Micu il cinghiale e l’acqua | Di Francesco di Garbo
Sequel dell’acqua – Tempo di lettura 9-12 minuti
(Di Francesco di Garbo) – Mi aggiravo disperato per boschi e ville lungo la pedemontana settentrionale delle Madonie basse, ero un forsennato alla ricerca d’acqua. Avevo girato tutti i posti noti e ignoti per dissetarmi con la mia famiglia senza successo. Era tutto arido e secco, terreno duro. Seppur scavando più del dovuto nemmeno l’ombra di un po’ d’umido. Le ville e gli orti recintati e fortificati erano inaccessibili e noi ci stavamo estinguendo dato che l’habitat desertificato era diventato inospitale. Gli ultimi cinghiali delle Madonie basse, si sarebbe detto. Emigrare verso le alte era inconcepibile, sebbene qualcuno si azzardava. Lì l’acqua era ancora a portata di mano. Ci restava poco tempo a disposizione, un countdown inesorabile quanto esiziale. Avevamo una clessidra corporea che si assottigliava sempre di più e morire disidratati era cosa immediata. In lungo e in largo per la pedemontana alla ricerca di un’oasi ci dibattevamo; tra Vicaretto e Lancenia scorrazzavamo ma niente di buono si trovava. Torrenti e rigagnoli tutti prosciugati incontravamo, anche la piscina della cava Roccalupa era evaporata. Gli ultimi giorni c’eravamo stanziati lì che c’era ancora una piccola pozzanghera risicata che il solleone stava risucchiando. Quindi siamo ritornati indietro verso il paese con la speranza di qualche “nacuni” ascoso dalla vegetazione dove il sole non poteva arrovellarlo, nel fiume grande, o nel torrente piccolo. Un pochino di refrigerio lo trovammo e d’una bevuta ci accontentammo tanto per procrastinare il momento cruciale.
“E chi l’avrebbe detto che ci saremmo trovati così assetati col verde che diventava giallo e sembrava sempre estate. Era inimmaginabile! Eppure…”.
La spianata aprica era picchiata a fuoco dal torrido solleone ostro quasi equatoriale di mezza estate. E meno male che non era soffocante afoso, orrendo e opprimente di quando si suda anche senza muovere un dito e il respiro si fa lestamente affannoso. Migliaia di persone erano in fila in estenuante attesa del proprio turno. Per ripararsi dal sole perpendicolare della mezza stavano a ridosso delle case. All’incrocio, detto bivio grande, sotto un enorme gazebo era parcheggiato un autobotte che riempiva le taniche da dieci litri alla gente: massimo due a testa
“Te l’avevo detto che saremmo arrivati a questo punto”. Lo apostrofò Pietro girando la mano a cerchio vedendo la fila. E tu che non volevi crederci”. Volgendosi, trasecolato, al suo vicino e compare di fila guardandolo in tralice. Lui, Pino, lo guardò di sottecchi da sotto la tesa del Panama sfilacciato, usurato. Non rispose perché aveva torto marcio. Entrambi fecero buon viso a cattiva sorte ed erano a molto meno di metà dall’impresa.
Erano due anni che non pioveva come si deve. O arrivavano bolle d’acqua a secchiate che scorrevano via veloci verso il fiume, oppure si trattava di pioggerellina da “neglia piscialora”; roba da “tappina” che alle sorgenti non faceva un baffo, più che meno all’arsura della terra. Gli umani raccoglievano l’acqua piovana con bacinelle e secchi per conservarla di scorta nel fusto grande. Si era al punto di non ritorno di razionare l’acqua, anzi era stato abbondantemente superato. Prima erano due le spianate che servivano la popolazione, oggi un autobotte comprato di secondamano è andato nel pallino con noie meccaniche e si trova in officina.
In realtà era una scusa ben congegnata perché ero stato io a svuotarlo nottetempo. Un giorno di nascosto mentre andavo in perlustrazione per la periferia del paese mi sono accorto che da questo aggeggio, che non saprei come classificare, usciva acqua che davano agli umani. Acquattato osservai con attenzione tutta la messinscena finché non capii come funzionava. Mi accorsi che lo riempivano di notte prima di andare a dormire in modo d’averlo già pronto la mattina, poi lo lasciavano incustodito parcheggiato vicino al serbatoio. Così quella notte stessa di soppiatto andammo nell’aggeggio e con i denti a furia di dai e dai riuscii ad aprire la saracinesca e l’acqua cominciò a scorrere copiosa ai nostri piedi. Ci siamo abbeverati a lungo e facemmo uno sguazzo in quel popò di sentina per tutta la notte, gongolando a iosa in quel pantano improvvisato. Quando vennero a prenderlo e s’accorsero del fattaccio agli addetti il Sindaco disse di mettere tutto a tacere improvvisando la scusa e minacciando strali a chiunque l’avesse spifferato; cioè lui o l’acquaiolo.
Di conseguenza la gente si riversò tutta nella spianata alta del paese. Migliaia di persone in coda. “Assalto all’autobotte!”. “Scena da tregenda!”. Ognuno aveva una quantità d’acqua a settimana di cui poter usufruire. Un marchingegno simile ad un saturimetro veniva infilato nel dito medio che misurava la rimanenza spettante, ogni tizio rappresentava un nucleo familiare composto da tot persone.
Arrivato al rubinetto l’utente metteva il saturimetro al dito e l’addetto leggeva la quota rimanente quindi riempiva le taniche. Quasi tutti erano muniti di carrelli per sopperire al peso, in specie le persone anziane. In coda o altrove tutti avevano la mania di controllare la quantità d’acqua restante, come se fosse un orologio da polso. Quando i litri scendevano sotto la soglia dei cinquanta erano cazzi amari. Si era creato una sorta di libero mercato nero delle vacche magre in cui l’acqua era pagata a caro prezzo, se non come l’oro quasi. Di fatto era diventata il nuovo oro blu.
“Quanta te ne rimane? A che punto sei?”. Si vociferava lungo la fila. E ognuno biasimava, strascicava qualche numero con tono dimesso, soffocato dal magone. C’era chi assetato doveva elemosinare un mezzo bicchiere e spesso si vedevano persone languire disidratate distese per terra contorcersi per la sete con un rigo di bava che fuoriusciva dalla bocca. Gruppi di volontari giravano con bottigliette da un quarto per dissetare o rifornire gli anziani e gli ammalati a domicilio. L’acqua da bere si doveva comprare per la gioia degli acquaioli. E si economizzava per rivenderla al mercato nero. Spesso si usava l’acqua in malo modo, riciclandola e depurandola col fai da te col risultato che restava piena di batteri, pur di guadagnarci qualche soldino.
La siccità incombeva e si inventavano riti apotropaici d’ogni tenore, sia arcaici quanto ex novo: dalla processione, alla danza, dai sacrifici animali alle preghiere dirette. La vegetazione soffriva l’arsura e la frasca rinsecchita era benzina solida pronta ad avvampare. I serbatoi avevano iniziato a prosciugarsi da tempo scendendo sotto il livello di guardia, ma la cosa, come al solito, era stata presa sottogamba dalle autorità. Inesorabilmente il livello scendeva con continua costanza da due anni a questa parte. Le autorità guardavano l’idrometro e volgevano lo sguardo al cielo restando a bocca aperta nella speranza del Padreterno. “Prima o poi dovrà piovere, diamine! Siamo appena all’inizio dell’autunno. Speriamo in bene, che venga giù copiosa”. Disse il Sindaco all’acquaiolo che disperato scuoteva la testa. Poi quando i buoi erano già belli e scappati lontani e irraggiungibili presero il provvedimento di razionare l’acqua, il più facile e a minor costo sia economico quanto mentale. La colpa veniva addossata più alla iattura, agli spiriti maligni e alla sfiga che non ai cambiamenti climatici. Misere scuse date in pasto alla gente per giustificare l’inazione a prendere provvedimenti efficaci come il rifacimento della rete idrica. La narrazione che le autorità propalavano come un disco rotto era che la causa fosse dovuta a certe stregonerie, riti sabbatici di indemoniati e alla iella sparata da qualche bastian contrario. In ciò erano maestri a raccontarla bella bella. Il bello, nondimeno, era che la gente ci credeva.
“Almeno la distribuzione la facessero di notte o la mattina presto anziché con questo sole che spacca le pietre e viene un’arsura che te la raccomando”. Disse Pietro a Pino lamentandosi a bassa voce per non farsi sentire. “E che la mattina presto devono servire i cosiddetti produttori. Loro hanno la precedenza, poi vengono le famiglie”. Rispose Pino.
“Ma non potrebbero comprare dei cammelli e fare un servizio a domicilio, porta a porta?”. Propose Pietro. “Tanto la desertificazione avanza e un paio di pariglie di cammelli, animali che nel deserto si trovano bene, bevono una volta a settimana e sono molto resistenti al caldo, potrebbero risolvere il problema invece di far fare queste seccanti ed esacerbanti file. Ci potrebbero mettere un paio di otri in pelle vacchina da un lato e dall’altro per portare l’acqua e il gioco è fatto”. Continuò Pietro strizzando l’occhio a Pino che aveva un certo ascendente sul Sindaco. Il mugugno della gente, sordo e querulo si elevava in tutta la spianata e assordava le orecchie accaldate gonfiando le teste come un pallone.
Nella spianata si prendeva il numerino dal dispenser per evitare furbate e scavallamenti vari che in passato avevano causato zuffe e colluttazioni con ferite e ammaccamenti. Anche lì, per il numerino, il mercimonio era di prassi. Alcuni lo facevano di mestiere ad arrivare presto o dormire nella spianata per rivendere il numero a chi aveva fretta e poteva comprarlo a peso d’oro. Il rischio però era che poi andando a finire in fondo alla coda si poteva rimanere senza acqua. Infatti a volte l’autobotte non riusciva a rifornire tutta la fila. Oppure doveva tornare al serbatoio e raschiare il fondo del barile per fare un secondo giro. Tutto questo creava enorme dispendio di energie, di tempo e prostrazione nelle persone con annesse maledizioni varie verso le autorità.
Si vociferava a tambur battente: “Sarebbe pure ora che le autorità preposte si muovessero, si dessero una mossa repentina a fare qualcosa di utile invece di rimpallarsi lo scaricabarile tra ATI e Sindaco, Area metropolitana e Comuni, Regione e Stato, triccheballacche e cammellate”.
Era da più di mezzora che Pino e Pietro litigavano a rimpiattino sulle responsabilità del flagello. Uno dava la colpa all’ATI, l’altro al Sindaco. Tutte le altre cose che dicevano erano superflue in quanto il succo era quello: ATI/Sindaco, ATI/Sindaco… S’aveva il sospetto che disquisivano perché non avevano altro da fare mentre languivano attediati in coda. Eppure se la menavano come galletti in gabbia, al punto che sentendoli pestare l’acqua nel mortaio e non sopportandoli più intervenne una signora due passi dietro di loro.
“Guardate cari miei che Sindaco e ATI sono la stessa cosa, medesima persona; una fava per due piccioni, stessa persona con due ruoli. Sapete com’è meglio avere due tette dove poter “addattare” che una”. I due si guardarono negli occhi strabuzzati increduli e basiti. La signora aggiunse: “Dovreste ben sapere che i politici sono ingordi quando si tratta di suggere. E il piano B dove farsi paracadutare in caso di necessità ce l’hanno sempre pronto”. Concluse con tono inacidito.
La desertificazione avanzava passo passo inarrestabile e non sapendo che pesci pigliare dato che l’acqua salata senza dissalatore non si può utilizzare le autorità sofisticavano. Ma si sa che la creatività vulcanica è illimitata quindi adottarono l’idea di utilizzare i cammelli per trasportare l’acqua dalla sorgente fino al paese. Li caricavano con gli otri di pelle di vitello e come una carovana del Sahel li conducevano in paese. L’ideona era meravigliosa e fece un sacco di scalpore. Porta a porta, due otri per parte erano duecento litri d’acqua che servivano dieci utenti ogni cammello, anziani e ammalati ovviamente; gli altri tutti alla spianata.
Alla lunga però il problema persisteva duro da sradicare e di pioggia nemmeno una goccia. Qualcuno la prendeva come una maledizione del Signore contro i peccatori incalliti, come Sodoma e Gomorra.
“Cazzo me ne rimangono solo venti litri indica il saturimetro, e siamo solo a metà settimana”. Diceva un ragazzo due passi più avanti grattandosi la testa non sapendo dove sbatterla.
“A me ne restano solo trenta e devo farci pure il bucato”. Gli faceva eco un altro con espressione costernata.
“Peggio per te che te la sei venduta per giocare nelle macchinette”. Gli disse una signora vedendolo angosciato, con la barba incolta e gli abiti insozzati per risparmiare.
Un signore anziano più in là barcollò, aveva il respiro corto affannoso. L’aria era quagliata come ricotta che sale nel calderone e lui vorrebbe essere in alto nel piano della Ciminnita, tra i prana (Aceri comuni) e gli oucchiu (Aceri montani), o tra gli agrifogli di piano Pomo dove l’aria è rarefatta e si respira fresca. Posti che frequentava da giovane come dilettante micologo ed esperto fungaiolo di funghi basilischi. Lo fecero sedere nno scaluni che non c’era neanche una panchina, nemmeno un filo d’ombra. I bei alberi frondosi erano stati capitozzati come attaccapanni e avevano germogliato solo qualche esile ramoscello qua e là. Una virago gli si fece accanto, lesta si tolse il grembiule da cucina e lo sventagliò per benino. Gli slacciarono la cravatta e sbottonarono la camicia per liberare il collo dalle strettoie. L’attempato signore in completo blu notte, seppure sgualcito ci teneva di suo a figurare. Si riprese un po’ scuotendo il capo.
Un accolito del Sindaco a libro paga per sminuire l’accaduto si prese la briga di spezzare una lancia ignominiosa e sbraitò: “Ma è così vestiti che si viene all’acqua? Con questo caldo poi… ci vogliono maniche corte e bermuda! C’è solo lui in abito striato manco fosse Sant’Anna!”. Prende anfa per la bella battuta e prosegue: “Sempre a dare la colpa al Sindaco come se avesse la bacchetta magica!”. Esclamò aggrottando la fronte additando il vecchietto.
In tutto ‘sto tourbillon di voci, smarrimento e disorganizzazione c’era chi paventava il rischio colera, c’era chi aizzava la gente per chiedere al Sindaco d’aumentare la quota d’acqua settimanale. Malumori e geremiadi si aggiravano per il paese soprattutto tra le donne. Intanto noi poveri cinghiali dopo la scorpacciata di quella notte nel giro di una settimana avevamo ripreso a soffrire la sete. Si tribolava pene inenarrabili per colpa della bieca inettitudine umana. Eravamo nel fondo dell’inferno nel girone degli innocenti circondati dal fuoco senza via di scampo nel vallone tra Liccia e Margiazzi, e quivi intrappolati morimmo carbonizzati a forma di pallone aerostatico e non se ne seppe più nulla. Infernali abbruciati perché profondi e non superficiali.