L’OTTAVA DÛ SIGNURI (parte 2)
L’OTTAVA dû SIGNURI (parte 2)
di Giuseppe De Luca
[pubblicato su Le Madonie 15 maggio 1988]
[Parte 1 disponibile a questo link]
L’unica domenica, che intermezzava l’ottava, la processione partiva dalla Madrice Vecchia, sede della Confraternita del Santissimo Sacramento. Tutti gli altri giorni dell’ottava partiva dalla Madrice Nuova. Nel primo giovedì della solennità vi partecipavano tutte le congregazioni al completo, tutte le confraternite, i ragazzi freschi della prima comunione con la fascia rossa ed il ricamo in bianco «Viva Gesù», gli ordini religiosi ed una marea di popolo; l’ultimo giovedì la processione si ritirava verso mezzanotte. Tranne che nel primo giovedì, negli altri pomeriggi si avvicendavano a turno rappresentanze di papai (confrati del Santissimo Sacramento): così venivano tessute tutte, o quasi, le strade del paese.
I papai avevano sempre l’onore di reggere il baldacchino a sei aste che durante il tragitto si caricava di parecchi chilogrammi di carti rizzi e di fiori lanciati dalle case: al ritorno, prima di rientrare, venivano scaricati sul sagrato, dove sciami di ragazzi a gara correvano a raccoglierli per riciclarli nei giorni successivi nella propria strada.
I papai in corteo erano preceduti dalla Croce ai cui piedi erano legate spighe di fresco frumento fra fiori di geranio rosso, rametti di citrunella e gli ultimi spezzacaddrùozzi (stigadossi e spigonardi): disciplinati dal mastru-massaru in tenuta quasi pontificale, avanzavano lentamente sotto l’ampia cappa bianca che, ad eccezione dei due occhi, li nascondeva interamente dalla testa alle scarpe. Gli altri uomini validi, che presenziavano solo ppâ festa dû Signuri (giovedì del Corpus Domini), si trovavano totalmente impegnati dall’alba al tramonto nei lavori agricoli o pastorali.
Le donne, al passaggio della processione, avevano modo di mostrare orgogliose il loro apparatu. Questo consisteva nell’esposizione della coltre all’uncinetto o della coltre asciurittata (decorata con fiori a rilievo sovrapposti) lavorate in casa: venivano sciorinate alle «inferriate» dei rari balconi o sulla cordicella tesa fra due rudimentali bastoni di frassino sporgenti dal muro della finestra, i quali fra non molto avrebbero sostenuto u cannizzu (incannicciato) per asciugare fichi, pomidoro spaccati e salati, zucche affettate, collane di pere e sorbe dimezzate, tutta roba provvidenziale per l’insaziabile fame dell’inverno.
In mancanza di questi appigli la coltre veniva stesa sul davanzale della finestra e i suoi lembi venivano affidati ai vasi che vi si trovavano: la pentola di ferro smaltata rossa, fuori uso, con il «balaco» (violacciocca), il secchio irrecuperabile, dal colore indefinibile, con i garofani penduli; u bummarieddru (ziretto) sdentellato, senza collo, dove vegetavano floridamente prezzemolo e basilico per gli usi casalinghi. E di fronte a tanta dovizia la massaia compiaciuta pazientava in attesa del Signore, alternando uno sguardo alla strada e uno alla sua migliore camera: quivi erano allineate alcune sedie scompagnate; il letto grande con i materassi di lana sulle tavole rette dai ferrosi trispi (cavalletti), sotto il quale si intravedevano già i primi sacchi di frumento, fave, ceci, anguzzi (cicerchie); rare donne potevano anche rimirare un canterano, una rinalera (comodino) o una cassa per la biancheria (i ragazzi e le ragazze, la sera, si stendevano su due pagliericci a terra, nell’affumicata cucina del secondo piano, che era anche l’ultimo della dimora – la mattina i due pagliericci venivano arrotolati ed accantonati).
Nelle case delle strade attraversate dalla processione c’era un gran vocio di attesa: alle finestre e ai balconi non mancava nessuno ed il candore delle coltri apparate si stagliava netto sulle facciate ondulate delle case celestine ripulite con latte di calce ed azzùolu (indaco).
Ed ecco in lontananza il tambureggiare di mastru Totò: ecco pronti altri fiori e carti rizzi, che volavano sul Santissimo al suo passaggio; ecco pronto un abbozzo di sorriso per le comari che avanzavano in folla dietro la portantina del Velasquez, faticosamente retta da due giovanottoni. Erano centinaia le donne di ogni età che seguivano con le spalle e la testa coperta dalla mantillina (la mant’illa spagnuola) o dallo sciallu â turca (rabescato di policromi disegni orientali) o dal guardaspaddri nero con la lunghissima frangia annodata: in quei tempi nessuna donna entrava in chiesa a capo scoperto. Durante tutto il percorso si sentiva il fruscio delle fadette (lunghe gonne che toccavano terra), lo scalpiccio delle scarpe a tacchi bassi ntacciati di piccole bullette leggere ed il mormorio delle preghiere intermezzate dal canto «Sia lodato ogni momento il nostro Dio in Sacramento», cui faceva eco il coro generale «Oggi è sempre sia lodato Gesù mio Sacramentato».
In quel brulichio tutti sudavano: l’Arciprete che doveva reggere l’Ostensorio, i numerosi sacerdoti, i papai sotto l’ampia cappa bianca che qualche volta erano proprio costretti ad arrotolarsela sulla testa come gli orientali, le giovani e le donne anziane: nessuno impreca va, però, contro il caldo.
E poi c’erano le benedizioni ordinarie e quelle straordinarie. Per quelle ordinarie, il primo giorno, la processione si fermava sotto l’arco dei Benedettini, â rua fera, all’imbocco della via Isnello, ô canal’i pigni, supra ô ponti e Padre Arciprete benediceva le campagne nei punti cardinali. Le benedizioni straordinarie avvenivano, previa licenza della Madre Chiesa, durante tutta l’ottava: nei vari rioni si alzavano altarini, fra candidi e preziosi lini ricamati dalle ragazze, fiori e ceri sistemati su tavole variamente congegnate oppure davanti a particolari edicolette votive: come sempre la benedizione era preceduta, su motivo da tutti conosciuto ma con immaginabili storpiature popolari, dal sacro inno latino «Tantum ergo Sacramentum, veneremur cernui… (Così grande Sacramento, veneriamo genuflessi…). Alla benedizione seguiva la giaculatoria italiana «Dio sia benedetto, benedetto il suo santo nome, benedetto Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo… recitata prima dal sacerdote e ripetuta poi in coro dalla massa del popolo.
… E si apriva, anche in quei giorni, la stagione della rara occasione della mezza granita di limone del costo di mezza lira, confezionata per mezzo della neve dei nostri monti, se la stagione era stata propizia. La neve, ammucchiata nei contrafforti o nei burroni delle grandi altitudini, doveva essere prelevata e racchiusa, protetta dalla paglia, in sacchi che i muli di un certo Vusciglia (lett. roverella, il cognome era Gentile) scendevano dalle Madonie; veniva poi inserita fra la piccola tinozza di legno ed il pozzetto di rame stagnato e questo, pieno nella giusta misura di acqua e di succo di limone e zucchero, si girava sveltamente a mano a cura di qualche intraprendente gelataio, fino a che, per lo strofinio sul freddo della neve, si riusciva a far coagulare il delizioso sorbetto.
A parte, però, i preparativi semplici ma sentiti, i diversivi goderecci e le ingenue esteriorità, faceva tenerezza assistere a queste commoventi manifestazioni di fede collettiva, che si compendiavano in sincere espressioni di spiritualità e calorose attestazioni di attaccamento al Signore.