L’OTTAVA DÛ SIGNURI
L’OTTAVA dû SIGNURI
di Giuseppe De Luca
[pubblicato su Le Madonie 15 maggio 1988]
Una volta con questa dizione venivano indicate le celebrazioni di una grande solennità liturgica: il Corpus Domini. Anni addietro, prima che in Italia alcune festività venissero spostate e definitivamente fissate nelle domeniche successive, il rito del Corpus Domini, agganciato come l’Ascensione e la Pentecoste alla santa Pasqua – cioè alla prima domenica del primo plenilunio primaverile –, sul calendario, per consuetudine, era segnato in rosso nel secondo giovedì seguente la domenica di Pentecoste. Era festa solenne a tutti gli effetti, anche civili, come ancor oggi avviene in altri Stati d’Europa e del mondo di tradizione cattolica.
A Castelbuono le commemorazioni duravano otto giorni: dal giovedì del Corpus Domini al giovedì successivo: quasi sempre erano racchiuse interamente nel mese di giugno: nell’aria, quindi, i primi calori estivi, i profumi delle erbe che asciugavano al sole, i voli ed il garrire delle rondini, lo scorrazzare degli scolari finalmente liberi dagli impegni del banco.
La vigilia del Corpus Domini c’era già aria di festa: tutti gli anni arrivava da un lontano paesotto, Resuttano, una famiglia con il solito carretto: e cominciava a sistemare i loggi (banconi coperti di teloni, color bianco sporco) in due posti fissi che veniva ad occupare pure, dopo qualche mese, in occasione della festa della patrona sant’Anna. Un posto era in Corso Umberto all’angolo con la via Di Stefano e quivi un uomo con due enormi lunghissimi baffi e un donnone, entrambi sempre vestiti di nero, gridavano i loro prodotti; l’altro era nella chiazza nnintra, accanto all’esonartece della Madrice Vecchia, e veniva amministrato dai figli.
Vendevano dolciumi di una «famosa fabbrica», premiata con medaglia d’oro in una non meglio identificata Esposizione. Erano bocconcini oggi andati quasi del tutto in disuso: i taitù (un impasto di farina, uova e zucchero, ricoperto di creme colorate ma principalmente di cioccolato; chissà quale nostalgico reduce delle prime spedizioni coloniali italiane di fine ottocento l’aveva battezzato con il nome della nera moglie di Menelik, Negus d’Abissinia …); petra fennula (dolce a base di mandorle tostate con miele e cannella); kubbaita di giuggiulena (di origine araba, confezionata con semi di sesamo, nocciole, miele e zucchero); mandorle e noccioline ajjacciati (granulate con zucchero); poi torroni vari, arachidi al forno, Càlia càuda-càuda (ceci, fave e semi di zucche frataie) abbrustolita al punto giusto.
Non si poteva mai stabilire se lì attorno arrivassero per primi nugoli di mosche e moscerini o torme di ragazzini, attirati, oltre che dall’odore, anche dall’insolita luce azzurrognola del lume ad acetilene, che conferiva all’ambiente semibuio dei lampioni un tono decisamente dirompente, gaio ed eccitante. A dozzine di mani tese i venditori, per usuale scaltra economica pubblicità, elargivano un assaggio di qualche cece, di qualche fava, di qualche bruscolino ed i ragazzini, come previsto, correvano subito a casa a prenotare i soldini: ma, tastando le tasche della bbunaca (casacca) oppure dû gileccu (gilet) del padre, sentivano scarsi rumori: conseguentemente squillava immancabile il ritornello: A festa ancora ha trasiri!…
L’indomani, giovedì, all’alba, e per otto mattine consecutive, il percorso della processione veniva anticipato dal tamburo di mastru Totò Vaccarella che, facendolo rumoreggiare caratteristicamente, senza alcuna cadenza metodica, avvisava le famiglie delle strade prestabilite che, quel giorno, toccava proprio a loro di veder passare Gesù Sacramentato. E perché a quell’ora? Semplicemente per il fatto che mastru Totò, sacrestano alla «Badiola», doveva accudire anche ai servizietti delle monache del Collegio di Maria, doveva servire la santa Messa e doveva altresì esercitare, sotto l’arco del Collegio, il mestiere di calzolaio, seduto ad un «bancarello» (deschetto) circondato da parecchi giovani apprendisti: ma, in quei tempi, all’alba come del resto per tutto l’anno, contadini, pastori e caprai, in paese, erano già in movimento per recarsi al lavoro a cavalcioni dei lori quadrupedi: la sveglia ed il tramestio erano quindi generali!… mastru Totò, fra l’altro, in quelle otto giornate, doveva di pomeriggio tenersi pronto a ripercorrere col suo prezioso tamburo, alla testa della processione, il tracciato già effettuato.
Quel prolungato tambureggiamento, all’alba, metteva le smanie addosso alle massaie, allora oberate pure dalla preparazione del pane in casa e dalla primordiale liscìa (pulizia della biancheria). Malgrado ciò si mettevano volenterosamente a spazzare la strada (doveva passare u Signuri!) con la ramazza della stalla; (questa, al pianterreno, era, nella maggioranza delle costruzioni, l’odoroso vestibolo dell’abitazione). La stalla ammucchiava, infatti: il quadrupede (asino o mulo) alla mangiatoia, la capretta per il fabbisogno familiare di latte, la letamaia, l’aggiuccaturi (posatoio, saltatoio) per le galline, la vecchia e sfondata carteddra (corbello) con la paglia dove queste ultime depositavano le uova di giornata, la pila di legno (vasca per la pulizia della biancheria e… del corpo), il soppalco a mezz’aria per la paglia ed il fieno e, infine, dietro la porta d’ingresso ccû accìettu (finestrella) necessariamente sempre socchiuso, il … grazioso bagno di ognuno, cioé u caduttu (imbuto di terracotta, smaltato)… per la raccolta di «tutto», acque e non acque… bianche e nere. La grassura (letame) raccolta quel giorno sulla via con la scopa di oleastro con minuziosa accuratezza, financo negli interstizi del selciato irregolare, veniva depositata nella letamaia della stalla in attesa di andare a concimare u stabbuliddru (piccolo e, spesso, unico podere di famiglia).
Appena le strade erano spazzate, ecco apparire i teneri figli con panierini di miriadi di cartirrizzi policrome, pieghettate o arricciolate, preparate con listerelle di carta velina o di fogli colorati da cinque centesimi; molti ragazzi recavano anche fasci di folti gerani rossi o bianchi.
Iniziava allora la preparazione, nel centro della strada, di un prolungato tappeto: i gerani disegnavano un bel grandioso cuore rosso o una grande croce o un ostensorio: attorno, attorno si stampavano, in variopinti curiosi disegni ornamentali, tutte le «carte ricce» del vicinato.
Il tracciato della processione pullulava quel giorno di energici fanciulli armati di canne, bastoni e forcelle di amolleo (uno strano corpo di «lanzichenecchi», fuori ogni ordinanza): si ripromettevano di non fare calpestare a nessuno, prima dell’arrivo del Signore, quel tappeto che ostentava la loro devota religiosità. Nei primi giorni di giugno centinaia e centinaia di contadini (scarpe di «pelo», camicia fuori dai pantaloni e fazzolettoni rossi in testa o al collo) cominciavano a pisari (trebbiare) e molti quadrupedi in ripetuti viaggi venivano a depositare a casa i sacchi di maiorca e tumminia (varietà di frumento) e i rrituna (grosse nodose reti) stipati di paglia; malgrado l’assenza di qualsiasi segnaletica stradale (anche la parola era sconosciuta) nessuno dei contadini però osava mai attraversare le strade della processione: erano sacre fin dalla mattinata!…
Per una settimana le galline (povere galline!…), erano costrette a rimanere nella stalla: qualche rara gallina, nostalgica dell’abituale ruspata quotidiana sulla strada, se cercava di eludere l’occhio vigile della padrona, se riusciva ad evadere, veniva immediatamente riacciuffata e risolutamente ricacciata indietro, magari con l’astuzia di un amorevole «ci … ci… ci… » (richiamo al pasto per i polli); se così non fosse stato avrebbe rischiato di essere stracquata (dispersa) dal passaggio della processione.