L’omicidio del sindaco Antonio Spallino e le cause che lo determinarono, valutate cento anni dopo
(Di Massimo Genchi) – Era la sera di sabato 17 settembre 1921 e il sindaco Spallino, ultimato il suo lavoro in municipio, stava dirigendosi a cavallo, verso la sua casina di villeggiatura in contrada Pedagni. Per raggiungere quella contrada, allora, la strada più agevole era la provinciale per Isnello che si lasciava tra la Vignicella e il Boscamento, in corrispondenza di un viottolo in salita che conduceva ai Pedagni. Aveva appena superato il ponte di Don Tumasinu, all’uscita del curvone che chiude il rettifilo della Madonna del Palmento, quando da sotto le spallette emersero alcuni figuri che lo centrarono alle spalle con tre colpi di fucile, favoriti dal chiarore della luna piena. Il sindaco, benché colpito, ebbe la forza di trascinarsi fino alla sua casina dei Pedagni dove, poco dopo, spirò al cospetto della figlioletta Maria Carmela di pochi anni e della moglie Eleonora Di Stefano, incinta del secondogenito al quale sarebbe stato poi dato il nome del papà.
Antonio Spallino era succeduto a Mariano Raimondi che, come si sa, aveva rassegnato le proprie dimissioni nel maggio 1920, poche settimane dopo l’acquisto del Castello. Nelle elezioni di ottobre 1920, sovvertendo ogni pronostico, l’outsider Spallino riportò un impressionante numero di voti, risultò il primo eletto, surclassando eminenze cittadine che bramavano di guidare il paese, e nella seduta dell’undici ottobre il consiglio comunale, assenti gli sconfitti, lo elesse sindaco. Spallino, da intraprendente e fattivo commerciante, si mise subito ô ccippu anche perché il paese versava in condizioni disastrate.
Il primo atto amministrativo fu il risanamento della viabilità interna ed esterna all’abitato, con la selciatura di alcune strade ancora in terra battuta e il completamento della fognatura in alcune di esse, che necessitò dello stanziamento di una ingente somma di denaro. Parallelamente risolse il difficile ed annoso problema della raccolta dei rifiuti e quello ugualmente impegnativo della bonifica del Burrone Fontanelle con l’incanalamento di acque bianche e nere nel condotto che ancora oggi corre sotto l’attuale via Principe Umberto e all’epoca attraversava gli orti che si estendevano da Sopra il ponte fino a Piano Marchese.
Il sindaco Spallino aveva assunto il governo del paese ereditando una pesante situazione debitoria e si era perciò impegnato, da commerciante molto capace ed esperto, a tagliare un vasto spettro di spese ritenute non di prima necessità. Chiese ai suoi concittadini una decisa stretta di cinghia che, diversamente da quanto succede di solito, produsse miracolosi risultati. Infatti, l’austerità imposta dal sindaco, nel giro di nove mesi riuscì a dimezzare la passività, senza tanti comizi urlati, senza tanti giri di parole, senza bisogno di propalare fandonie, semplicemente con il bastevole e incontestabile conforto dell’aritmetica e delle carte amministrative che cantavano senza blaterare.
C’era anche il grosso problema legato al pagamento degli arretrati agli impiegati comunali. Riferisce il prof. Cancila nel suo Pulcherrima civitas Castriboni, dal quale estrapolo gran parte dei passi di questo ricordo del benemerito sindaco, che “personalmente il sindaco aveva anticipato al Comune 80.000 lire senza interesse per spese improcrastinabili”. Per chi non ha idea del valore di quei soldi, diciamo che la passività del comune all’inizio della sua sindacatura ammontava a 132.000 lire. Con 80.000 lire, come si suol dire a Castelbuono, il sindaco si sarebbe potuto accattari u paisi. E invece li mise a disposizione dei forti bisogni della comunità che amministrava, senza nulla pretendere. Ecco, in un atto del genere, risiede tutta la differenza fra un sindaco eterno e uno che disconosce anche il senso della vergogna allorché si fa rimborsare financo gli 80 centesimi del costo di una bottiglietta d’acqua.
Per comprendere le cause scatenanti il delitto non è inutile ricordare che quelle famiglie dell’emergente borghesia e degli agrari che avevano di fatto detenuto il potere nei decenni a cavallo del nuovo secolo, mal sopportavano l’estromissione dai posti apicali del potere politico dapprima da parte di Mariano Raimondi (1912-1920) e ora di Spallino che riscuoteva un crescente gradimento presso tutti gli strati della popolazione. Che poi, nello sprezzante giudizio dei suoi avversari, era nient’altro che il figlio di Paolo Spallino il quale, benché fosse il più ricco di Castelbuono, avendo acquistato il grande Palazzo dei baroni Collotti, veniva considerato pur sempre un parvenu, uno che “fino all’altro ieri” vendeva sardi salati â Chiazzetta.
In questo perimetro si inscrive la sistematica diserzione dei lavori del consiglio comunale da parte di quanti, alla vigilia delle elezioni, a seguito di accordi politici ben strutturati, erano più che certi della vittoria. Ora, appena pochi mesi dopo l’inizio della sindacatura, la crescente popolarità di Antonio Spallino, facendo prevedere una stagione politica di lunga durata, di fatto allontanava nel tempo gli obiettivi dei suoi irritati rivali. Si pensi che, fra questi, sei consiglieri non presenziarono neppure alla commemorazione funebre che si tenne in consiglio comunale all’indomani dell’omicidio. In quella seduta, fra le altre cose, si deliberò di murare nell’aula consiliare una lapide che ricordasse i tanti meriti e le virtù di Antonio Spallino e che venisse esposto all’esterno del municipio, per quindici giorni, il gonfalone del comune listato a lutto.
La politica di rigore e di risanamento imposta dal sindaco Spallino – di lacrime e sangue si direbbe oggi – stava producendo grossi e insperati esiti ma intaccava interessi politici ed eliminava privilegi di privati. Le nuove misure, in particolare, avevano debellato abusi annonari, furti campestri e la piaga secolare del pascolo abusivo. “Ei fu inflessibile e severo, fu uomo di convinzione e seppe comprendere ma non tollerare i vizi e gli errori dei suoi dipendenti”.
I caprai, storicamente, ritenevano lecito penetrare in qualsiasi fondo privato e potervi esercitare liberamente il pascolo ma anche forme inaccettabili di devastazione e saccheggio. Non per niente si suole dire arraggiunari a la crapara per sottolineare il modo di agire sconsiderato di qualcuno, scisso da ogni convenzione e forma di reciproco rispetto.
Per arginare queste prepotenti scorribande, il sindaco Spallino impose loro una serie di restrizioni consistenti nel dichiarare il numero di capi posseduti, le località in cui ricadevano i terreni di proprietà o in affitto in cui esercitavano il pascolo, gli spostamenti e i percorsi giornalieri in modo da imbrigliarli con il monitoraggio di ogni loro movimento.
In una situazione di costrizione del genere, dove il capraio anziché avere a portata di mano le pietre da scagliare alle sue bestie doveva tenere carta e penna, è chiaro che il malcontento all’interno della categoria montava e, come sempre succede in questi casi, chi era rimasto seduto sulla riva del fiume in attesa che qualcosa accadesse, non credendo ai suoi occhi, colse al volo l’occasione che gli si presentava. Con la mellifluità solita di queste circostanze, deve avere usato le parole giuste e opportune per soffiare sul fuoco che certo animava la disperazione di quei quattro disgraziati, al fine di raggiungere gli anelati scopi che diversamente, almeno nell’immediato, difficilmente avrebbe colto.
Insomma, anche se non si hanno elementi decisamente probatori per dire che qualcuno della fazione politica avversa a Spallino abbia armato i caprai ci sono fortissimi sospetti per ritenere che, facendo leva sul furore che li animava, cci spincìer’u peri, li istigarono a commettere l’omicidio.
E così, subito, vennero fuori i nomi dei caprai Marannano, Quararuni, u Tusanu, Manciarracina e u Lagnu, quest’ultimo catturato solo dopo due anni di latitanza. Assicurati alla giustizia i presunti assassini, ci fu chi restò con le mani pulite anche se i nomi e i cognomi di costoro vennero mugugnati a lungo nei capannelli. Nel 1923 Marannano e Quararuni vennero condannati a 30 anni mentre i rimanenti tre furono prosciolti. Riportano le cronache dell’epoca che, dopo la sentenza, gli imputati “si scagliarono con invettive atroci contro i giurati e la corte” urlando la propria innocenza.
Scrive il prof. Cancila: “Per la giustizia, i caprai avevano agito per vendetta nei confronti del sindaco che aveva voluto un regolamento sull’esercizio del pascolo nei terreni comunali molto restrittivo e quindi per loro penalizzante, ma nell’opinione pubblica locale rimase fermo il convincimento che essi fossero stati soltanto gli esecutori materiali e che i mandanti fossero da ricercare all’interno del vecchio ceto dirigente che aveva regolato la vita economica e politica del paese nell’Ottocento e che era ormai in disfacimento”.
Negli anni a seguire successero, infatti, delle cose assai strane che gettarono luci fosche su uno scenario già di per sé inquietante. Dopo circa un anno Quararuni, cercò di scagionare Marannano dicendo che quest’ultimo era assolutamente estraneo ai fatti, che il sindaco era stato ucciso da un altro capraio, il latitante Andrea Mazzola, mentre Quararuni si sarebbe limitato a sparare un colpo in aria (per fare cosa?).
Il Mazzola, di lì a poco, fu tolto dalla circolazione e fatto trovare fulminato da una schioppettata nei pressi della Portella Colla in territorio di Petralia Sottana. Dopo meno di due mesi anche u Lagnu venne intercettato nei pressi della Culìa e fatto fuori senza tanti complimenti. Apparve a tutti chiaro che ai due latitanti fu chiusa la bocca per evitare che potessero spifferare particolari antipatici sull’omicidio del sindaco, anche se come mandante dell’omicidio dei due caprai venne inquisito il fratello minore di Antonio Spallino, l’avvocato Michele, all’epoca già membro del direttorio fascista di Castelbuono.
Con l’avanzata del fascismo e l’entrata negli “anni del massimo consenso”, fare luce sull’omicidio di Antonio Spallino avrebbe significato aprire un vaso di Pandora da cui sarebbero usciti senz’altro i nomi bene in vista di gerarchi e notabili locali. Pensarono bene, quindi, di lasciare perdere, confermando anche quella volta la validità del antico detto nostrano secondo il quale tintu cu mori. Ma la gente per bene, “quella che si fa terra e paese” e “dura più di un comune giro di stagione”, dal sacrificio di Antonio Spallino ha tratto una grande e severa lezione di civismo che ha permesso di realizzare, tra le altre cose, il radicato convincimento che il bene di un paese, di una comunità di persone, è assolutamente preminente rispetto alle miserie degli interessi privati.
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Ringrazio il professore Orazio Cancila, l’avvocato Mario Lupo e la sua segretaria Concetta Mazzola, il fotografo Rosario Mazzola che con le loro cortesie hanno reso possibile la pubblicazione di questo doveroso ricordo del sindaco Antonio Spallino.