“Memoria fotografica”, la nuova rubrica a cura del prof. Massimo Genchi

Quando nel 2012 si cominciò a discutere con la Redazione di CastelbuonoLive di una mia rubrica – che poi sarebbe stata CastelbuonoStorie – l’idea primigenia era di pubblicare, ad ogni puntata, una fotografia d’epoca cercando di estrarre da essa tutte le informazioni possibili sulle persone, sui luoghi, sul fotografo, sull’occasione che determinò lo scatto, condite con qualche aneddoto. Anche se nel corso delle trenta puntate di CastelbuonoStorie le fotografie ebbero un ruolo cruciale, si fece cosa assai diversa di datazioni, studio e inquadramento di materiali fotografici.

Oggi, a distanza di sei anni, mi piace tirare fuori dal cassetto quella vecchia idea di immergersi fra i particolari di una fotografia per riemergerne con la ricchezza di informazioni che da essa si riesce a trarre anche per ribadire un mio antico convincimento e cioè che un archivio fotografico, stricto sensu, non è un magazzeno dove si affastellano senza alcuna ratio le fotografie recuperate a destra e a manca, ma una cosa più seria e come tutte le cose serie, richiede non poco studio e rigore scientifico.


Gli auguri di Natale

Non si può, la vigilia di Natale, inaugurare una nuova rubrica senza che il tema della puntata abbia delle attinenze con la festa più sentita dell’anno.
I tre scatti fotografici (natalizi, appunto) che costituiscono l’oggetto di questa prima puntata di Memoria fotografica, stampati in formato 13 X 18 circa, risalgono al 1953 e si devono alla mano (e all’occhio) di Peppino Puccia, un maestro elementare con il bernoccolo della fotografia che, a partire dal 1946, resse lo studio fotografico omonimo (il timbro apposto a tergo di ciascuna foto riporta la ragione sociale “Studio fotografico Andrea Puccia”), dapprima da solo, poi coadiuvato dal fratello, finché non lasciò del tutto, allorché dovette traferirsi a Palermo.

Le immagini ci portano alla Badia, allora sede centrale della scuola elementare, esattamente in quella che oggi è la sala delle capriate. La numerosa popolazione scolastica di allora, quando a Castelbuono si contavano ancora trecento nascite l’anno, era distribuita fra la Badia, appunto, e san Francesco. Il trasferimento nei nuovi edifici di san Paolo e di san Leonardo, esteticamente e urbanisticamente assai difficili da digerire già allora, sarebbe avvenuto qualche anno più tardi.

Sono gli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze di Natale del 1953 e nella sala degli insegnanti troneggia un gigantesco agrifoglio che dire spartanamente addobbato appare come una bonaria esagerazione. Il grande drappo stellato sulla parete di fondo permette di dedurre che alla sua base è stato cunzatu il tradizionale presepe, anch’esso di dimensioni non trascurabili, come era consolidata consuetudine allora.

In primo piano, sul tavolo, un’urna piena di bigliettini per la pesca natalizia. Un giovanissimo maestro Pippo De Luca è intento ad azionare la manovella per il rimescolamento. La nuova amministrazione socialcomunista, da poco insediatasi, in occasione delle feste di fine anno, volendo far sentire la propria vicinanza ai bambini e alle rispettive famiglie, in quel periodo molto spesso in condizioni economiche precarie – dâ Misiricòrdia appinnina -, si sentì in dovere di attingere alle casse dell’economato per finanziare quella pesca con materiale scolastico: quaderni, matite, gomme, penne, ma anche giocattoli (in grande evidenza fra le mani del sindaco Gino Carollo una trottola a giroscopio verniciata, di generazione postmoderna rispetto a quelle vetuste di legno, sgranate e squilibrate) e per i più fortunati, degli indumenti, come quel fiammante paio di scarpe che fuoriesce parzialmente dalla scatola, certamente acquistato da Cicco & Mico a Quattru cannola o da Mazzuleddra â chiazza nnintra.

Il sindaco Gino Carollo, che aveva appena 31 anni, era stato eletto dopo che la lista Autonomia e Rinascita che lo sosteneva l’aveva sorprendentemente spuntata per un centinaio di voti sull’Unione Democratica Cittadina, di ispirazione democristiana, guidata da Vincenzo Carollo e da Pietro Sapienza e sul Movimento Sociale Italiano, molto distanziato. In consiglio i socialcomunisti avevano una maggioranza schiacciante di ventiquattro seggi contro i sei dell’opposizione. Gino era uno dei pochissimi comunisti di Castelbuono (nel 1947, quando il PCI ebbe la sua sezione, assieme a lui c’erano soltanto Ciccio Di Garbo, Micu Santannuzza, Peppino Caligiuri, Giovannino Mancuso, Vincenzo Pinsino, Ciccio Toscano, Rosario e Gioacchino Genchi – mio padre e mio zio – e forse nessun altro) in quanto il grosso della sinistra militava nel glorioso partito socialista che, anche a Castelbuono, affondava le proprie radici nelle leggendarie lotte per l’emancipazione del proletariato di inizio Novecento e che in quel secondo dopoguerra aveva i punti di riferimento nelle persone di Pietro Cangelosi, the boss, padre del dottore Matteo Peppino Cangelosi e di mio nonno Sariddru Genchi. Benché i socialisti rappresentassero il 95% della sinistra, incuranti delle percentuali, vollero che il candidato sindaco fosse Ginuzzu, perché era un giovane in gamba, colto, intelligente e politicamente acuto. Il fatto che appartenesse ai meno rappresentati era di nessuna importanza. Esattamente come oggi, né più né meno. Gino si era formato politicamente soprattutto nel corso dei due anni in cui era stato recluso nel campo di concentramento a Wietzendorf in Germania, a contatto con tanti comunisti e attivisti di mezza Europa. Per un certo periodo fu anche compagno di baracca di Giovannino Guareschi, autore della saga di Peppone e don Camillo.

Al suo ritorno a Castelbuono, aveva cominciato la sua carriera di insegnante nella locale scuola elementare. In quegli anni tra i suoi allievi vi era un ragazzino, tale Accomando, di origini palermitane che alloggiava con la famiglia, alquanto disagiata, in uno dei corpi a piano terra del baglio interno del castello. Gino, fine dicitore, persona di humour raffinato, in quel periodo soleva raccontare che dal momento che il suo alunno Accomando non brillava né per impegno né – tantomeno – per igiene personale, ogni mattina era costretto a porgli sempre la stessa domanda: «Accomando, t’a lavasti a facci?» e l’allievo, stravaccato com’era sul banco, ribatteva senza scomporsi, con la sua schietta parlata palermitana: «mû scuiddavu!». Pausa, mai come in questo caso di riflessione, per aggiungere subito dopo: «Ma pua, ricu ìa, picchì mâ lavari a facci, ca s’alluiddìa arrìa?».

Gino, nella circostanza immortalata in queste tre fotografie, si trova dunque nella doppia veste di sindaco e di insegnante. Alla sua sinistra, l’anziana signora è la direttrice Sanacore e tutt’attorno i suoi colleghi: da sinistra a destra le maestre Anna Lupo, Maria Barreca, Amalia Raimondi, Vincenzina Ippolito e Anita Fiasconaro, quest’ultima impietosamente tagliata dall’occhio, per una volta maldestro, del collega Peppino Puccia. Ad averne di maestre come queste: maestre di vita, maestre e mamme nello stesso tempo, esempi di mirabile pedagogia, e preparazione da mettere in fuga qualche pseudo cattedratico di oggi. E poi i colleghi maschi, che non erano da meno: l’indimenticato maestro Agostino Polisi, alla destra di Gino Carollo con la giacca rigata e i capelli ravviati all’indietro, il maestro Sasà Di Liberti con il maglione scuro sotto la giacca e il maestro Pippo De Luca, a destra, avvolto in un evidente sciarpone. Se non ci si fosse dati la scadenza di pubblicare il pezzo entro oggi, si potrebbe cercare di dare un nome anche ai numerosi alunni, soprattutto a quelli ritratti di spalle.

I rimanenti personaggi della fotografia, col sindaco, fanno parte della delegazione comunale. Alle spalle della direttrice, l’assessore alla pubblica istruzione e ai lavori pubblici Sariddru Genchi con l’inseparabile alfa senza filtro fra le dita (gli altri assessori erano il boss Pietro Cangelosi, vicesindaco, Rosolino Alberti e Rosario Puccia), lo smilzo segretario rag. Antonio Farinella, con gli immancabili occhiali scuri, il consigliere di maggioranza, il commerciante Giovannino Di Garbo, Pizzilìa, e, alla sua destra, il comandante dei vigili urbani, Peppino Bonomo, inteso u maresciallieddru, fratello del precedente sindaco, Filippo Bonomo, uomo di specchiata inflessibilità e indiscutibile dirittura morale.

La pesca di beneficienza costituì per l’amministrazione l’occasione di porgere gli auguri di buone feste di fine anno ai maestri e ai numerosi scolari. Naturalmente una cerimonia sobria e intima, senza ostentazioni, senza straripamenti di ruoli, senza alcun mmitu largu e soprattutto senza nessun secondo scopo. E qui mi taccio.

E visto che è l’antivigilia, tocca anche a me porgere i miei più sinceri auguri di buon Natale, soprattutto a chi crede. A quelli come me che, grazie a Dio, sono atei auguri di un ben mangiare e ottimo bere, oltre che di godersi la vita.

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