Note, divagazioni e stravaganze toponomastiche – seconda puntata
Tra le rughe cinquecentesche di Castelbuono vi era anche la ruga suttana che si sviluppava lungo la via Collegio Maria (foto 1) e, alla fine della discesa, sboccava a porta Pollina, non ancora ubicata a san Paolo.
In occasione dell’ampliamento della Matrice vecchia, alla fine del ‘400, per salvare quello che per l’epoca doveva essere considerato lo scorrimento veloce per Pollina, i capomastri trovarono la soluzione di scavalcare la ruga suttana costruendovi il sottopasso, ornato di colonne e capitelli, con una copertura a volta (foto 2). Quando vi fu collocata l’edicola votiva, quel posto divenne per tutti a Madunnuzzâ vota cioèla Madonnina della volta.
Per salvaguardare le vie già esistenti soluzioni analoghe sarebbero state adottate più tardi anche per la costruzione della parte più a valle del Convento dei Benedettini (foto 3) e dell’abside della chiesa del Monte (foto 4).
Il ricorso alla costruzione dei sottopassi obbediva a logiche tendenti a conciliare sviluppo urbanistico ed esigenze – come quella delle vie di comunicazione – legate alle attività lavorative. Non si è ben capito, invece, e probabilmente non si capirà mai, quali logiche supportassero l’avveniristica copertura a giorno dell’intera via Arcomonte, di recente escogitazione, per impiantarvici un mercatino di chincaglierie e di degustazione di salsette e marmellate.
Parlando di rue, sorvolare non si può sulla più nota di esse, la rua fera (foto 5), toponimo assai longevo e tuttora vivissimo. Quando, nel1882, a tutte le vie del paese fu attribuito un nome (si ritiene che il curatore toponomastico dell’epoca sia stato Francesco Minà-Palumbo, ma non è stato trovato alcun documento che lo provi), questa strada fu fra le pochissime a mantenere la denominazione popolare e pertanto si chiamò Via Fiera (foto 6), fino al 1932, allorché, in un impeto di esaltazione fascista, le fu dato l’attuale insuggestivo nome di Via Roma.
I castelbuonesi, per quanto ossequiosi verso il fascismo, il duce e l’impero, in barba ad ogni imposizione, continuarono però a chiamarla rrua fera, come avevano fatto negli ultimi cinque secoli. A riprova di quanto questo toponimo sia profondamente radicato nei castelbuonesi, vale il fatto che neanche il nome della potente famiglia Levante, il cui palazzotto sorge a metà rrua fera, è riuscito a prevalere sulla denominazione popolare.
Il nome rrua fera trae origine dall’importantissima fiera di santa Venera che fin da tempi antichissimi si svolgeva ogni anno in questa “lunga e ben larga via” nei giorni del 26 e 27 luglio. Furono i Ventimiglia, dopo la costruzione del Monastero di santa Venera, a istituire tale fiera proprio nella strada del Monastero (foto 7) e nel giorno di santa Venera, allora patrona di Castelbuono.
All’epoca di santa Venera patrona risale anche la cerimonia della bandiera che, all’alba del 22 luglio di ogni anno – ppâ Maddalena – viene esposta nel balcone del Castello dei Marchesi di Geraci e che per tutti i castelbuonesi significa ca trasivi a festa.
Un’altra strada che nel 1882 mantenne la sua denominazione popolare fu la via Macello, ora via Fisauli. A valle della piazza e del quartiere del Salvatore era, infatti, nel ‘500, il rione della Bocceria, uccirìa, dove, evidentemente, sorgeva un macello. Forse risale a quell’epoca il detto castelbuonese mulinu e vvuccirìa mannàcci ê cchiù mmìejji dâ inìa secondo il quale sarebbe opportuno che le faccende in cui si rischia di rimanere imbrogliati fossero di competenza dei più scaltri della famiglia.
Con il rinnovo toponomastico del 1967 l’antico nome di questa strada venne inopinatamente eliminato perché, si legge nella motivazione che accompagna la delibera consiliare, “senza interesse tradizionale”. Più verosimilmente si pensò che tale denominazione fosse indegna della storia di Castelbuono. A Roma esiste una via dei due macelli, a Bolzano una via del macello, a Spoleto una via del macello vecchio. Forse a loro che sono burini, crucchi e sub-perugini questo toponimo non fa senso, ma a noi, animati come siamo da quella sorta di grandeur, la castelbuonesità, che in definitiva è un tarlo culturale, deve essere sembrato terribilmente repellente.
A proposito di sconcezze, nel piccolo trivio (manco a farlo apposta) dove sboccano la via Macello, la via Alduino Ventimiglia e la Chiazza nnintra sorgeva, underground, il frequentatissimo pisciatoiu (foto 8), ricettacolo di piazzeggianti che, assaliti da impellenti bisogni, vi si inabissavano di corsa. Risulta perciò evidente che mai posto più adatto di questo poteva essere individuato per erigervi un monumento alla… CORSA.
Ma questo fu anche il punto dove una sera, a metà degli anni ’70, finì la folle corsa di un ragazzotto abbondantemente corpulento, più propriamente un cartiddruni, che scendendo con la sua bicicletta a tutta velocità dalla rrua fera si accorse solo all’ultimo momento di avere rotto i freni e, urtato violentemente contro il bordo del marciapiede, fu sbalzato in aria e catapultato con traiettoria naturalmente parabolica dentro il pisciatoio.
La biforcazione a destra della rrua fera (foto 9) nel 1882 fu chiamata via Conceria, per tramandare che in quel luogo, a partire dalla seconda metà del ‘500, furono attive diverse concerie data la vicinanza del fiume, dal quale si prelevava l’acqua, mediante condotte costruite a monte, e nel quale si riversavano i rifiuti della lavorazione delle pelli. L’inquinamento delle acque, come si vede, ha origini tutt’altro che recenti.
Nella parte non edificata della stessa via, zona assai scoscesa, quasi a strapiombo sul fiume, si trovava quella che può essere considerata la prima discarica di Castelbuono. Non sappiamo se abusiva, certamente a cielo aperto. Nella parlata locale, ma anche negli atti ufficiali del ‘500, quel rione era comunemente detto u munnizzarâ Calìa. Poi fu abbreviato e divenne u munnizzaru, toponimo che resistette quasi fino all’avvento delle antenne paraboliche. Tuttora, molte persone anziane per evidenziare, per es., che una stanza è alquanto disordinata sogliono esclamare: e cchi cc’è u munnizzarâ Calìa? A me sembra semplicemente straordinario che un termine non di largo uso come questo possa essere sopravvissuto per mezzo millennio.
I toponimi ottocenteschi vicolo santa Venera, cortile santa venera, discesa san Vito, vicolo san Vito e cortile san Sebastiano, alcuni dei quali ancora esistenti, attestano che in quella zona sorgono o sorgevano il monastero e le tre chiese omonime, delle quali però esiste solo quella di santa Venera, o chiesa della Badia (foto 10).
La chiesa di san Sebastiano (foto 11), demolita negli anni ’50 del Novecento, sorgeva alla fine della salita della fiera col fianco posto lungo la parte bassa di piazza san Francesco.
Pochi metri a valle era la chiesa di san Vito, attigua al “fonte san Vito” (u canal’i santi Vitu) (foto 12), che però prospettava sul vicoletto omonimo. Di pertinenza della chiesa di san Vito era un giardino, che si estendeva fin oltre il fiume, in massima parte coltivato a gelsi, come d’altronde i giardini che correvano fra il fiume e le concerie, quelli del Monastero di santa Venera (in minima parte ancora esistente) e della Chiesa di san Sebastiano. I gelseti, assai diffusi in paese nel ‘500, avevano dato, proprio in quell’epoca, grande impulso alla bachicoltura e alla fiorente industria della seta.
Di ciò rimane una labile traccia nel toponimo cortile del Celso (foto 13), ubicato fra la via Maurolico e la via Cavour, all’interno del grande giardino ancora leggibile fra i fabbricati di queste due strade, che costituiva la parte più a monte dello storico giardino delli Cerasi.