Mussolini a Castelbuono: di striscio, sfrecciando come il vento

(Di Massimo Genchi) – Esattamente un mese dopo le tristemente note elezioni politiche del 6 aprile 1924, il presidente del consiglio Mussolini si recò in visita in Sicilia. Da Palermo, dopo avere incontrato le autorità del capoluogo, si spostò immediatamente a Gangi, per rendersi conto di persona del dilagante fenomeno del brigantaggio e della mafia del feudo. Ciò, assieme ad altre situazioni del tutto simili riscontrabili in tutta l’Isola, come è noto, avrebbe determinato il conferimento di pieni poteri al prefetto Mori, che avrebbe prodotto risultati eclatanti quali, l’assedio di Gangi del capodanno 1926, e la cattura di un numero abnorme di malavitosi e di affiliati alla mafia. Ma, come si sa, quella fu soprattutto una operazione di pura propaganda politica messa in atto con misure fortemente repressive che però colpì esclusivamente la cosiddetta «mafia degli stracci», non certo quella degli agrari e di chi manovrava la regia del malaffare.

Quel 6 maggio 1924, dopo avere banchettato nel feudo san Giaime, ospite del barone Li Destri, dove sicuramente non mancavano mafiosi seduti al suo stesso tavolo, il Restauratore delle sorti d’Italia era atteso a Castelbuono, paese di Cucco, uomo di punta del fascismo palermitano. Qui, si capisce, tutta la cittadinanza – o quasi – si era preparata a dovere per accogliere con ogni sfarzo il duce del fascismo. Dalla puntuale cronaca di quel 6 maggio apparsa sul giornale locale «Il Bancarello» si può apprendere che il duce, una volta arrivato in paese, avrebbe dovuto percorrere la via Giardini, piazza del Popolo, corso Umberto, piazza Margherita, via Fiera e proseguire per Isnello e Collesano. Data l’eccezionalità dell’avvenimento, ogni preparativo era stato definito e realizzato con estrema cura. In via Giardini, ingresso nord del paese, venne eretto un grande arco trionfale su cui troneggiava il fascio littorio, l’effigie del capo del fascismo e le retoriche frasi a lui inneggianti. Le strade lungo il tragitto che avrebbe seguito Mussolini, già nei giorni precedenti, erano state addobbate con una moltitudine di festoni e fiori e con grandi ed artistici archi che sorgevano a cinquanta metri l’uno dall’altro. Nella tarda mattinata giunse in paese una colonna di camion militari per il servizio d’ordine: formare i cordoni, sgomberare e sorvegliare le vie.

I balconi lungo il tragitto, bellamente parati con drappi di seta ricamati e bandiere, già dal primissimo pomeriggio, pullulavano di gente, così come i marciapiedi. In piazza Margherita, sontuosamente addobbata con archi e fiori, avevano preso posto le autorità civili e militari, notabili, tutti i sodalizi locali con le rispettive bandiere, la banda, le scolaresche, la sezione fascista e quant’altro. Intanto il sindaco Gugliuzza, scoccate le tre, con il consiglio al completo, si diresse al Rosario, all’entrata del paese, per accogliere il capo del fascismo. La folla, sotto il pico del sole, che cercava di combattere con ombrellini e cappelli di paglia, avìeva l’ùocchi ô rroggiu dâ Chiazzannintra. Ma le lancette scorrevano inesorabili e del capo nessuna notizia. Il popolo, si capisce, cominciava a smaniare: ma cchi ffini fici? ma dunni si cci astutari i çiàcculi? Alle cinque e mezza ancora non si vedeva nessuno e più di qualcuno certamente cominciò a pensare: saluti u frati!, a quest’ora non passerà più. E cominciava ad appressarsi un po’ di comprensibile delusione.

Invece, finalmente, alle sei de la tarde, una staffetta che precedeva l’atteso first man, ne preannunziò l’imminente arrivo. L’entusiasmo fu enorme, scrive «Il Bancarello», ognuno sporgeva il capo per meglio vedere e tutti si racchiusero in un profondo e religioso silenzio. Al Rosario, finalmente, si sentì il rumore di un motore rombante e apparve LUI, che sembrava quasi Nuvolari, alla guida di una Alfa Romeo con la folla colà presente andata in incontenibile visibilio. A capo scoperto, senza occhiali, abbronzato dal sole, mpruvulazzatu dalla testa ai piedi, fermò l’Alfa, si stropicciò gli occhi, e senza neanche scendere dal bolide strinse a malapena la mano al sindaco Gugliuzza, facendosi indicare la strada per la stazione. Il sindaco, un po’ smarrito, con ogni osservanza, lo pregò vivamente di entrare in paese dove tutto il popolo – o quasi – lo attendeva trepidante ma la risposta dell’impassibile duce fu: «al popolo tutta la mia simpatia» e, pensando forse a quel suo celebre motto: «Noi andremo sempre avanti», con una improvvisa e poderosa sterzata in accelerazione, scomparve in mezzo al polverone, lasciando tutti increduli, delusi e sconcertati per l’inaspettato epilogo di quella tanto attesa e accuratamente preparata visita.

I castelbuonesi cercarono di consolarsi, ma erano in diversi ad essere veramente inconsolabili, a partire dalle donzelle elette fra tante che avrebbero dovuto offrire mazzi di fiori e baci al capo del governo e del fascismo. E furono in parte consolati da un discorsetto riparatore del neo deputato Alfredo Cucco. Il nostro politico emergente, giunto in ritardo a Castelbuono, per via di un incidente di percorso ê Sùvari, quando oramai il duce affrontava a velocità folle le curve dâ curâ vurpi era dispiaciutissimo, anche per la malafuura rimediata con i suoi compaesani. Certo, lui che responsabilità aveva? Forse quella di avere, in qualche modo, attraverso i fascisti locali, alimentato fortemente le aspettative dei castelbuonesi mentre al Restauratore delle sorti d’Italia, evidentemente, non gliene fregava un fico secco di fare passerella per le vie di un paese che per i suoi obiettivi prefissati non contava niente, a differenza di Gangi, Monreale, Piana degli Albanesi e di altri centri della provincia di Caltanissetta e Agrigento che avrebbe visitato nei giorni seguenti. Dunque, Cucco per cercare di mitigare le amarezze dei suoi compaesani improvvisò due parole melense da un balcone di piazza Margerita, costruito sulle ragioni forti che avevano indotto il duce a non fermarsi, anzi a tirare dritto al cospetto del nostro bel paese. Finita la breve orazione, non senza avere raccomandato ai suoi concittadini di non aversela a male col duce per l’inconveniente, ripartì immediatamente non prima, però, che gli stipassero l’automobile dei fiori che dovevano essere offerti al duce, perché finalmente glieli consegnasse. Naturalmente non c’è bisogno di grandi congetture per stabilire quanto il duce si curò di quell’omaggio floreale.

Dopo il gran rifiuto di Mussolini di entrare in Castelbuono, come era stato programmato, o almeno così all’epoca si andava propalando, la popolazione, riferisce «Il Bancarello», rimase dolente e quasi mortificata per quella quasi «presa in (censura)… giro». Molti castelbuonesi, ritenendo, a ragione, di essere stati buggerati, dopo l’increscioso accadimento protestarono vivacemente presso le autorità. Ma il sindaco, fra tutti, era il più contrariato se non altro «per lo spesato colossale fatto senza… quell’esito sperato», così come il tenente dei carabinieri che essendosi dovuto alzare alle cinque del mattino, si smatinàu per niente, per tutto quel fumo senza alcun arrosto. Ma, secondo quanto si bisbigliava in quei giorni, era stato più di mezzo paese che quella notte non riuscì a prendere sonno per il clamoroso smacco subito. I più spiccati piazzaioli, conclude il giornale, hanno potuto fare una statistica minuziosa in base alla quale, dopo quel fatto veramente incredibile, circa quarantamila astime uscirono dalla bocca del popolo, ovviamente dirette al capo del fascismo, anche se questo il giornale, si capisce, non lo precisa. Ma non tutti nel paese rimasero delusi. Ci fu chi gongolò – gli antifascisti – per questa delusione dei locali fascisti ad opera del fellone loro capo, e ci fu Vincenzo Baggesi, fabbro per necessità e poeta per inclinazione il quale, pur definendosi fascista, la buttò sul ridere, avendo capito più di molti altri, che non era il caso di prenderla così furiusa. Come era solito fare, presa di gran carriera carta e penna, buttò giù i versi sarcastici che sarebbero stati pubblicati su «Il Bancarello» nell’agosto del 1924 e che di seguito qui si riproducono.

MEMORIE PAESANE INCACCELLABILI

Vi son degli incidenti nella vita

che certo non potrebbero accadere

se si potesse con la calamita

attrarre gli altri al proprio volere;

per questo, in Castelbuono nella gita

di Mussolini, ci è toccato avere

un disappunto tanto forte e grave

che val la pena scriverlo in ottave.

Appena confermata la notizia

del suo passaggio a mezzo di giornali

si affida all’ingegner dell’edilizia

l’incarico degli archi trionfali;

il popolo esultante di letizia

prepara abbigliamenti colossali

di stoffe, rami verdi e freschi fiori,

e un bosco di bandiere tricolori.

Venuto il giorno tante sospirato

di questo famosissimo sei maggio

non si sa ben da chi, venne ordinato

a mezzo di telefono o messaggio

che il popolo aspettasse trincerato

dentro il paese, il Duce al suo passaggio

quindi non v’era un can fuori le porte

salvo i monelli, o qualchedun per sorte.

Circoli e società stavan serrati

in piazza Margherita in varie schiere;

la scolaresca e tutti gl’invitati

stetter piantati lì quattr’ore intiere

sotto un cocente sol, stanchi, impalati

sperando di vedere un messaggiere

raggiante il volto ansante ed espressivo

che porti la notizia dell’arrivo.

Ma ecco finalmente già arrivati

i tanto sospirati messaggieri,

ma quanto ahimè diversi e contristati

sembravano quei volti e menzognieri?

Ma no, che anche troppo precisati

erano i loro avvisi e veritieri

perché tutti asserivan nientemeno

che il duce era gassato al par d’un treno.

Ma dove? quando chiedono insistenti

i volti tutti pallidi e smarriti

si fanno centinaia di commenti

ma i più rimangon muti e sbalorditi

si rompono i cordoni, e i componenti

dei circoli schierati in tutti i siti,

e resta tutto il popol pantalone

deluso e come sempre da minchione.

Si disse che era stato trasformato

dal duce il suo primiero itinerario

per il motivo ch’era ritardato

di quattr’ore al predisposto orario.

Il fatto sta che erasi fermato

un attimo alla porta del Rosario

fuggendo come un lampo innanzi al tuono

senza volere entrare in Castelbuono.

Al nostro Alfredo ch’era ritornato

dopo mezz’ora in una vetturetta

il popolo deluso e contristato

domanda la ragion di tal disdetta;

ma egli più di noi contrariato

scusando il proprio Duce e l’etichetta

ci disse che nessuno ha mai pensato

discutere del Duce l’operato.

Però la gente molto disgustata

per essere in quel modo corbellata

diceva in ogni piccola viuzza

finì come la festa… da Santuzza

di più per sopperire a quel mancato

ingresso di quel duce sì aspettato,

ci visitava per un caso strano

quel vento che ci manda l’Africano

ora volendo dare a questo vento

un nome degno dell’avvenimento

sì battezzò da tutti i contadini

sapete come?.. U vientu i Musulini.

I castelbuonesi, però, si ripresero immediatamente dî forti còliri di quel martedì 6 maggio, e più di tutti si ripresero gli amministratori i quali, immemori della mala parte riservata loro e ai cittadini di Castelbuono dal first man, la sera di venerdì 23 maggio, convocato il consiglio comunale in seduta straordinaria urgente, ad unanimità di voti dei presenti, conferirono la cittadinanza onoraria a Mussolini. Fors’anche per non essersi neppure degnato di attraversare in macchina un paio di strade del nostro paese. Ma di ciò, ovviamente, non fece alcun cenno il sindaco Gugliuzza nel suo discorso pronunciato in consiglio, limitandosi a dire: «La sua recente, affettuosa visita, il suo passaggio attraverso le nostre abbandonate contrade ne dà sicuro affidamento ed egli lascerà tracce luminose del suo genio pel nostro benessere, ha promesso, manterrà!».

Il consiglio, alla fine dell’enfatico discorso del sindaco Gugliuzza infarcito di frasi fatte, deliberò la concessione della cittadinanza onoraria per acclamazione, scattando in piedi e applaudendo fragorosamente. Tanto zelo ed entusiasmo potrebbe essere comprensibile, essendo ancora di là da venire l’infausto 10 giugno 1924, giorno del rapimento e dell’assassinio di Giacomo Matteotti, reo di avere denunciato in parlamento il clima di intimidazione e di violenza in cui si erano svolte le elezioni del 6 aprile precedente nel corso delle quali «nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà».

Quando, però, giunse la notizia dell’efferato delitto del leader socialista e furono chiari sia la matrice politica che i mandanti, non risulta vi sia stata alcuna presa di posizione, né un passaggio, né una sola parola di cordoglio e di biasimo, da parte dei medesimi amministratori e consiglieri presenti in aula il 23 maggio i quali, però, come riportato dal prof. Cancila, pochi mesi dopo, prontamente, deliberarono come giunta e ratificarono come consiglio un «voto di plauso al governo nazionale fascista nel secondo anniversario della marcia su Roma». Atti che si commentano da soli, al pari del repentino cambio di casacca, la sera stessa del 25 luglio 1943, giorno di ingresso delle truppe alleate, degli stessi ferventi fascisti di allora.

Chi, a Castelbuono, ebbe il coraggio di parlare liberamente del delitto Matteotti, a parte, si capisce, i socialisti e gli antifascisti, fu – ancora – il fabbro Vincenzo Baggesi pubblicando su «Il Bancarello» del 20 luglio 1924 la poesia postata avantieri su queste stesse colonne dall’avvocato Lupo. E ancora dovevano cominciare le schedature, le perquisizioni, i fermi di polizia e il carcere per gli attivisti ritenuti pericolosi.

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