Michele Lupo Gentile, dalla Via Petagna alla Scuola Normale Superiore di Pisa (seconda parte)
Nacqui in un paese assai ridente, quasi alle falde delle Madonie, da un piccolo possidente, e da una donna di casa tutta dedita alle cure della famiglia. Erano le quattro e mezzo di notte e la neve cadeva a larghe falde sui tetti e le strade. Questa circostanza non è stata per me di poca importanza, non avendo potuto le stelle benigne o maligne influire sul mio destino. Quel poco che ho fatto e che continuo a fare nella vita privata e nella scuola, debbo esclusivamente a me, coll’aiuto solo di Dio Padre Onnipotente. Mio padre era un bell’uomo, alto e dritto, robusto e barbuto, somigliantissimo a Garibaldi; di carattere fino e tenace, era orgoglioso di aver fatto la campagna del ’66 [terza guerra d’indipendenza] come umile soldato nell’esercito del Lamarmora. Mia madre era una piccoletta, dal viso rotondo e lineamenti delicati, ma forte e operosa, e specialmente di un’attività straordinaria nelle faccende domestiche. Era soprattutto religiosa, e quasi ogni sabato digiunava e si metteva in grazia di Dio coll’ostia consacrata che riceveva con devozione nella chiesetta dei Cappuccini. Quando ripenso a lei, rivedo la sua figura sempre in movimento, ora salendo le scale carica di pane, uova, boccali di vino e ceste ricolme di ogni specie di provviste, allestendo saporite e abbondanti minestre; ora al telaio a tessere la biancheria di lino, già seminato, gramolato e filato dalle nostre contadine.
Riandando con affettuoso senso nostalgico agli anni della fanciullezza, mi sembra di risentire ancora, velate di profonda e soave poesia, le voci delle campane del mio dolce paese. Quando il sole baciava cogli ultimi suoi raggi le Madonie e le campagne circostanti, la campana di Santo Antonino, dalla voce quasi umana, annunziava coi sui tocchi baritonali e tristi l’Ave Maria, cioè la prossima fine del giorno e il pauroso mistero della notte, quasi preludio della fine delle cose umane. La stessa campana, invece, all’alba, coi medesimi tocchi, ma leggeri e quasi allegri, suscitava sentimenti diversi, richiamando i lavoratori a sorgere dal caro letto per riprendere, con fiducia nella Provvidenza, le usuali e sante occupazioni campestri. La sera di sabato, e nelle vigilie dei giorni festivi, tutte le campane del paese, capeggiate da quella di Santo Antonino, irrompevano a un tratto in uno scoppio di voci argentino, piene di conforto e di promesse. Ma alle volte, all’improvviso, anche in pieno giorno, mentre il sole irradiava a sé i suoi splendori, che si spandevano nell’aria tiepida e dolce, e tutti sentivano la gioia di vivere e di lavorare, la campana di Santo Antonino intonava lugubri rintocchi, infondendo nell’animo malinconia e sgomento. Le finestre e i balconi allora si aprivano come per incanto, e le donne si affacciavano ansiose e scure in volto, esclamando: “chi è morto?”. Quale contrasto nei tocchi delle campane nelle varie ore del giorno! Quelle campane, quando io mi trovavo lontano dalla mia terra, riecheggiavano nel mio cuore immagini e ricordi assai cari.
I coniugi [i miei genitori] si volevano un gran bene, sebbene non lo lasciassero trapelare: l’uno era piuttosto brontolone, burbero con tutti, parco nello spendere da rasentare qualche volta la tirchieria; l’altra docile e buona; incapace di dir male di alcuno, compativa tutti; amava talvolta spendere, non per ornare la sua persona con gingilli o amuleti di sorta, ma per comprare cose utili ed abbellire la casa, sua prediletta cura. Sapendo l’umore dello sposo, la povera mia mamma non gli chiedeva mai un soldo, ma provvedeva da sé alle piccole spese di casa coi suoi risparmi, provenienti dalla vendita di uova, di qualche formetta di cacio o di qualche litro di vino. Aveva una gran passione per la biancheria, che serbava religiosamente in rotoli ben allineati, dentro grandi casse di noce. E tutta questa biancheria, dalla grossa per le lenzuola, alla damascata per tovaglie, tovagliuoli e asciugamani, mandava un profumo speciale, suggestivo e confortante.
Anche l’indole era diversa: mio padre vedeva sempre nero, si preoccupava per ogni nonnulla; e quando una tempesta si abbatteva nella campagna del paese o il vento stroncava gli alberi, era disperato. Temeva che andando a male tutto il raccolto dell’annata, alla famiglia sarebbe venuto meno il pane o che gli ulivi non avrebbero potuto produrre più una goccia d’olio. Era però di una operosità meravigliosa: da mane a sera stava attorno ai suoi campi, alle mucche e alle bestie da soma, come muli ed asini, che considerava i suoi migliori amici. Siccome dormiva pochissimo, si alzava da letto sempre prima dell’alba, al cosidetto Pater noster, e voleva che anche gli altri di casa, uomini e donne, facessero lo stesso e lavorassero. Mia madre era invece sempre ottimista, diceva sempre che tutte le difficoltà si appianano sempre col tempo e che la Provvidenza non abbandona mai miseri mortali.
Della mia infanzia ricordo che sino a due anni fui tenuto sempre in braccio, perché, sebbene fossi sano e vigoroso, non avevo voglia di camminare colle mie gambine; ero molto vivace e prepotente, picchiavo gli altri bambini e strillavo spesso quando non mi davano da mangiare abbastanza o mi negavano qualche cosa. Per farmi stare quieto (buono, come si dice in Sicilia) minacciavano di chiamare “Bastiano”, un ciabattino del rione, zoppo e butterato, un vero mostro, di cui io avevo paura matta; ovvero mi parlavano di diavoli, streghe e di fiamme infernali: Rizzerebbero i capelli i moderni pedagogisti (…).
A cinque anni, essendo ancora febbricitante per il morbillo, una cugina tanto affezionata, ma ignorante di cure sanitarie, credette di farmi guarire presto, portandomi a casa sua e facendomi ingoiare non so quanti fichi d’India, di quelli molto gustosi e profumati, i cosiddetti bastarduna, di cui mi sapeva ghiottissimo. C’è mancato poco ch’io non andassi all’altro mondo! Non potendo più soddisfare i miei bisogni naturali, avevo dei dolori di ventre fortissimi. Mio padre, uomo pratico e spicciativo, invece di allarmarsi e chiamare i dottori, verso i quali non aveva punto simpatia, volle provvedere da sé alla bisogna, facendomi un’operazione chirurgica molto semplice con un rustico cavicchio, che senza recarmi alcun dolore, mi liberò del grave pondo. Oggi naturalmente i sanitari inorridirebbero contro simili sistemi contrari alla terapia scientifica! Dopo l’operazione mi rifilò un diretto al mento che mi fece urlare come un dannato, e si mise a scazzottare la cugina, stendendola a terra secca come un chiodo.
Risanato, fui mandato con mia sorella ed altri familiari a cambiare aria, ai Pedagni [una contrada di Castelbuono a circa m. 600/slm], in una casetta rustica, ma pulita, proprio alle falde delle Madonie, da dove si gode un panorama magnifico. Dopo due giorni che me ne stavo lì, a sorbire a larghi sorsi l’aria pura e balsamica dei monti, capitò un episodio che fece su di me un’impressione terribile. E tuttora ne risento le conseguenze. Una notte si scatenò improvvisamente un gran temporale con tuoni, lampi frequentissimi e saette. Apriti cielo! Sembrava di essere in una bolgia infernale. Mia sorella e tutti gli altri familiari balzano dal letto esterrefatti, chiudono ermeticamente ogni cosa, spengono la luce scialba di una candela a olio che pendeva dal soffitto e si mettono a gridare, tenendo me, infagottato come un salume, fra le braccia: «Santa Barbara, non tronate, salvateci, salvateci». Poi s’inginocchiano e si mettono a recitare le litanie dei Santi, gemendo e lacrimando. Io, che vedevo quelle facce stravolte, e che sentivo quei lamenti e quelle invocazioni, stavo muto e tremante senza fiatare; credevo proprio che stesse per venire il finimondo. Per fortuna tutto cessò dopo mezz’ora, tornò il sereno e l’allegria; ma l’impressione fu tale che d’allora in poi, quando scoppia un temporale, coi relativi tuoni, io perdo la bussola. Se di notte, mi alzo, levo la corrente elettrica, chiudo bene le finestre e sveglio tutti i miei perché stiano in guardia per quel che potrebbe capitare (…).
È un bel dire, a mente serena, ch’è una sciocchezza aver paura dei lampi e dei tuoni: ormai è rimasta in me radicata, sino alle midolla, quell’impressione e non riesco a vincermi; il pensiero in quella circostanza è sempre a Santa Barbara anche se di questa santa non conosco la vita e i miracoli. Aveva ragione il grande pedagogista Giuseppe Lombardo Radice quando affermava che le impressioni dell’infanzia restano indelebili per tutta la vita. D’altra parte questa impressione di paura di fronte ai fenomeni naturali non mi ha impedito, durante la grande guerra, di fare il mio dovere di soldato, senza avere paura del nemico, né m’impedisce oggi, quando capita, di mollare delle sberle contro i vigliacchi d’Italia, e di bollare in qualche quotidiano le magagne che si commettono in alto e in basso.
A sei anni fui mandato a scuola, con grande mia soddisfazione, perché mi sembrava d’essere cresciuto d’importanza e d’essere già diventato un omino. I miei genitori veramente, sulle prime, mi stimavano
un lasagnone, ma si dovettero ben presto ricredere, perché mi misi a studiare sul serio e con passione senza che essi mi richiamassero mai all’osservanza dei doveri scolastici. Non ero però uno sgobbone e alternavo lo studio coi divertimenti. I miei compagni mi presero a ben volere, sicché io ero considerato il loro consigliere e amico fedele. E mi servivo di questo ascendente per avere sempre attorno un codazzo di ragazzi, ai quali spesso facevo lunghe concioni da un’alta mangiatoia di una stalla e da una vecchia giara (…). Malgrado lo studio, divertimenti e scappatelle frequenti in quell’età, trovavo anche il tempo di fare qualche servizio a mia madre. Mancando l’acqua potabile in casa, andavo spesso con due grossi recipienti di terra cotta, le cosiddette lancelle, alla fonte pubblica del Canaliellu [oggi in via padre Gaetano Tumminelli], per rimediare alle necessità domestiche. Mia madre era oltremodo sodisfatta, perché io le alleggerivo le fatiche di casa, non avendo sempre a nostra disposizione una donna di servizio (…).