Leccornie della festa di sant’Anna: u muluni rrussu, u ggelat’a ppìezzu e a pasta ncaciata

(Di Massimo Genchi) – Molto è stato scritto sul culto e sulla festa di sant’Anna, molto meno, o forse nulla, sulle nostre abitudini gastronomiche relative ai pranzi di quei dì di festa e di gran caldo, u càvir’i sant’Anna,come si suole dire qui da noi per indicare il caldo secco, tipico di quei giorni ma anche di quelli immediatamente precedenti, a partire dal 22 luglio, la Maddalena, che segna l’entrata in festa della nostra comunità. Il pranzo della festa della patrona, così come quelli di altre ricorrenze, non è strutturato su un menu canonico ma verte su alcuni capisaldi irrinunciabili: u muluni, u ggelat’a ppìezzu e a pasta ncaciata. Tutto ciò che gli si costruisce attorno era, ed è, un complemento.

Fin dai tempi più antichi, alla vigilia della festa, arrivavano dai posti più sperduti della Sicilia autocarri e, prima ancora, carretti stracarichi di muluna rrussi e si piazzavano in posti strategici, a ridosso delle vie principali. Di solito, gli avventori acquistavano più angurie, incoraggiati dai prezzi più vantaggiosi, ma non volendo rischiare di comprare angurie e ritrovarsi, poi, qualcosa al gusto di cetriolo o di cucuzza, che è anche peggio, era consuetudine comprarli a pprova, vale a dire facendovisi praticare uno sportellino quadrato, a purteddra, che permetteva, estraendo quel cuneo di granulosa polpa rossa, di assaggiarlo preventivamente. Molti ritenevano di poterne constatare la maturazione e la qualità alla cieca, battendo in maniera ritmata la palma della mano sulla superficie dell’anguria e, in base al suono, dedurre se stavano comprando un’ottima anguria o una cucuzza. Allora non c’erano né frigidaires né freezer e si poneva il serio problema di come refrigerare l’anguria. Chi si trovava in villeggiatura, si capisce, era enormemente più avvantaggiato perché bastava imbracare l’anguria e immergerla nell’acqua del pozzo. Chi si trovava in paese, se non aveva una gebbia in casa – come tante ce n’erano, allora – o la mangiava intiepidita da quel caldo feroce, diciamo pure un brodo, o la metteva in molle in un secchio, ma sempre calda la mangiava. I più fortunati, invece, ricorrevano al gelataio, a Pupillo, a Micale o a qualche altro, per assicurarsi a sciacquatura, la neve mista a sale, ormai sciolta a seguito del processo di produzione artigianale e conservazione dei gelati, che veniva quindi riutilizzata come formidabile refrigerante.

La produzione artigianale del gelato era una impresa mica da ridere che, come tante cose di allora, andava programmata con larghissimo anticipo, nel corso dell’inverno precedente. Oserei dire che il lavoro di preparazione era qualcosa di epico, di leggendario, fors’anche di incredibile. Nelle nostre montagne, le doline, che noi chiamiamo zzotti, e i crepacci di alcuni versanti esposti ad ovest, cioè a manca, erano particolarmente vocati per la conservazione della neve per un tempo lunghissimo, fino alla fine dell’estate. Era lì che i mulattieri si recavano dopo le nevicate, con il tempo meteorologico ancora particolarmente inclemente, per andare a coprire con uno spesso strato di ramaglie e fronde isolanti quelle depressioni ricolme di neve: le neviere. Ce n’erano in tutte le Madonie, si capisce, anzi in tutta la Sicilia. I nostri mulattieri si recavano ê Munticìeddri, â Madunìa, a Pizzu Castiddranu, a Minnùonicu. Si diceva che andavano a nchiùdiri a nivi. La neve rimaneva, diciamo così, seppellita mesi e mesi finché, giunta la stagione dei gelati, veniva prelevata a poco a poco, alla bisogna. Muniti di stranissime scimitarre dalla lunga lama, che chiamavano sciabbuluna, la tagliavano in blocchi, la coibentavano con la paglia e, a dorso di mulo, la portavano in paese depositandola nei magazzini dei gelatai. Così protetta, la neve ghiacciata poteva mantenersi anche una settimana.

Le Carpigiani di allora, le macchine per produrre il gelato, mantecatori, pastorizzatori o cos’altro, consistevano in un recipiente troncoconico a doghe, u tinìeddru, entro cui era un pozzetto, un cilindro metallico di rame stagnato. Lo spazio, sufficientemente largo, compreso fra i due recipienti si costipava con neve finemente pestata e salata e dentro il pozzetto, dovendo produrre la granita, vi versavano acqua, succo di limone, zucchero e quindi, con una abilità e una velocità pazzesca, cominciavano a centrifugare a mano finché non si otteneva la deliziosa granita di limone, pronta per essere degustata con la bbriòscia o, ancora meglio, con lo sfilatino di pane bianco appena sfornato nel forno elettrico di Sparacino.

I gelati, invece, necessitavano di una procedura molto più lunga e complicata, a partire dalla cottura del latte, prima di arrivare ad avere quegli zuccotti dentro le caratteristiche forme di alluminio. A quel punto, per portarli a ccalur’i ggelatu, bisognava depositati all’interno di pozzetti metallici, a loro volta immersi in un ambiente fatto di neve finemente pestata e sale, accuratamente isolato dall’esterno che, chissà in base a quale controsenso lessicale, veniva chiamato a stufa. I gelati già pronti e incartati rimanevano nella stufa, quell’ambiente gelato, per essere smerciati interi o tagliati a porzioni, a ppìezzi appunto, e consumati a suggello dei pranzi dei giorni di sant’Anna assieme alle golosità acquistate nnê loggi: torrone, ggelat’i campagna, che poi di gelato non aveva niente, essendo un dolciume di pasta di zucchero variamente colorato, con essenze e canditi, confezionato in forma di tavoletta, e alle mandorle agliacciate, che niente avevano a che vedere col ghiaccio dal momento che l’aggettivo agliacciati va interpretato come la riproposizione dialettale del francese glace, cioè glassa. Infatti, come tutti sanno, si tratta di mandorle, a volte tostate, ricoperte di un consistente strato di zucchero.

I gelatai lavoravano, quindi, in ambienti refrigerati, fra le balle di neve isolate mediante la paglia. Tuttavia ciò non bastava a refrigerare le pulsioni, non necessariamente accese dal caldo esterno, u càvir’i sant’Anna. E siccome l’uomo è stato sempre cacciatore, almeno così si dice, accadevano, anche in quei tempi, non rari casi di rottura della fedeltà coniugale. E una volta successe che un gelataio trasse a sé una avvenente donna proprio in uno di quei locali dov’erano depositate le balle di neve, che quella volta, anziché refrigerare, accese le passioni e il ghiaccio divenne bollente, come avrebbe cantato anni più tardi Tony Dallara. Fu un attimo. La donna passò rasentando il muro della gelateria, un braccio furtivo spuntò da dentro, l’afferrò con decisione e la bella sparì dietro la porta socchiusa, quasi com’u sali nnâ l’acqua. Ma, si sa, le finestre non hanno occhi e vedono e i muri non hanno orecchie e ascoltano. Difatti quando, più tardi, al bar, senza neanche tanti giri di parole, i soliti perdigiorno chiesero puntuali ragguagli al nostro gelataio, questi, senza mostrarsi né sorpreso né indispettito per l’indiscrezione, ammise candidamente: Nenti!, s’arrifriscavi i nàtichi nnâ nivi e quella immagine istantanea valse più di ogni dettagliato e piccante resoconto sull’accaduto.

Ma, passando da una cosa appetitosa all’altra, ciò che conferisce sontuosità al pranzo di sant’Anna è il primo piatto, la favolosa pasta della festa, chiamata indifferentemente pasta ncaciata o pasta ntaanu. La prima denominazione verte sul fatto che per ogni strato di condimento è abbondantemente condito con pecorino grattugiato (quali parmiggianu…), la seconda, invece, fa risaltare la modalità di preparazione, ntaanu,un’ampia casseruola a due manici, dove la pasta viene condita a suoli e rimessa sul fuoco ad accutturari, cuocere per pochi minuti a fuoco dolce, affinché gli ingredienti, si amalgamino. Ora, la pasta così preparata, a Gangi la chiamano ncaçiata, ad Alimena ngrasciata e così via. E non può essere solo una coincidenza che anche a Cefalù la pasta della festa, dû Sarvaturi, sia pure con le inevitabili varianti, venga chiamata pasta a ttaianu. Ciò, invece, porterebbe a ipotizzare che questo tipo di pasta possa essere stata, almeno in passato, la pasta della festa per diverse località non solo a noi vicine.

Le due denominazioni, ncaciata e ntaanu, da noi hanno dato luogo a un grande equivoco, circa la ricetta che esse individuerebbero. Taluni, infatti, con pasta ncaciata intendono il pasticcio di pasta con il cavolfiore e non invece il nostro piatto a base di melanzane fritte tagliate a listerelle e carne cotta al sugo e sfilacciata che, però, non risulta informata, appunto ncasciata, come la pasta al forno.

L’equivoco nasce dal fatto che ncaciata, foneticamente, somiglia a ncasciata. La pasta ncasciata, però, rispetto a quella ncaciata, ha una preparazione completamente diversa, così come assai diversi sono gli ingredienti utilizzati e i periodi dell’anno in cui i due piatti vengono preparati. Il primo è invernal-primaverile e segue la stagionalità del cavolfiore, il secondo, seguendo quella delle melanzane, è tipicamente estivo. Si tenga anche conto che, in ambito regionale, ncaciata e ncasciata indicano un ‘pasticcio di maccheroni al forno o pasta al forno variamente condita’. A ingarbugliare ulteriormente le cose ci si mette anche il fatto che, il piatto di sant’Anna è pasta ncaciata o pasta ntaanu. La pasta ncasciata o, meglio, la pasta ccû vrùocculu ncasciatu è sinonimo di pasta ccû vrùocculu ntaanu. Un bell’imbroglio, non c’è che dire. Un po’ come vrùocculu che non è il broccolo ma il cavolfiore mentre i càvuli, o meglio le loro infiorescenze – i smuzzaturi – sono i broccoli. Al di là dei propri convincimenti lessicali, però, ciò che mette tutti d’accordo è la bontà della pasta che si prepara in questi giorni, della quale non si può tacere il fatto che consumata fredda, la sera o l’indomani, è addirittura più buona.

Naturalmente, anche per questo piatto esistono innumerabili varianti, ciascuno la fa come vuole. In definitiva, anche con le sottilette, volendo esagerare in creatività. Punti fermi, a parte il tegame, dovrebbero essere (il condizionale è assolutamente d’obbligo) il formato di pasta maccaroncello, preventivamente spezzato in due parti, la carne ngranciata, quindi cotta al sugo – fatto ccû strattu -a fuoco lentissimo, e successivamente sfilacciata, le melanzane nostrali fritte in olio d’oliva e tagliate a listerelle, il pecorino, u bbasilicò e la sistemazione nel tegame: un zùolu e un zùolu. Un suolo di pasta e uno di abbondante condimento e poi pasta e poi condimento a mai finire. Alla fine, non dimenticate di rimettere il tegame incoperchiato sul fuoco molto basso e di lasciare cuocere per circa dieci minuti dopo avere mescolato con la paletta di legno. Abbiate ancora un po’ di pazienza, state fermi con le mani e fate riposare un po’, prima di sferrare l’attacco. Mi raccomando, non fate cirimmònii e non fate finta di essere pìuli. Una volta che ci siete, non accontentatevi di meno di due piatti, anche tre, che è il numero perfetto. E non dimenticate di lasciare qualche razione per assaggiarla fredda. E vviditi cchi mmanciati.

A questo punto mi accomiato da voi perché il dovere mi chiama, dovendo dare l’assalto alla prima razione. Auguro a tutti voi buona pasta ncaciata e buona festa. E viva sant’Anna!!!

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