L’intervista al Vescovo di Cefalù: «Dobbiamo continuare a entrare nella storia per tracciare percorsi di speranza»
Anche le pagine del calendario della vita di Monsignor Giuseppe Marciante portano le loro date memorabili. Due in modo particolare lo sono pure per tutta la Chiesa di Cefalù. Sono quelle del 16 febbraio e del 14 aprile 2018. Con la prima, ricevendo la nomina di Papa Francesco a essere il nuovo pastore della diocesi normanna, si concludeva il suo servizio di vescovo ausiliare a Roma per il settore est. Con la seconda prendeva il possesso canonico della diocesi, divenendone il settantaquattresimo vescovo.
A distanza di quattro anni, ritorniamo a osservare col Vescovo Giuseppe i problemi presenti sull’intero territorio della Chiesa cefaludense. Lo facciamo a partire da quel registro della passione e della compassione pastorale che Monsignor Marciante ha sempre stretto tra le braccia del suo cuore.
«Lo facciamo – puntualizza subito il prelato – non nell’ottica di stilare possibili e facili bilanci. Ma con quella di continuare a entrare nella storia, nel nostro travagliato presente. Con l’inarrestabile desiderio di tracciare percorsi di speranza». E quando si parla di speranza il pensiero del vescovo fa la sua immediata rotta verso i giovani: «Arrivato a Cefalù avevo già i tratti dell’identità del territorio. Avevo letto parecchio. Mi ero informato e aggiornato. Avevo registrato la fuga dei giovani. Purtroppo, anche in questi anni l’esodo è stato inarrestabile». E continua: «Siamo di fronte a una lacerante desertificazione di tutti i nostri comuni. Dobbiamo arrestarne la fuga. Il mio, in questo preciso momento, vuole essere principalmente il grido di un padre che cerca di raggiungere anche il cuore delle coscienze dei nostri amministratori». Ed è proprio rivolgendosi a loro che Don Giuseppe ad alta voce consegna il suo accorato appello: «Se la politica non riesce a trattenere i giovani rischia di diventare una politica fallimentare. Mi pongo sovente una domanda. La inoltro a quanti amministrano: Quanti posti di lavoro sono stati per i giovani? So bene che il crearli non dipende solo dalla politica. Ma va precisato che a livello locale ognuno deve fare la sua parte».
La sofferta analisi del Vescovo non si arresta: «Non ho visto crescere l’imprenditoria giovanile. In quest’ambito non ho visto fantasia e creatività politica. Bisogna lavorare, invece, in questa direzione. Aprire nuove strade su questo versante». A tal proposito, asserisce: «Non sono stati assenti i segnali di speranza. Non sono mancati i timidi tentativi di rinascita». Una possibile via il presule l’ha intravista, infatti, nell’esperienza dello smart working esplosa nei dolorosi mesi del lockdown in tutta l’Italia e anche nei comuni delle Madonie. Su questa esperienza afferma: «É stato ed è un tentativo buono. Per certi aspetti anche ben riuscito. L’hanno inventato i nostri stessi giovani. La politica ha messo a disposizione alcuni locali per attività di coworking. Tutto questo ci insegna che il protagonismo giovanile è una risorsa. Può dare impulso alla vita politica dei nostri paesi». Sul travagliato percorso d’intesa tra giovani e politica il Vescovo espone un triste riscontro: «Ho chiesto a diversi giovani se intendessero impegnarsi nel mondo della politica. Ho provato a esortarli a intraprendere questo cammino. Hanno tutte le capacità e tutti gli strumenti per dare luce a nuove primavere del servizio alle nostre comunità». Eppure, prosegue con voce velata da marcata tristezza: «La maggior parte ha risposto di non volere spendere in questo specifico settore tempo e energie. Vedono la politica come un affare, un percorso impastato di sola e tanta burocrazia».
Le esortazioni del Vescovo per uscire dal buio di questo tunnel non mancano: «Serve una buona testimonianza da parte di coloro che sono impegnati nella politica. Va testimoniato che non è un mestiere ma una missione. A seguire, con tono fermo e deciso dichiara: «Per alcune comunità che non sono soltanto le piccole comunità, si è tentato di rinnovare il mandato per una terza volta. Questo sarebbe un grande errore. C’è il rischio di fare diventare i sindaci dei feudatari. Come coloro che non vogliono staccarsi più dalle proprie poltrone». «Dobbiamo pensare a dare spazio ai giovani, a nuove energie. Bisogna creare figure nuove di giovani politici». «La Chiesa deve riprendere la sua storica missione di formare uomini per la politica. Una volta lo facevano i partiti. Dobbiamo creare scuole di politica ispirate alla dottrina sociale della Chiesa. Essa resta una risorsa preziosa per tutta l’umanità. Lo è tutto il magistero di Papa Francesco. A iniziare dalle due encicliche Fratelli tutti e Laudato sì». E incalza: «Dobbiamo farlo. Con un nuovo metodo: quello di formare uomini appassionati della politica. Non dobbiamo creare lo strumento, ma l’anima. In questo iter formativo potrebbero inserirsi e dare il loro prezioso contributo, legato all’esperienza vissuta nel tempo, anche i politici “navigati”, ma senza l’anima dei feudatari».
Con Monsignor Marciante si parla anche della pandemia e delle pesanti conseguenze sulla vita delle persone. «Ci ha messi in ginocchio. Siamo tutti a terra. Lo sono tante famiglie. Terribilmente ferite dai venti devastanti della disoccupazione e cassa integrazione. Ho visto improvvisamente tanti ristoranti e alberghi chiudere. Chiudere posti di lavoro». Ma per il presule il covid non lascia solo tremende ferite. Ci sono degli insegnamenti da accogliere: «La pandemia ci ha dato conferma che non si può vivere solo di turismo. Resta sicuramente una grande risorsa. Ma non può essere l’unica. Infatti, ci ha fatto comprendere che è miope quella politica che orienta per il futuro tutte le sue attenzioni sul turismo, come se fosse l’unica risorsa presente sul nostro territorio». E aggiunge: «Il turismo per Cefalù è certamente una realtà trainante. Ma il mio sogno è quello che la nostra cittadina diventi, anche per il settore legato al turismo la porta delle Madonie. Cefalù non può e non deve chiudersi in se stessa. Bisogna pianificare in tal senso percorsi politici di mediazione e non solo autoreferenziali. Purtroppo, è presente quella tendenza che mira a volere trattenere a Cefalù tutto il flusso turistico in modo quasi egoistico. Bisognerebbe portare avanti iniziative che irradiano percorsi turistici anche nelle aree interne delle nostre Madonie. Sono quelle che soffrono di più. Sono le più trascurate, le più abbandonate». «Cefalù dovrebbe sentire alto e bello il peso di questa responsabilità. La leggo come un prezioso servizio da portare avanti a favore di tutto il territorio della nostra diocesi. Quasi come una sorta di consegna, un mandato da assolvere, legato alla custodia e alla piena valorizzazione dell’immenso patrimonio artistico che possediamo. Un’eredità straordinaria sulla quale dobbiamo investire in un circuito che sia sinodale e solidale».
Sono tante le speranze e i sogni che il Vescovo Giuseppe custodisce nel cuore per i nostri comuni. Tanti piccoli semi, alcuni virgulti, qualche pianticella. Ha scelto di farli crescere prima di tutto con la luce della preghiera. «La preghiera del Vescovo – afferma – segue il percorso del sole. Come il sole sorge al mattino e si conclude al tramonto. Affido al Signore il domani di tutti i nostri paesi, di ogni realtà sociale. Chiedo al Signore che attività e sogni legati al futuro siano ispirate e illuminate dalla luce del Vangelo».
Tra i tanti germogli di speranza il Vescovo con la pazienza del saggio contadino ne sta coltivando uno in modo speciale perché potrebbe dare una svolta di un certo spessore alla qualità dei servizi per la nostra salute. Con tono paterno e a tratti quasi confidenziale ci dice: «É quello legato alla Fondazione Giglio. É inarrestabile il mio bussare alle porte dell’Università Cattolica e dell’Università di Palermo affinché a Cefalù nasca, attorno al nostro ospedale, una facoltà di medicina. I primi passi pare siano stati fatti. Mi sto impegnando a chiedere all’Università Cattolica di investire anche al Sud. Ha trainato negli anni anche tanti giovani dal Sud. Tante intelligenze, un vulcano di talenti. Serve adesso una sorta di ritorno». «Dobbiamo fare crescere la scienza medica per fare crescere la qualità dei nostri medici. Ho appreso, partecipando a Palermo a una conferenza di Confindustria, che mancano medici e infermieri. Abbiamo una sanità in forte crisi. Come non ricordare i continui ritardi nell’organizzare le hub vaccinali, le tante disfunzioni a livello burocratico per far decollare la vaccinazione; come non denunciare l’agonia dell’Ospedale Madonna dell’Alto di Petralia Sottana».
Ma per monsignor Marciante c’è altro a cui bisognerebbe pensare. Le idee del presule, a tal proposito, sembrano abbastanza chiare: «Bisognerebbe pensare a un nuovo modello per l’accoglienza e l’assistenza agli anziani. Quella domiciliare è sempre da privilegiare. L’anziano va assistito a casa. Ci vogliono appositi operatori per prestare questo servizio. Dobbiamo preparare un personale che sappia accudire e offrire le dovute e possibili cure a casa dell’ammalato. Penso, legato alla facoltà di medicina, a un qualificato percorso di formazione per i futuri operatori a domicilio degli anziani, degli ammalati, dei diversamente abili». «I nostri paesi potrebbero accogliere case per anziani, piccoli villaggi dove i nostri “vecchietti” potrebbero avere anche spazi per ricevere parenti e amici. E lì ricevere ogni tipo di assistenza. È una alternativa alla ospedalizzazione. Parliamo di residenze assistite». «Gli anziani, come sostiene Papa Francesco, sono le nostre radici. Per cui con i giovani che trovino lavoro occupandosene, si creerebbe un rapporto tra le generazioni non solo straordinario ma soprattutto virtuoso».
Per favorire e accelerare la realizzazione di questi progetti è necessario il dialogo con le istituzioni: «Il dialogo – dichiara il Vescovo – tra la Chiesa e le amministrazioni è vitale. La Chiesa non è dirimpettaia, non è concorrente dei sindaci o delle amministrazioni. Anche se ci fosse qualche possibile gesto di intraprendenza in qualche iniziativa da parte della Chiesa, non c’è mai una pianificazione che conosca la logica della concorrenza. La Chiesa non ha e non può avere mire a governare o a prendere il potere. Offre un servizio». «Penso che i nostri amministratori durante i diversi incontri hanno capito lo spirito della nostra realtà ecclesiale. La Chiesa a volte può anche pestare i piedi quando reclama determinati diritti o chiede di rispettare determinate norme. Può essere anche una Chiesa scomoda. Serve sincerità e lealtà. Un dialogo aperto». «D’altra parte i sindaci che ho incontrato sono di tutte le estrazioni politiche. Ormai i partiti vivono una crisi esistenziale. Inoltre, avverto fortemente come la classe politica cerchi il dialogo con la Chiesa. Si tratta quasi di un bisogno. L’importante è che non sia mai strumentale».
Ma la conversazione non può concludersi. Il Vescovo non riesce affatto a tacere sulla guerra. In special modo sulle cause e conseguenze: «Dobbiamo prendere le distanze da ogni possibile forma di nazionalismo. Questa guerra è frutto di un nazionalismo. Quando si esaspera il nazionalismo si arriva alla guerra. Anzitutto bisogna abbattere l’idea di nazionalismo. Insieme al populismo è un virus che alimenta la guerra. Ogni stato dovrebbe abborrire la guerra come strumento di soluzione. Genera solo e sempre l’inciviltà. Un popolo che fa la guerra ad un altro popolo regredisce. Non avanza culturalmente, politicamente e spiritualmente».
Si potrebbe continuare. Ma gli impegni di Monsignor Marciante sono tanti. Intanto, un luminoso raggio di luce si poggia sulla scrivania del Vescovo. Sembra accarezzare i tanti libri che vi si poggiano. Libri di esegesi, pastorale, sociologia. Un assembramento di luci che, insieme a quel raggio di sole che mi rimanda alla preghiera, fa del Vescovo Giuseppe l’uomo e il pastore che conosciamo.