Le origini castelbuonesi di Enzo Collotti, prestigioso storico della Germania nazista e della Resistenza | di Orazio Cancila

di Orazio Cancila

Di Enzo Collotti (1929–2021), professore emerito di Storia contemporanea nell’Università di Firenze, conoscevo soprattutto i volumi sulla Germania nazista e il grosso volume su L’amministrazione tedesca dell’Italia occupata edito nei primi anni Sessanta. Il cognome Collotti mi intrigava. Presente a Castelbuono sino ai primissimi decenni del Novecento, era scomparso con il trasferimento a Palermo del barone Antonio Collotti e la morte del figlio Salvatore nel 1934. In origine era Culotta, presente almeno dal Cinquecento non solo a Castelbuono, ma anche a Cefalù, Gratteri, Pollina, dove è tuttora presente. Soltanto a Castelbuono però Culotta si era trasformato in Collotti a fine Seicento, quando Francesco (nato Culotta e morto Collotti) cominciò a essere indicato come barone. E discendente dal barone Francesco perciò doveva essere quasi certamente Enzo Collotti, che ricordava nel nome l’avvocato Vincenzo Collotti – noto uomo politico molto vicino a Crispi, consigliere comunale di Palermo dal 1892 al 1897 e consigliere provinciale dal 1889 alla morte nel 1910, al termine di un breve intervento nell’aula del Consiglio Provinciale – al quale Palermo ha dedicato meritatamente una strada nella zona di Mondello, al cui risanamento come assessore ai lavori pubblici nel 1907-08 egli aveva molto contribuito. Era infatti suo nonno, nato a Castelbuono nel 1853 dal barone Michelangelo Collotti Galbo.

Nei primi mesi del 2003 mi trovai a Firenze per una commissione di concorso universitario e gli ho chiesto se potevamo incontrarci. Mi invitò a casa sua: dall’ingresso era impossibile andare oltre senza fare ruotare sui cardini una libreria che faceva da porta verso lo studio, dove mi accolse. Libri dappertutto! Mi confermò che discendeva dai baroni Collotti e anche dai baroni Guerrieri: la nonna paterna, Giuseppa Maria Guerrieri, era infatti figlia del barone Francesco Guerrieri Failla (1831-1900), poeta e patriota, autore del proclama antiborbonico affisso a Castelbuono il 18 aprile 1860, in cui si inneggiava alla libertà – «anima dei popoli, arca santa di civiltà, primo e sacro dritto delle universe genti … scaturiggine d’ogni perfezione morale e civile» – e si invitava la popolazione a prepararsi alla lotta contro i Borbone. La vittoria garibaldina di Calatafimi (15 maggio) gli ispirò l’inno All’armi, All’armi.  Gli stretti rapporti con Garibaldi e l’impegno nella raccolta di armi e denaro per la conquista di Roma bloccata ad Aspromonte costarono al barone Guerrieri persecuzioni, processi e nel 1865 anche un mandato di arresto, dal quale si salvò con la fuga. Fu infatti accusato «di attentato avente per oggetto di suscitare la guerra civile fra gli abitanti dello Stato; distruggere l’attuale forma di governo, eccitare i cittadini ad armarsi contro i poteri dello Stato».

Barone Francesco Gerrieri

Enzo era stato a Castelbuono da bambino, mi pare nel 1938, e non vi era più ritornato, neppure quando era stato qualche volta in Sicilia. In occasione della presentazione della mia “Storia dell’Università di Palermo” (Laterza, 2006), gli organizzatori lo invitarono a Castelbuono insieme a Enrico Stumpo, la cui nonna paterna vi era nata: avrebbe rivisto i luoghi dove da metà Seicento erano vissuti i suoi antenati Collotti e dalla seconda metà del Cinquecento gli antenati Guerrieri, la famiglia della nonna paterna. Vi avrebbe trovato ancora qualche cugino. Non gli fu possibile.

Non ci siamo più rivisti, ma spessissimo ci siamo sentiti per telefono, soprattutto negli ultimi anni. Lavoravo ormai soltanto alla storia di Castelbuono e utilizzavo anche la parte residua dell’archivio Guerrieri che avevo acquistato da un discendente, assieme a una tela settecentesca alquanto rovinata con l’immagine del ciantro Francesco Guerrieri, a qualche breve lettera di Garibaldi al bisnonno barone Francesco Guerrieri e ad alcune sue poesie inedite. Enzo era molto interessato al racconto delle sue storie familiari, per lui del tutto sconosciute, anche perché il padre Francesco, nato a Palermo e vissuto altrove, ben poco forse sapeva per raccontargliele. Per lui ho costruito anche un lungo albero genealogico dei numerosi rami dei Collotti con rapide notazioni sui vari personaggi, che forse qualche giorno mi deciderò a pubblicare.

Il capostipite dei baroni Culotta Collotti, Francesco, era analfabeta e di umili natali. La madre Caterina nel suo rivelo del 1651 (la dichiarazione dei beni posseduti) dichiarava di essere impossidente e Francesco, al momento del matrimonio con Emilia nel 1662, non disponeva di beni di fortuna. L’ascesa si verificò improvvisamente nel corso degli anni Sessanta del Seicento, probabilmente verso la fine del decennio. In precedenza egli era pressoché sconosciuto dai notai, mentre invece risulta molto presente nei loro protocolli degli anni successivi, a dimostrazione di un improvviso mutamento della sua situazione finanziaria, le cui origini la tradizione locale individuava nel trafugamento di un tesoro nascosto da banditi. Per qualche anno lo troviamo impegnato nell’appalto dei dazi comunali e nella macellazione e, dagli anni Settanta alla morte nel 1708, nell’allevamento del bestiame su numerosi terreni in affitto (gabella) che gli consentì di realizzare un patrimonio ragguardevole e la possibilità di acquisire all’inizio del Settecento i titoli di barone per i due figli: Giuseppe barone di San Giovanni, acquistato per onze 800 dalla Regia Corte; Pietro barone di San Pietro. per donazione da parte di tale Piretta Plazzi.

Il nonno di Enzo, l’avv. Vincenzo Collotti Galbo (1853-1910), discendeva dal  barone Giuseppe. Nel 1879 aveva sposato a Castelbuono la cugina Giuseppa Maria Guerrieri (figlia del barone Francesco Guerrieri Failla), da cui nacque il prof. Francesco, che portò il nome del nonno materno e che sposò a Messina Elsa Natoli (sorella di Aldo Natoli), da cui il professore Enzo.

Tra i suoi ascendenti ci sono quindi anche i baroni Galbo (Di Garbo, in precedenza), il cui capostipite fu Nicolò Galbo, analfabeta, che il notaio qualificò come mastro in occasione della stipula dei capitoli matrimoniali tra la figlia Giovanna e il barone Gaetano Di Stefano l’8 ottobre 1796 e mastro era anche per il sacerdote che nel 1797 redasse l’atto di matrimonio religioso. Mastro Nicolò era però sicuramente persona di notevole capacità – come lo erano anche i suoi due fratelli sacerdoti Giovanni e Paolo. I fratelli ecclesiastici si erano intanto affermati molto bene a Messina: Giovanni, canonico e rettore del seminario vescovile, e Paolo, vicario foraneo e ciantro della Cattedrale. Tra Sette e Ottocento avevano acquistato a Castelbuono numerosi cespiti urbani e rurali, che mastro Nicolò amministrava con saggezza e che alla morte dei due sacerdoti passarono in eredita ai suoi numerosi figli.

Il matrimonio della figlia Giovanna con l’indebitatissimo barone Di Stefano era stato reso possibile dalla cospicua dote che i due zii sacerdoti avevano assicurato alla nipote. In particolare il canonico Giovanni era molto stimato nella città dello Stretto e non è un caso che proprio lui fosse incaricato dall’arcivescovo, dal capitolo della Cattedrale e anche dal Senato di Messina di opporsi a nome della citta, nel processo che nel 1808 si tenne presso il tribunale ecclesiastico di Palermo, contro lo smembramento dell’arcivescovato a favore della creazione del vescovato di Nicosia. Grazie alla influenza del fratello canonico, mastro Nicolò l’anno precedente 1807 era stato ascritto nella nobiltà di Messina con il titolo di barone di Montenero, una contrada delle campagne della vicina Pollina nella quale egli non doveva possedere più di qualche decina di ettari di terreno. Nel 1810, ormai barone, don Nicolò Galbo acquistò dal marchese di Geraci il feudo Difesa del Finale, sempre in territorio di Pollina. Il titolo di barone di Montenero passò al figlio Antonio, che gli zii avevano fatto studiare e laureare a Messina e che fu intendente della provincia di Trapani nel 1834-39 e poi di quella di Messina.

Tra i Guerrieri mi piace ricordare il medico Vincenzo, il quale, in occasione della peste di Palermo del 1624-25, ormai protomedico della citta, fece parte della commissione di medici e teologi nominata nel 1624 dal cardinale Giannettino Doria, arcivescovo di Palermo e presidente del Regno, per il riconoscimento delle ossa di Santa Rosalia: confermò che le ossa appartenevano a una donna di media statura, emanavano «un grato e soave odore» e, pietrificate com’erano, formavano una «massa di dura, ma lucida pietra, e quasi di amatisti, berilli e cristalli contesta, cosa mirabile e che procede da virtù superiore all’ordine della natura». E in occasione della guarigione dalla peste della quattordicenne Agata Morso dopo aver bevuto l’acqua di Santa Rosalia, testimoniò «essere stata per via naturale e miracolosa opera di Dio nostro signore, facta per honorare li sacri ossi della gloriosa serva sua, santa Rosolea».

Nelle conversazioni telefoniche con Enzo ero quasi sempre io a parlare, in risposta alle sue domande sui suoi numerosi antenati castelbuonesi. Una delle mie poche domande riguardò Gaetano Collotti, nativo di Castelbuono e vicecommissario presso l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza della Venezia Giulia durante la seconda guerra mondiale. Era mia intenzione dedicare alcune pagine della mia storia di Castelbuono al ruolo dei miei compaesani durante il fascismo. Il vicecommissario Collotti si occupava della repressione da Gorizia a Fiume dell’opposizione antifascista e di quella antitaliana di sloveni e croati, distinguendosi come investigatore abilissimo, grazie anche al ricorso continuo negli interrogatori a metodi brutali e all’uso di raffinati strumenti di tortura per estorcere le confessioni ai detenuti. Per coprire le urla dei torturati a “Villa Triste” – come era chiamata la palazzina abbandonata da una famiglia ebrea in fuga, dove aveva sede l’Ispettorato e il comando di quella che è passata alla storia come “banda Collotti” – il commissario faceva alzare al massimo il volume della radio. L’Ispettorato si occupava anche della cattura di ebrei, che, dopo essere stati derubati degli oggetti preziosi, erano consegnati ai tedeschi, soprattutto quando, dopo l’8 settembre 1943, fu sottoposto agli ordini del comandante delle SS dell’Adriatisches Kustenland.

Come il professore Francesco, anche Gaetano Collotti discendeva dal barone Francesco Collotti (†1708). Ma è molto probabile che nessuno dei due sapesse di avere due ascendenti comuni vissuti tra Sei e Settecento: il capostipite barone Francesco e il figlio barone Giuseppe (†1734). Con la generazione successiva, i due rami si separarono: Enzo e il padre professore Francesco discendevano infatti dal primogenito di Giuseppe, Andrea Collotti Invidiato, Gaetano dal secondogenito, Francesco Collotti Invidiato. I discendenti di Francesco tra Sette e Ottocento decaddero notevolmente e nella seconda metà dell’Ottocento, dopo una permanenza a Siracusa, si trasferirono a Collesano. A Castelbuono ritornò il solo Alessandro, bisnonno di Gaetano. È molto probabile che il professore Francesco e il vicecommissario Gaetano ignorassero di avere avuto sino al 1734 ascendenti comuni.

La Banda Collotti
Tessera di riconoscimento di Gaetano Collotti

Un giorno, mi raccontò Enzo, il padre fu convocato dal vice commissario Collotti, col quale non aveva mai avuto rapporti. Il professore Francesco – dal 1941 ordinario di Storia delle dottrine politiche nella Facoltà di Giurisprudenza e dal 1943 al 1946 preside della Facoltà di Lettere e filosofia, da lui fondata – non era solito confidarsi con il figlio, ma nella precedente settimana era stato imprigionato un suo assistente ebreo la cui sorte si ignorava. L’invito in commissariato lo preoccupò e volle che il figlio, nel caso di un suo mancato rientro a casa, sapesse dove si era recato. Il vice commissario si scusò perché, a causa dei suoi numerosi impegni, non gli era stato possibile raggiungerlo personalmente per segnalargli, mi pare, il caso di un suo agente. Rinfrancato, il professore si azzardò a chiedere allora notizie del suo assistente. La risposta fu agghiacciante: “Lo abbiamo consegnato ai nostri amici tedeschi”. Del giovane non si sono più avute notizie. Delle numerose conversazioni con Enzo, questa è quella che non riuscirò mai più a dimenticare.

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