L’avifauna sfrattata e la flora sfregiata. Racconto di Francesco Di Garbo

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(Di Francesco Di Garbo) – Da bambina curiosa e vivace per Joan era un sublime giubilare quando dall’orologio a muro il cuculo a molla saettava dallo speco e intonava il suo bel “cucù, cucù, cucù” tante volte quante le ore scoccate. E lei guardava a bocca aperta in fremente attesa il pendolo oscillare silenziosamente in un continuo andirivieni spettrale e si rodeva dall’impazienza all’ora di sentire l’uccellino schizzare fuori come per miracolo e fare cucù.

Tempi andati.

Adesso Joan trepidava dal nervoso andante col trolley infiocchettato da più di cinque giorni e il biglietto d’aereo flessibile prossimo alla scadenza. Era pronta a partire però doveva rimandare a causa del maltempo imperterrito e tediosissimo che la costringeva a girarsi i pollici impermalita. Se ci si fissa sul tempo quando un intoppo peregrino impedisce d’agire come si vorrebbe tanto in fretta quanto d’andare oltre la contingente inerzia è una tremenda iattura da rosicarsi le mani.

“Cucù, cucù, cucù, un’altra ora non c’è più”. Ineluttabile scorreva lo scorsoio del tempo.

Joan guardava le previsioni e il Mediterraneo era attraversato da una perturbazione iemale con piogge scroscianti e gelo continentale. Eppure era Aprile inoltrato. Per ottimizzare il tempo Joan seguiva in smart le vicende giornalistiche di GossFeed (gossip e parolacce) infotrash decente, ammodo, di moda che dirigeva. Sporadicamente faceva un salto in redazione, distante due isolati, giusto per lagnarsi del tempo coi colleghi e cercare conforto.

Si affacciava alla finestra del ventiduesimo piano e il sole splendeva a meraviglia sotto una primavera in anticipo radiosa dalla sintomatica infiorescenza. E biascicava Santi e Madonne quando si connetteva con la sua guida birdwatching di Palermo che in video le mostrava la pioggia battente e le temperature invernali quasi alla terza decade d’aprile. Guardava costernata gli alberi decidui con i germogli raggrinziti dalle gelate e i mandorli sfioriti.

“Lì che doveva essere primavera mite e temperata faceva freddo, qui invece fa caldo: un mondo al contrario”. Si diceva tumefatta e contrita. “A ragione i migratori ritardano la trasvolata”. Pensava.

Aveva organizzato con millimetrica cura in tutti i dettagli la spedizione sicula facendo i salti mortali per incastrare gli impegni di lavoro e familiari in modo tale che non si sentisse la sua mancanza. L’anno scorso nelle isole era filato tutto liscio: a Creta, Malta e Pantelleria, dove con gran tripudio aveva osservato il ripasso pre-nuziale degli uccelli migratori verso la nidificazione. Quegli sciami, gli stormi in volo con le loro figure acrobatiche l’avevano estasiata, gli appostamenti tutti indovinati, riusciti. Quest’anno aveva programmato l’interno della Sicilia, Vendicari, il Gorgo di Montallegro, Scilla e Cariddi, Nebrodi e Madonie del Nord; in particolare tra Cefalù e Santo Stefano. Un bel popò di roba senza dover correre. Si sfregava le mani per la contentezza che presto si tramutò in orrida mestizia.

Joan era armata di tutto punto con equipaggiamento completo e abbondante da provetta birdwatching. Un binocolo a lunga gittata con lenti Leica accessoriato con filtri infrarossi amovibili. Gilet felpato di Lama andina aderente e giacca a vento incerata Pfasless con tasche profonde. Zainetto tattico multitask per borracce e razione k italiana bioenergetica, rancio freddo concentrato ipocalorico. Pantaloni bodysetting da marine per sottoboschi infrascati e aggrovigliati. Stivali anfibi da cavallerizza a tacco basso. Aveva speso una cifra ma n’era valsa la pena. Il primo anno europeo aveva visto Fenicotteri, Colombacci, Tordi, Anatre ecc. Uno spettacolo a cielo aperto! Quest’anno il programma prevedeva l’Upupa nissena, il Cuculo madonita, la Ghiandaia marina nebrodense, il torcicollo e le rondini.

Nonostante ciò le ultime notizie da Palermo davano meteo in peggioramento, in Sicilia non sapevano più cosa farsene dell’acqua, (i vattala infradiciavano i terreni e le colture; poltiglia ovunque tipo mojazza padana, biscotti inzuppati nel caffellatte) Joan l’indomani mattina all’alba partì lo stesso inquantoché il biglietto scadeva la mezzanotte successiva. Fece scalo a Roma e in tarda serata arrivò a Palermo.

Nel frattempo ai margini della foresta tropicale, ai confini col deserto del Sahara, in quell’ultimo lembo di verde lussureggiante stormi di uccelli migratori erano in procinto del ripasso verso casa per la covata e la nidiata prole riproduttiva ad-venire. Avevano già pronti da parecchi giorni armi e bagagli e non vedevano l’ora di accingersi all’impresa infaticabile di spiccare il volo. Volare alto, dove l’uomo non è capace di ardire col pensiero politico rimanendo basso. Come ogni anno, due volte all’anno senza prenotazione o biglietto prepagato, la trasvolata del Mediterraneo era un “must” da compiere a becco chiuso. Tuttavia i nugoli di uccelli appostati-posati ai margini del Sahara non si decidevano a partire. Un’incomparabile smania intrisa d’adrenalina li avviluppava, erano in forte ritardo di un paio di settimane e l’attesa si faceva spasmodica. Li tratteneva il freddo invernale che si protraeva aldilà del mare, quest’anno la primavera ritardava ad arrivare e anche loro tardavano a partire. Pioggia e freddo imperversavano in Sicilia e oltre, mentre la neve sulle Alpi rendeva impossibile l’attraversamento della catena.

Tutte le specie di uccelli avevano avuto sentore da tempo dei cambiamenti climatici e preconizzavano tempi duri, ma loro pazienti e indefessi accettavano l’amor fati così come viene stoicamente. Già l’anno scorso, fu un’estate torrida che non finiva mai fino a metà novembre San Martino e ‘u zzuzzù compreso; quindi s’erano preparati all’evenienza di un probabile ritardo della prossima primavera. Imperciocché avevano capito al volo che il dare e l’avere non era a somma zero, vinceva sempre più lo storto che il dritto nell’equazione climatica. Infatti erano partiti per l’Africa a cavallo del venti novembre con flemmatico battito d’ali.

“Un ci spercia proprio auanno a irisinni o’ cauri acieddi. A ccu’ aspiettini sapiddi”. Diceva l’anziano Tizio reumatico e catarroso seduto in panca al Caio, vedendo le rondini svolazzare nervosamente, e l’amico coetaneo, specularmente acciaccato come lui, rispose: “Ppi forza cu’ caviri chi c’è comi fanni a irisinni”. Chiosando con tono ben accorto.

Subito appena sbarcata Joan sollecitò Nella d’andare nel Gorgo di Montallegro, tra Ribera e Agrigento, per capire sul posto com’era la situazione. Date le condizioni meteo Nella cercò di dissuaderla dicendo che i suoi colleghi del posto non avevano ancora notato segni di migratori e suggerì una visita alla città. Joan fu irremovibile e già durante il trasbordo dall’aeroporto a Palermo aveva incominciato a cercare nello smartphone come raggiungere Montallegro. Nella corrucciata insistette: “Guarda che anche i colleghi di Vendicari, l’oasi migratoria più vicina all’Africa m’hanno riferito che neanche lì si son visti uccelli. È meglio aspettare qualche giorno prima di muoversi”. Suggerì dispiaciuta. Era notte e col buio il paesaggio non si poteva osservare, allora Joan persistette a studiare il percorso. Palermo-Montallegro: 125 Km durata in macchina 1 ora e 44 minuti, ad una media di meno 70 Kmh. Poca autostrada, poi solo SS. Agibilità delle strade scarsa, frane e fossi, tortuose con dossi e cunette a iosa. “Questa è la bella Sicilia!”. Pensò a voce alta, e imprecò “Shit!”. Da qualche parte aveva letto lo slogan <<Bella Sicilia>> e pur prendendolo con le pinze, non avrebbe mai e poi mai immaginato qualcosa di simile. Nondimeno dando una scorsa veloce alle comunicazioni stradali dell’isola si rese al volo conto che la situazione era molto deprimente. Ci misero più di 2 ore per via delle sconnessioni e dei restringimenti. Andava un po’ meglio il ritorno da Montallegro a Cefalù: 182 Km durata 2 ore e 20 minuti, alla media di 80 Kmh, anche qui ci misero di più per via della SS 640 piuttosto accidentata. “Solo in elicottero si ci si dovrebbe spostare qui in Sicilia”. Disse Joan con forte sarcasmo. “Comunque sia andiamo lo stesso così ci troviamo sul posto che da un momento all’altro i migratori devono arrivare”. Aggiunse con tono risoluto. Le scarne notizie che Joan aveva reperito sul Gorgo erano allettanti.

Infatti dal sito Lipu aveva tirato giù: “Il Laghetto Gorgo è un importante luogo di sosta e di nidificazione per numerosi tipi di uccelli: dai migratori ai palmipedi, dai trampolieri ai passeriformi come l’usignolo di fiume; vi si possono avvistare in qualunque periodo dell’anno cormorani, folaghe, svassi, aironi cenerini, fenicotteri, moriglioni e morette e, qualche volta, il raro airone rosso. Lungo le sue rive è facile osservare la rara tartaruga palustre europea”. E la chiusa recitava: “L’oasi è meta di appassionati naturalisti e soprattutto degli amanti di birdwatching. La cosa l’attizzava un fottio.

Intanto ai margini del deserto gli uccelli fibrillavano per partire. Gli ultimi preparativi erano stati allestiti, il passaparola fischiettante era stato notificato a tutti e zampettavano nervosi pronti a spiccare il volo in formazione geometrica ogni specie con la sua peculiarità. Il fotoperiodismo, la durata della luce del giorno, incalzava il ripasso pre-nuziale del mare. Altrimenti si rischiava di perdere l’orientamento e non trovare posto dove nidificare, e deporre le uova con ritardo sarebbe stato un guaio. Non si poteva più aspettare se no la nuova nidiata poteva non essere pronta per la trasmigrazione del passo autunnale in Africa a svernare. D’altro canto il rischio era di trovare gli alberi ancora spogli e poca roba con cui nutrirsi. Ma non potevano più tergiversare cosicché il volo spiccarono.

“Arrivano, arrivano…”. Disse Nella giubilante con gaudio sprizzante dai pori e gli occhi sgranati fuori dalle orbite che luccicavano lacrime di gioia. “M’è arrivato un messaggio che le prime avanguardie sono giunte nel primo pomeriggio a Vendicari. Prima del crepuscolo saranno anche qua, appostiamoci per dar loro il benvenuto”. E si accinsero a raggiungere i posatoi e mimetizzarsi per non disturbare l’atterraggio e la spossatezza della trasvolata. Così Joan si godette lo spettacolo degli uccelli che stremati si posavano nel Gorgo di Montallegro.

Da bambina Joan era estasiata dell’orologio a pendolo con cucù che si trovava nel salotto dei nonni e cantava ogni quarto d’ora. Gli servì per imparare a contare. Ai genitori aveva chiesto di metterne uno a casa loro, ma suo padre fu irremovibile dal comprarlo, per chetarla prese una pendola senza cuculo dicendo che il cucù gli dava fastidio alle orecchie. Joan non pianse, non frignò, non si lamentò, quando ebbe un attico tutto suo se ne comprò uno d’ebano inciso e intarsiato con putti e serpenti. Joan aveva un grosso rimpianto quello di sentire dal vivo il verso del cuculo, lo bramava ardentemente.

Dopo il Gorgo il programma prevedeva il cuculo madonita, quindi partirono alla ricerca. Lungo il lembo di costa tirrenica da Cefalù a Finale di Pollina conclusero un bel nulla. Nella aveva saputo che a Castelbuono e dintorni il cuculo madonita è di casa, quindi inforcarono il bivio della SS 286.

“Quando canta il cucco si dorme dappertutto”. Dice il vecchio detto popolare. Il cuculo canta di notte quando i contadini erano già coricati da un pezzo, e se lo sentivano si addormentavano subito che s’era fatto tardi. Si fermarono al bivio di Pollina e con grande gaudio di Joan lo sentirono cantare tra i frassini, era buio e non lo videro, ma lo aspettarono ricantare. Felici sotto il manto di stelle proseguirono. C’è un viale alberato all’entrata del paese a ridosso del Castello dove nidificano capinere, scriccioli, marvizzi etc. Tutti uccelli che i cuculi parassitano per far covare il loro singolo uovo riproduttivo col sistema del mimetismo, essendo l’uovo identico in forma e colore a quelli degli uccelli succitati. Il cuculo madonita ha la peculiarità di monitorare la covata degli uccelli che parassita per vedere se va a buon fine. L’indomani, quindi, di buon mattino Joan e Nella andarono dietro il castello laddove tra le chiome dei frassini i passeriformi nidificano.  Quando arrivarono furono colte, da una pugnalata alle spalle a tradimento, una bruttissima sorpresa: gli alberi erano tutti capitozzati. Sembravano spaventapasseri defunti, sezionati decollati a cui era stata recisa la fotosintesi clorofilliana, la linfa vitale. “Guarda che taglio!” esclamarono incredule. “Brutale, esiziale, innaturale…”. E  sbalordite a bocca aperta restarono. “Che modi di fare? Capitozzare i poveri alberi! ridurli così! Mozzati dalla vita, decollati dal capo, capi-tozzati”. Restava loro un tozzo di tronco informe scapezzato dalla chioma come un uccello implume. Le due amiche incredule strabuzzarono all’unisono gli occhi sbigottite e si specchiarono arrossate una nell’altra strabiliate e avvilite. Un enorme stupore disturbato e disfatto le arruffò, un forte disappunto stupefatto e strafatto stile Medusa le pietrificò. Dopo un po’ ancora basite si diedero un pizzicotto per spegnere l’interruttore dell’elettroshock subito. Un secondo pizzicotto le fece rinsavire dalla discrepanza tra ciò che percepivano e ciò che nella realtà non avrebbero voluto mai e poi mai vedere.

“Eppure la legge vieta di scapitozzare gli alberi se non per extrema ratio: cioè il punto del non ritorno dell’intelligenza umana”. Sostenne Nella, legge alla mano in tablet. E aggiunse: “Roba da denuncia!”. Impetrò Nella con tono reciso. “No, roba da galera!”. Sentenziò Joan con tono categorico, aggiungendo “Che cazzo di lavoro alla carlona. Ma come si può? Non c’è più che vedere!”

Gli uccelli non trovando i soliti posti dove nidificare erano migrati altrove. “Chissà dove?” Chiese Joan disfatta a Nella. “Saranno nei paraggi, basta cercarli”. Rispose Nella.

Avevano preso un B&b per alloggio. La sera sudate stanche avvinte dallo sconforto per la ricerca infruttuosa nei paraggi andarono leste per la doccia. Nella che fu la seconda rimase tutta insaponata, le ultime gocce d’acqua rimbalzarono in testa e poi nulla. Joan fu costretta a buttarle addosso un paio di bottiglie d’acqua che il titolare aveva di scorta per sciacquarla alla meno peggio.

“Autoclave rotto”. Disse il portiere. “Inverno secco. Siamo appena ad aprile e già l’acqua corrente la danno a singhiozzo”. Aggiunse facendo spallucce e scaricando la colpa sugli amministratori: (avendoli votati il sapore era quello dello scaricabarile).

“Sicilia bella?!? Dov’è la bellezza? Cosa c’è di bello a scapitozzare gli alberi? Sicilia bella. Il Mongibello bello, il mare bello, il gorgo e l’oasi belli, ma solo il paesaggio è bello se non si deturpa. Poi, strade brutte, spiagge private, sanità privatizzata, acqua col contagocce. Di tutto ciò che riguarda l’opera dell’uomo non si salva nulla, eccetto qualche oasi. Che brutti amministratori avete! Mi sembrano dei parassiti di poltrone, tipo i cuculi che si beano a far covare le uova agli ingenui cittadini”. La tirata di Joan dovuta allo sdegno non faceva una piega, rivolta a grugno duro verso Nella. Nella allargò le braccia con le mani con le palma rivolte al cielo, in segno di strema resa. Fuori paese, via dal paese, gli uccelli furono costretti a sloggiare perché gli alberi scapitozzati sfregiarono la flora e danneggiarono l’avifauna che ci viveva in simbiosi. Se ne andarono pure le due birdwatching che lì non si buscava un soldo.

Un’insolita diffusione di processionaria quell’estate calda urticò con truce fervore i cittadini. Le farmacie vendevano a  sacchi prodotti disinfestanti ed emollienti antiprurito per lenire gli effetti della lanetta della processionaria che lo scirocco faceva vorticare nell’aria e causava eritemi e dermatiti agli infetti. Mancando i cuculi che si nutrono di questi insetti la processionaria prese piede oltre i limiti della decenza. La gente per evitare il contagio si sbarrava in casa con lockdown volontario.

Senza i cuculi a scandire il tempo d’altri tempi i poveri contadini avrebbero perso pure la cognizione del tempo degli interventi nelle coltivazioni.

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