L’Eredità della guerra. Un racconto di Francesco Di Garbo
(Di Francesco Di Garbo) Tempo di lettura 12/15 minuti
#Me ne andavo come ogni mattina con le pecore a pascolare
quando davanti a me un colono armato fino ai denti vidi sbucare
voleva che di punto in bianco andassi via dalla mia terra
sosteneva che adesso sua era diventata senza manco pagarla
esibiva un falso anomico rogito israeliano a testimoniare l’esproprio
truce con la forza tracotante delle armi mi voleva esautorare
poi una ruspa fece arrivare e in due-tre la mia casa fece crollare
non contento mi voleva ammazzare per fare piazza pulita
di tutti gli arabi in Cisgiordania
e per darmi prova ch’era serio le mie pecore prese a sventagliare
tanto per morire d’inedia volermi abbandonare
in barba ai diritti umani universali
e degli accordi di Oslo stipulati e a Camp David controfirmati.#
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Tra le gare sportive le staffette hanno un fascino particolare, il passaggio di testimone entusiasma anche il più negletto degli spettatori. In effetti non vincono gli atleti, vince il testimone che rappresenta la nazione più che i protagonisti. In sport prettamente individuali le staffette sono gare collettive. Il testimone deve arrivare al traguardo sano e salvo senza cadere a terra. L’incidente nel passaggio da una mano all’altra è dietro l’angolo per una svista, un’incomprensione un piccolo errore d’intesa tra gli atleti. Ciò che entusiasma nelle staffette è che oltre all’impresa sportiva esse rispecchiano il senso della vita comunitaria. L’impresa singola pur essendo intrisa di motivi ed aspetti esistenziali rimane fine a se stessa all’interno della specifica storia individuale. Nel suo corrispettivo comunitario l’impresa collettiva delle staffette riguarda il passaggio generazionale familiare o di comunità.
Il testimone assume un valore metaforico e simbolico non indifferente per la vita umana volta a tramandare e trasmettere alle generazioni future le conoscenze e i fatti del passato, facendo proprie le esperienze vissute per rinnovarle nel futuro ad-venire. E semmai modificarle e perfezionarle per migliorare l’esistenza familiare o collettiva. La tradizione tramandata non può restare statica com’era nel passato, ma dal passato va preso cosa c’era di buono depurandolo da cosa non andava e riadattare la tradizione alle nuove esigenze. Tuttavia si ha la netta sensazione che dalla tradizione viene preso cosa c’era di cattivo per perpetuare le ingiustizie e le disuguaglianze, mentre il buono viene accantonato; sembra che la storia non ci insegni nulla e ricommettiamo sempre gli stessi errori. Chi ha in mano le leve del potere si abbarbica alla tradizione in questo senso per continuare a dominare senza cambiare nulla. Di contro predicano il cambiamento per continuare ad avere in mano le leve del potere: quindi razzolano male.
Il testimone ha valore quando le cose cambiano sia nelle persone quanto nei fatti, non per razionalizzare la realtà, ma per renderla razionale secondo i criteri e i principi logici, non solo quelli matematici. Oggigiorno invece domina la quantità a discapito della qualità, la quantificazione della guerra a discapito della qualificazione della pace.
È sempre successo nella storia che i morti hanno lasciato il testimone ai vivi affinché continuassero la loro opera ed essere testimoni del loro sacrificio per redimerlo affinché esso non sia stato compiuto invano. I vivi lo devono testimoniare. Tuttavia spesso le ingiustizie, il terrore, i drammi creano talmente tanto di quell’odio che chi raccoglie il testimone viene posseduto dalla vendetta e vive con questo scopo: giusto o sbagliato che sia. È così che si generano le faide tribali, l’odio etnico e si perpetua la guerra tra le famiglie e i popoli.
Mauro aveva ottenuto quell’incontro audio per vie traverse indicibili; le fonti devono restare sempre anonime, recita il primo principio del giornalismo. Abed dopo aver tentennato parecchio e vagliate le conseguenze aveva accettato di dire la sua con tutte le cautele del caso. Ed era un fiume in piena di parole, a partire dall’operazione “Piombo Fuso” del 2008 per non risalire al 1948. Prese a raccontare
“Il paesaggio intorno a me non mi sembrava vero, mi giravo e rigiravo per averne piena contezza e pensavo d’essere dentro un film di fantascienza. Cercavo in tutti i modi di tornare alla realtà ma non ci potevo credere. Realtà postatomica? O sublime devastazione da percezione subliminale? Di sicuro macerie, sangue, morti e polvere. Scene di quelle che neanche in televisione vorresti vedere e io le toccavo con mano, le vedevo dal vivo. Ero vivo? Mi sembrava d’essere in un altro mondo, nell’oltretomba! M’avevano appena estratto da sotto le macerie, tirato fuori dalla tomba”.
Quando si guardano queste scene in televisione ci si commuove e si piange. Atrocità reali non film distopici horror. Reale realtà sovradeterminata, irrazionale.
“Mi tirarono fuori vivo per miracolo, ma non era un miracolo. Era la mano dell’uomo altroché miracolo, i miracoli non esistono. Non c’è nulla da disquisire sopra i miracoli, sulla mano dell’uomo sì, molto. Anche se tanti non ci credono e fanno gli struzzi, si arrampicano sugli specchi per trovare una minima catarsi giustificativa, apologo sub iudice di discolpa”.
Corpi straziati intorno a me. Corpi martoriati vagavano come ombre fugaci alla ricerca del senno perso, qualche straccio qualche brandello una pentola perforata, una coperta sfrangiata. Dissennate mani sul grilletto con tute da robocop indossate sventagliavano proiettili a bizzeffe su chi raccattava miseri resti da riciclare per un presente ignobile da affrontare.
“Una forchetta ricurva gli sembrò un’arma micidiale e subito sparò per rendere innocuo il ragazzino che la teneva in mano: robocop col grilletto facile”. Si sparava anche alle pecore per non lasciare da mangiare ai bombardati.
“Vidi il ragazzino traballare, accasciarsi e rialzarsi che alla morte non si voleva rassegnare”. La madre con le mani al cielo si disperava e io singhiozzavo. “Mi porsero una bottiglia impolverata con un fondo d’acqua per ripulire la gola dalla polvere incrostata”.
Più in là un carrozzone si strascicava per la strada con alcuni morti sopra ricoperti con la bandiera Palestinese.
Non c’era più pietà. Era morta e sepolta anche la pietà trucidata dalla mano dei politici in auge puliti col doppiopetto del popolo eletto/negletto. Demoni incarnati, esodati paralizzati di fronte al roveto ardente che si beano dell’ipertrofica tronfia elezione supereroi da sentirsi i migliori al mondo; visione sionista-fascista. Visione daltonica!
“Dire “atrocità inaudite” è un eufemismo plaudente, un encomio assolvente. I potenti se ne stanno a guardare e lasciano fare all’avamposto dell’impero. Per reconditi motivi all’ONU non mettono il veto, nel senso che i motivi si sanno benissimo, ma sono reconditi in quanto deplorevoli e grevi”.
In mezzo a questo paesaggio lunare non mi ritrovavo, avevo perso ogni lucida cognizione reale. Ero lì. Tanti visi lerci anneriti a mani nude scavavano in cerca di cadaveri.
“E cosa volete trovare? Qui anche i vivi sono morti!”. Diceva una voce fuori campo. Parenti e amici, grandi e piccoli scavavano mentre una torcia illuminava le tenebre. Era tutto così tenebroso che il cielo non si vedeva sebbene fosse pieno giorno.
“Un signore che non riconoscevo come mio padre faceva leva con una stanga a sollevare una trave, fare un pertugio per andare in giù nel palazzo ridotto ad un cumulo di detriti. Un altro che non identificavo fosse mio zio si disperava che li sotto c’era sua moglie e sua figlia di sette anni, la mia cuginetta con la quale giocavo a tre sette e disegnavo sulle carte…”.
Chiamarono Abed alla ricetrasmittente e si allontanò di corsa. Mauro restò nell’ospedale da campo di MSF, dov’era ospite, con l’attendente-traduttore che gli descriveva la situazione nel reticolo dei tunnel, di come li avevano scavati e come li gestivano a compartimenti stagni. Dopo quasi un’ora Abed tornò al microfono, accalorato ma rilassato. Riprese il racconto.
“Mio nonno furtivo era entrato dopo le prime bombe per svegliarci e farci uscire, stava prendendo un cappotto per ripararsi dal freddo e rimase intrappolato come un dannato alla Cayenna. Stava aprendo l’armadio e tutto crollò in un’istante, un colpo sordo, un tonfo sordido e la deflagrazione fece il suo effetto orbo”. Schegge rimbombanti impazzavano mentre l’edificio s’afflosciava sotto una nube di polvere che s’ergeva al cielo, inalberandosi come un fungo. La chioma era grigia e densa, occludeva le vie respiratorie a chi ci capitava in mezzo.
“I suoi occhi prima che si chiudessero per sempre mi hanno lasciato in eredità la vendetta. Era un nullatenente spossessato dai Farisei della sua atavica terra a favore dei coloni. Ingordigia senza resto”. Confidò Abed biascicando le parole.
Fece un respiro profondo, si schiarì la gola deglutendo un sorso ormai freddo di tè e riprese nel racconto.
“La guerra lascia in eredità la vendetta, la legge del taglione e ineluttabilmente ci sarà qualcuno che prenderà-riceverà il testimone. Mia madre seduta su un blocco di cemento col ferro contorto piangeva a dirotto come se nevicasse; di mia nonna non se ne sapeva niente. Se ne stava con la testa tra le mani e tirava in su con il naso, fece un sorriso amaro misto a lacrime di felicità allorquando vide la mia mano uscire dall’anfratto innaturale. E in arabo di gioia gridava, mentre in inglese gridava maledizioni a tutto spiano con incurabili mani al cielo sollevate”.
Cantava la zaghroutah di vendetta e con tutto il cuore la invocava. Il cuore divenne un coro, e tutti i presenti lì intorno s’accodarono.
“Che colpa ne ho se sono cresciuto nell’odio? Io non volevo odiare mi hanno fatto odiare con l’orrore subito dal mio popolo e la mia terra. È colpa mia? No!”.
Chiese e rispose retoricamente Abed a se stesso più che a Mauro. Vivendo all’inferno non si crea altro che risentimento, ci si impregna d’odio come inzuppati di iodio, gialli di bile verso gli estorsori delle terre altrui.
“Vogliono estirpare Hamas ma si fanno i conti senza l’oste. Ci possono uccidere tutti, ma sono già pronti coloro che raccoglieranno il testimone. Tra dieci anni saranno punto e a capo. La Palestina è immortale, anche se la occuperanno tutta non la cancelleranno mai dalle carte geografiche, vivrà in eterno. Possono avere tutte le armi migliori, ma non potranno mai sottomettere un intero popolo. Netanyau l’ha presa come un affronto personale al suo onore, non ci dorme la notte e ha sete di vendetta. Deve lavare l’onta sulla sua carriera politica. Resterà questo nei libri di storia. Giudicato come Hitler”. Abed si lasciò andare a sfogare una ramanzina sulla “Terra promessa” declamata come l’ombelico del mondo mentre a lui sembrava ridotta più che altro al buco del culo del mondo. E il condottiero novello David ammorbato, come un tamarro circondato da maranza, della sindrome terapeutica negativa: meglio malato che cadere guarito. Il tamarro non ha sensi di colpa, ha solo impulsi coattivi. È uno che non riesce a verificare se si trova nel mondo comune o d’essere quello dello specchio.
Mauro aveva bisogno di testimonianze autentiche, informazioni pulite e non le solite cose da cani da guardia. Tutta l’informazione che usciva da Gaza era embedded al seguito dell’esercito di Tel Aviv che faceva vedere quello che gli faceva comodo a discapito della verità, la quale risultava parziale e teleguidata. A Mauro ciò non lo soddisfaceva affatto essendo lui ligio ai principi irreprensibili, scritti sulla pietra, del giornalismo autentico.
Abed si muove tra le ombre silenziose di Gaza city, i revenants rimasti a presidiare e testimoniare l’indecenza israeliana. Scansa i fantasmi e si meraviglia che nessuno l’abbia contattato come testimone del paesaggio mortuario. Si meraviglia che nessuno cerca la verità e tutti si accontentano degli embedded disinformati. Di quelli a cui fanno fare i tour turistici giornalistici. Eppure i contatti arabi o occidentali che Abed ha lo sanno che lui è lì nel sottosuolo sotto i raid pronto a vuotare il sacco. Solo qualche testata araba ha fatto alzare la sua voce dal sottosuolo dove si protegge dalle bombe.
Per Mauro ci voleva una seduta medium per contattarlo e sentire la testimonianza di Abed. Era difficile da raggiungere in quelle catacombe di Gaza city dove si aggirava con una radio a bassa frequenza per non essere geolocalizzato. La notte usciva l’antenna e si connetteva con un cellulare tra i profughi scacciati verso Rafah.
Mauro doveva verificare una fonte che gli era stata trapelata dal suo informatore alla Casa Bianca. Fonte sicura ma ci voleva la conferma sul campo. Il file vocale riportava una conversazione tra Netanyau e Biden, o meglio tra il loro sherpa, alter ego, più vicini.
“Non arrischiatevi a far passare la mozione al Consiglio di Sicurezza. Dovete mettere il veto”. Sosteneva l’israeliano.
“Siamo sicuri che poi non attaccate Rafah? Perché nostre fonti dicono che volete arrivare in Egitto”. Bofonchiava l’americano.
“Ti do la parola d’onore di Netanyau che non colpiremo i civili”. Replicò l’israeliano con tono categorico.
L’impero pensava di controllare la periferia, l’avamposto antimusulmano, senza perderci la faccia che già tanti guai aveva combinato adducendo la mera scusa del terrorismo. Contenerlo per non mettersi contro l’opinione mondiale. Avevano già messo tre veti e il quarto era un’esagerazione. Poteva sembrare che la lobby interna ebraica condizionasse le decisioni del Presidente, ed in tempo di elezione non era facile barcamenarsi.
“Tranquillo Sam tuo nipote Ben non ti tradirà mai”. Disse con tono convincente l’israeliano. “Siamo il tuo avamposto, non lo dimenticare”. Lo rassicurò. Aggiungendo: “In una regione che fibrilla di arabi con la testa malata”.
“Attenti che state oltrepassando il limite. Se il conflitto s’allarga non vi possiamo aiutare. E con le vostre forze non ce la potete fare. Metteremo il veto ma datevi una calmata. Rendetevi conto che state perdendo consenso al livello mondiale”. Lo mise in guardia l’americano non tenendo conto che di Giuda non ci si può allegramente fidare.
La solita solfa, siamo degli asini a cui la storia non insegna niente.
“Se non rispettate gli impegni presi e ci prendete per i fondelli la nostra pazienza ha un limite”.
L’assicurazione dell’amico alter ego di Netanyau non lo convinceva, eppure si doveva fidare. Infatti il giorno dopo il veto all’ONU gli israeliani ripresero a marciare con raid su ospedali e moschee cacciando via la popolazione verso il mare per farli affogare. Fu così che passò alla storia il fatto di come una remota provincia prese per il culo il centro dell’impero. L’eccesso di presunzione è un peccato mortale, l’impero con tutti i pensieri che aveva accusò il colpo e andò in fibrillazione.
Quel file vocale era una bomba perché sputtanava l’ignominiosa condotta in questa guerra degli Stati Uniti. Eppure l’opinione pubblica in parte era fanaticamente filoisraeliana ad oltranza giustificando e rendendosi complice del massacro, del genocidio in atto.
Per motivi di sicurezza Abed doveva chiudere la conversazione. “Caro Mauro qui siamo tutti terrorizzati, non solo i bambini e le donne, ma anche i grandi e i vecchi. Il terrore misto a rabbia si legge nei volti di tutti. È un terrore che si esprime in rancore e odio. Essi raccoglieranno il testimone, saranno la staffetta dei morti e in un prossimo futuro li vendicheranno. La Palestina è immortale. Non si può cancellare dalla faccia della terra un popolo, una nazione. Neanche Hitler c’è riuscito”. E mise giù il microfono. L’immortalità dell’uomo consiste nel fatto che qualcun altro, figlia o figlio, nipote o cugino raccoglie il testimone per continuare l’opera del defunto. Lo stesso avviene per un popolo o etnia. La riproduzione ha questo fine: impedire l’estinzione. Evitare che i progetti avviati restino a metà: non conclusi, stroncati.