Nel passato castelbuonese: tipi e vicende Mastru Sariddru (parte 2)
NEL PASSATO CASTELBUONESE: TIPI E VICENDE
MASTRU SARIDDRU
Di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie 1 Maggio 1988]
[parte 1 disponibile a questo link]
Avvenne, poi, la seconda guerra mondiale e, poiché in quel periodo io mi trovavo agli studi a Palermo, per me non esistette più mastru Sariddru. Lo scoprii di nuovo alla fine degli eventi bellici, questa volta, da vicino, mentre accudiva all’altra attività di cammarìeri al circolo, che, democraticamente, si era trasformato in Circolo – Unione – Professionisti. Quivi, pulendo i tre locali a pianterreno sul corso, arrotondava il magro salario con qualche mancia. Recapitava la borsa della spesa quotidiana ad alcuni soci e costoro si «toglievano l’obbligo» con una bottiglietta di vino, al quale, pur senza ubriacarsi, rimaneva sempre devoto quasi come ai Santi della sua Chiesa (il Cappellano continuava a chiudere sotto chiave l’ampollina, alla fine della Santa Messa). Di tanto in tanto riceveva un po’ di frutta e questa, soddisfatto, correva a depositarla intatta nelle mani della Matassa (appresi che era il cognome della moglie, seminferma in casa, alla quale era legato particolarmente d’antico affetto).
Quando lo rividi aveva cambiato berretto, ne portava uno nero: aveva perduto l’unico giovane figlio al fronte: in lui faceva spicco una tenace espressione d’ininterrotta tristezza, di lutto velato, di vìsitu.
Vedendomi, (io ero diplomato di fresco), fu il primo in paese a chiamarmi «professore», dandomi anche del «lei»: ciò contribuì a rendermi consapevole delle tante acque passate sotto i ponti: anch’io ero stato provato, in qualche maniera, e reso più maturo: e questo m’infastidiva non poco: avrei voluto restare sempre fanciullo! Sebbene tutti i soci gli si rivolgessero con il «tu», io proseguii a parlargli sempre con il «voi».
Presto, però, dovetti accorgermi che mastru Sariddru era lo stesso, anche per alcuni «grandi»: la solita vittima-giocattolo anche in quei locali, anche con il trascorrere degli anni, anche se duramente colpito.
Con il pretesto della Kalmina per il mal di testa, veniva spesso spedito ai quattru cannola: mentre, sconfortato, si accingeva a partire, reggendo il bicchiere nella guantiera smaltata di pubblicità dolciaria, arrivava la «voce del padrone» con i cerimoniosi affettati preamboli: Mastru Sarì, mastru Sarì, mi raccumannu! pigliamu l’acqua du quartu cannùolu, di chiddra frisca! Mastru Sariddru, conoscendo i suoi polli, rientrava sospettoso ed immancabilmente: Mastru Sarì – lamentava lo stesso di prima – ma chista puzza di sintina dû terzu cannùolu! È addimuratizza! » (L’acqua della fontana grande, allora come oggi, scorreva in contemporanea). Mah!… E mastru Sariddru, paziente, senza pretese e senza proteste, ritornava alla fontana due, tre, quattro volte anche sotto il vecchio e logoro paracqua, se pioveva, fino a quando il socio non lo sentiva scoppiare: Porcu di ccà e di ddrà! Accussì un si po’ iri cchiù avanti! Solo allora poteva ricevere il prezzo di un buccurìeddru, come chiamava il vino, che andava a tracannare, da solo, in un fiato, nella taverna di Cicaleddra, dietro la stessa fontana, essendo che la Matassa era completamente astemia. Per giunta, durante questi tragitti, trovava sempre qualcuno che l’apostrofava: E chi ci dati a manciari ê soci, sardi salati?… E lui: Ah! sì, sì! Non c’era scampo!
Abitando mastru Sariddru alla Ruafera, di fronte alla Badia, per qualche tempo rientrando dal Circolo fu costretto a girare per la Chiazza nnintra, senza possibilità di scorciatoia. Che cosa era successo? Proprio all’angolo, sul balcone di casa, una vivace bimbetta di un paio di anni, figlia di un socio, che l’aveva bene addestrata, lo salutava chiamandolo semplicemente per nome. Il guaio consisteva, però, nel fatto che altri soci avevano addestrato una masnada di ragazzi a nascondersi nei vicoli adiacenti: quando al suo apparire, la bimbetta, festosa, gli gridava: Mastru Sariddru!, si scatenava, in coro: Piiiciuuuciu! Era una parola intollerabile!… Le caramelline che il socio forniva a quei ragazzi erano efficace stimolo! Mastru Sariddru, la prima volta, sopportò pazientemente; il secondo giorno imprecò; il terzo giorno si raccomandò; il quarto giorno interessò il maresciallo, frequentatore saltuario del sodalizio; il quinto giorno dopo innumerevoli Porcu di ccà e di ddra! e Stavota mi cunzumu! (mi rovino!) andò a riempirsi le tasche di pietre, deciso a ricamare le teste degli sconsiderati con tanti mìerchi (occhielli, cicatrici). Solo così tutto sfumò!
E poi una volta, all’imbrunire, su precisa commissione, Ciccuzzu, in tempi di diffuso contrabbando di sigarette americane, venne a ittari u bannu proprio â cantunera, in esclusiva, perché lo sentisse bene mastru Sariddru: Cu voli sicaretti marca Piciùciu va nni mastru Sariddru, u cammarìeri dû circulu! Mastru Sariddru ascoltò impietrito; credendo che il bando stesse facendo il giro del paese immaginò i devastanti effetti sulla popolazione, poi impallidì preoccupandosi, perché giusto quel giorno, per le vie del paese, circolavano le Guardie di Finanza. All’improvviso si alzò e fece per uscire, per andare ad acciuffare Ciccuzzu. Ma, in quel momento, proprio sulla soglia, apparvero due finanzieri. Afferrato per le braccia, ricacciato indietro, dovette rientrare e si dovette accomodare sul divano, in mezzo alle Guardie, che, da una borsa tirarono fuori carte e stampati, fingendo di verbalizzare. Il pover’uomo, che aveva qualche peccatuccio sulla coscienza, in cuor suo malediceva miricani, sigarette, fumatori, malasorti e a facci dâ nicissità. Alle prime domande cominciò a sudare freddo-freddo, passò poi a bollire e ribollire, infine alternando un pallore ed un rossore arrivò vicino all’infarto. Nell’intenzione, questi volevano essere spunti di risate, ma erano scherzi, se così si possono chiamare, allucinanti e nevrotizzanti! Ci vollero più biscotti e più bicchieri del solito e dovettero farli venire fin lì: per mastru Sariddru l’emozione era stata grandissima!
Ed un giorno arrivarono in paese i teatranti! Ci fu chi, sotto-sotto, si accordò con la grossa anziana primadonna. La sera, finito lo spettacolo, a quei soci in attesa nei locali del circolo, con il corso ormai deserto, questa si presentò puntualmente con altri attori. E cominciò la recita: Dov’è mastru Sariddru? I soci accantonarono subito carte e gettoni, tanto non servivano più. Ccà sugnu! – balzò a dire mastru Sariddru, destandosi da un sonno profondo. E allora: «Saridduccio del mio cuore!… Ti ho visto che, spasimando per me, mi facevi l’occhiolino!… Mi eri tanto vicino nel primo palco della seconda fila!… Fuggiamo, anche in capo al mondo!…». Ed intanto la donna, afferrandolo, gli si era seduta sulle ginocchia; quei soci: Sariddruzzu dû cori dâ Matassedda! Pinsàticci a chiddra mischinedda chi v’aspetta â casa! Belli cosi sapiti cumminari! Attenti a comi vi cataminiati! Ci vo’ coscienza!». E mastru Sariddru, come un somaro a maggio: ìu… ìa… ìu … un sàcciu nenti, criditimi! E lo spettacolo continuava: Veru è ca siti u beddru figghiu!… Irresistibili! Ma approfittàrini di sta manera!» Mastru Sariddru avrebbe preferito trovarsi dentro una fornace ardente. Ma quella incalzava: Saruccio della mia vita! Come sei bello! Dimmela qualche parolina!…
Si era già al culmine, in- finale: mastru Sariddru aveva gli occhi fuori dall’orbita anche perché era schiacciato dal peso del donnone che, ad un segnale, allentò la presa e così quello poté sgattaiolare fuori. Appena fu in piedi, però, cento dita si protesero a mani aperte e lo ghermirono: mastru Sariddru traballava. Toccò al paladino di turno accompagnarlo pietosamente per il solito bicchiere, per rimetterlo in sesto! Meno male che, almeno, si era trovato un rimedio! Tutta la notte bisbigliò: Ma si ô teatru un ci mìettu pedi chiossai i cinquant’anni!…
Quando vedovo, infermo, invocando l’ultima dimora e il Sommo Dio, il buon mastru Sariddru si spense, eravamo in pochi dietro la sua bara: mancavano, naturalmente, tutti quelli che con lui si erano sollazzati; parecchi lo avevano preceduto, altri ne avevano ignorato la fine: come spesso succede…