e si invocava ad alta voce l’autocritica.
D’origine marxista l’autocritica era un esame di coscienza in cui chi sbagliava, in buona fede o no, si auto-assumeva l’errore e faceva mea culpa sul danno causato. Nell’Unione Sovietica l’autocritica era degenerata diventando un obbligo e le confessioni venivano estorte con la tortura; (s)torture del totalitarismo. In sé l’autocritica è un esame critico in cui si prende atto degli errori commessi; se fatta in senso politicamente deontologico è una buona prassi per superare l’impasse ed andare avanti.
L’accusatore che fungeva da P.M. sciorinava i capi uno ad uno in disordine. Il punto focale era d’aver tradito l’unità nazionale quale principio cardine del partito; d’aver fatto di testa sua scavalcando l’organismo preposto; fatto comunella con i governatori leghisti asseverandone lo spacca Italia. D’aver guardato con miopia e per motivi prettamente territoriali la legge e senza lungimiranza aver avallato lo sfonda Italia. L’addebito di non aver letto “La questione meridionale” di A. Gramsci. In soldoni d’aver dato corda a chi aveva sgraffignato impropriamente lo zoccolo duro elettorale del partito.
Un caso patologico da studiare, provvedimenti da prendere. Un periodo di purgatorio è il minimo che si possa comminare dove rimettere le colpe e ripulirsi la coscienza. L’arringa finale fu spietata e il dito al petto puntava. “Autocritica, autocritica, autocritica”. Fecero eco gli astanti. Pure quelli che prima lo avevano appoggiato ora lo scaricavano.
Il dibattimento.
Per l’accusa scelsero un meridionalista incallito.
L’accusa: “Hai trafficato con gli avversari…”.
Difesa: “Non solo io, tutto il partito…”.
L’accusa: “Hai aderito all’A.D. allineandoti al Veneto e alla Lombardia con l’approvazione in Consiglio Regionale della delibera di procedere al negoziato col Governo”.
Difesa: “Il consiglio ha approvato e io facevo gli interessi della Regione”.
L’accusa: “Hai dato adito ad una procedura politica trasversale come se il partito tutto fosse d’accordo. È stata mera inopportuna improntitudine”.
Difesa: “L’avevo promesso in campagna elettorale e non potevo tirarmi indietro”.
L’accusa: “Però il partito non s’era pronunciato”.
Difesa: “Pensavo di vincere le primarie…”.
L’accusa: “Ma le hai perse…”.
Difesa: “Io ci credo nell’A.D. Arrivano più soldi da maneggiare, più sviluppo, si avvicinano i cittadini alle istituzioni…”.
L’accusa: “E quelli del Sud? Li lasciamo al loro destino? Abbiamo una buona fetta di elettorato al Sud. La mission di riprenderci i voti che sono andati ai 5 stelle. Non credi?”.
Difesa: “Non si può lasciare il pallino in mano a Salvini. L’A.D. è un tema molto sentito in Emilia Romagna”.
L’accusa: “Veniamo da una tradizione di unità e solidarietà nazionale. Noi non siamo divisivi, non possiamo rinnegare al vento le nostre radici”.
Difesa: “Però gli accordi per il negoziato tra Governo e Regioni li ha firmati il Gentiloni. Esecutivo nostro, in scadenza per giunta. Io mi sono solo adeguato”.
L’accusa: “Hai fatto da sponda trasversale e adesso i leghisti possono dire che anche noi siamo per l’A.D. Cosa che non sta né in cielo né in terra”.
Autocritica, autocritica, autocritica. Si levava il grido dal parterre.
Difesa: “Vorrei ricordare a tutti questi candidi verginei puri e immacolati che la riforma del Titolo V della costituzione che ha concesso ampi poteri autonomistici alle regioni è stata legiferata da noi; il Governo Amato nel 2001. Anch’esso a fine legislatura per dare il contentino alla Lega. E per giunta poi abbiamo perso le elezioni se vi ricordate. È da lì che i buoi del regionalismo autonomistico sono scappati. Quindi l’autocritica la deve fare tutto il partito non solo io se vogliamo essere corretti. Mi sembra uno scaricabarile inaccettabile!”.
Interviene la segretaria di corte: “Comunque adesso bisogna pensare a come risolvere la cosa nel migliore dei modi. Il partito ha già deciso di indire un referendum abrogativo non appena il Parlamento approverà la legge. È questione di giorni. Il quesito è già pronto e tutte le altre forze del campo largo sono d’accordo. Essi lo farebbero lo stesso e non possiamo lasciare mano libera agli altri e starcene a guardare, perderemmo consenso. Ci dobbiamo schierare. La mia proposta è che ti dimetti da Presidente della Regione, ti candidiamo per le europee, te ne vai a Bruxelles a dare una grossa mano lì e rimani sempre Presidente del partito. Così salviamo capra e cavoli. Soluzione pensata, ragionata e concordata per allineare il partito alla coerenza politica, che negli ultimi anni la coerenza ha lasciato molto a desiderare tra le nostre file. Il regionalismo screanzato va contro la democrazia, contro l’uguaglianza. Non è così che si avvicinano le istituzioni ai cittadini”. Concluse la segretaria.
Nel dehor, sotto il pergolato di glicine coi fiori viola a grappoli che pendevano tipo uva da tavola pugliese coi chicchi grossi come noci, pasteggiavano. L’aria fresca frizzava nel cielo terso degli appennini reggiani, piacevole e rassicurante invogliava il pasteggio. A tavola aringa e arrosticini di pesce innaffiati da bianco Famoso non fumoso. L’ormai ex Presidente si confessava col suo mentore di lunga data sulla nuova posizione politica e le prossime mosse. “La politica è una variabile indipendente aleatoria. Cambia velocemente di punto in bianco, dal nero al rosso come la pallina della roulette, e non sempre si riesce ad essere preveggenti: pari o dispari e sei fottuto!”. Disse il (ex) Presidente dopo aver schiarito la gola con un sorso di vino raggelato. Il mentore lo guardava sottecchi scrutando sentimenti latenti nei reconditi recessi dell’uomo, non imperscrutabili per lui che lo conosceva a menadito.
“Allora com’è finita l’autocritica?”. Chiese immaginando la risposta. Il (ex) Presidente si raspò la pelata e lisciò il viso con fare dinoccolato attediato, indi rispose: “Niente, come vuoi che finisse. A tarallucci e vino. In Osterio Magno al Pincio”. Deglutì il boccone d’aringa, si schiarì col Famoso raggelato e proseguì: “Il resto è risaputo. In quattro e quattr’otto raccolsero una marea di firme, 2 milioni o più. Tutto il campo largo e oltre contribuì al successone dando una mazzata al governo, come nel 2006 con la Devolution. Però il referendum più importante, se non tanto quanto, quello sulla legge elettorale, famigerato Rosatellum, lo boicottarono alla grande. Dell’astensionismo, della disaffezione e non partecipazione dei cittadini alla vita politica non gliene fregò una bella minchia a nessuno e il comitato promotore rimase isolato”. Disse il (ex) Presidente tonitruante verso i nuovi maggiorenti del partito.
Niente di nuovo sotto il sole. Il mentore non se l’era bevuta quel cambio di guardia senza discontinuità di linea, a barcamenarsi in equilibrio tra il nero capitalismo e una rosella facciata di socialismo: neoliberismo di sinistra. “Troppa democrazia fa male al capitale” dicevano i Chicago boys. E presero provvedimenti per ridurre la partecipazione alla vita politica ed impedire ai giovani, ai cittadini d’essere protagonisti del proprio futuro: destra e sinistra all’unisono. E allora che farsene d’una legge elettorale democratica: “io voglio scegliere”. Se tu non scegli un bel nulla allora che ci vai a fare nella cabina elettorale? Ci hanno tolto pure il potere di scegliere, alla faccia del pluralismo e della volontà degli elettori: tutto si decide nelle camere oscure delle segreterie di partito.
Troppa democrazia fa venire i grilli in testa ai cittadini: diritti, rivendicazioni, salario, ecologia etc. etc. Allora viene fuori il fascista che è in te: “credere, obbedire, combattere”. Solo doveri, schiavitù volontaria: niente tempo libero e nemmeno salari giusti. Disciplina e assoggettamento. Se non si comprende che il tema della democrazia, della partecipazione, aldilà di coloro che appartengono ai partiti e alle associazioni, dell’essere protagonisti è vitale per una società giusta. Quando si presume che i temi economici siano più importanti di quelli democratici allora la politica ha fallito la sua missione principale: cioè di governo del popolo e non sul popolo affinché il potere sia nelle mani del popolo e non sul popolo.
Il potere (Stato – Governo) è da sempre riottoso a voler coinvolgere i cittadini, le masse, nella partecipazione alla vita politica. Esempio eloquente è stato “il bilancio partecipativo” di Porto Alegre, di cui dopo tanto parlare se n’è persa traccia relegata nel dimenticatoio. Al potere fa comodo che i cittadini non s’immischino negli affari di Governo giusto per avere le mani libere e fare come gli pare. Se l’opposizione gli fa il pelo e il contropelo allora viene additata come rompiballe. Col declino della democrazia nella gestione della cosa pubblica vige la logica da affiliazione clanica: dominio dei clan. Spartizione clanica dei benefici mentre i dubbi li lasciavano tutti a carico dei cittadini. Perdipiù esaminando i dati dell’astensione avevano la faccia tosta di dire che la democrazia è in declino, due secondi dopo se ne lavavano le mani. Lasciavano rotolare la valanga e chi ci rimane sotto cazzi suoi.
“Cari signori se le cose stanno così siamo messi proprio male e si va in peggio: “un si vidi lusci!”. La qualità della vita non dipende solo e soltanto dai soldi; i soldi non possono comprare tutto!”. Esclamò tra di sé.
Il mentore lo capiva ma non lo diceva. Ormai vecchio e malandato s’era rinchiuso a riccio nella sua dacia sull’appennino. “Cosa vuoi che cambi con questa sinistra malata di capitalismo”. Si chiedeva senza esternarlo al (ex) Presidente, e sogghignava sull’inimmaginabile superfetazione del nonsenso.