Origine dei modi di dire e nascita dei soprannomi | Arrivau u mari a Liccia e i Fracelli


Origine dei modi di dire e nascita dei soprannomi
ARRIVAU U MARI A LICCIA E I FRACELLI
di Giuseppe De Luca  [pubblicato su Le Madonie 1 febbraio 1988]

Gli anni 1818 e 1819 passeranno nella storia delle Madonie per i forti terremoti e le grandi piogge che tempestarono la zona. Si cominciò alle ore 10 e 51 minuti dell’8 settembre 1818 con una violentissima scossa di breve durata. Ma vediamo che cosa ci ha tramandato Domenico Scinà nel «Rapporto del viaggio alle Madonie impreso per ordine del Governo in occasione dei tremuoti colà accaduti negli anni 1818 e seguente» (Palermo – Dalla Reale Stamperia – 1819): «… Quattro o cinque ore dopo cominciò a cadere copiosa la pioggia e grossa la gragnuola …». I fenomeni e le scosse durarono tutto l’inverno fino al maggio 1819: … un vento, che di fatto non era, parea, da prima, che venisse con impeto ad investire le fabbriche. Le porte di poi e i palchi delle case forte cigolavano, e le mura facendo fracasso minacciavano di stritolarsi, e stritolate andare in ruina. I cani intanto abbaiavano; i cavalli menavano furie; e ’l popolo sul pieno della notte gridando, piangendo, in tumulto, fuggiva spaventato le case per cercare salvezza. Un’ora dopo si levò in Castelbuono un turbine con poca pioggia, che, ivi aggirandosi per quasi due ore facea vista di schiantare ciò che non avea rovesciato il tremuoto…».

E Scinà continua: «… i campanili della cattedrale di Castelbuono, goffi come sono, e pesanti, sebben puntellati, minacciano ancora rovina…» (infatti furono diroccati, come la cupola della stessa Madrice Nuova e la parte superiore del Castello, merlatura compresa n.d.r.). «…il danno a Castelbuono … è montato a cinquantamila once». Erano continuate ancora le scosse e le piogge quando, il 6 aprile 1819, Domenico Scinà, giunto a Castelbuono, ospite in casa dell’amico barone Turrisi, aveva subito osservato che «… spesso dalle piogge erano questi infelici rimandati alle case, e da tremuoti erano ben tosto respinti alle capanne. E così incerti e spaventati, menavano di continuo una vita piena di affanni e di timori ».

E Francesco Minà Palumbo nella «Storia Naturale delle Madonie – Sopra i tremuoti dal 1810 al 1856», (pubblicata in quattro puntate sul «Giornale Officiale di Sicilia» dell’aprile 1858), dopo ampi particolari concludeva: «… tutto minacciava distruzione».

La rocca di Liccia vista dai Bergi

In questa atmosfera, in quei giorni, un anziano mezzadro castelbuonese , u zzu Vanni, da sempre abbarbicato nel podere Liccia situato nella vallata a tramontana della rocca (a circa 650 metri s.l.m.), terreno quindi molto esposto, ed appartenente allora alla famiglia Guzzio, volle recarsi a constatare di persona i danni subiti dalla campagna, danni di cui tutti in quelle ore sembrava che favoleggiassero… e che cosa vide?… che cosa trovò?…

Sentiamolo. Quando, rientrando in fretta e furia in paese, si recò a relazionare ai proprietari, bussò e trovò sola, in casa, la signora padrona; ancora sconvolto ed affannato cominciò a balbettare: «… Signurì, u ccippu u castagnu ranni coddra, abbuccatu sanu-sanu, mmenz’u vaddruni… u casalinu u vientu u scummigghiau e i travi, i canni e i canala su a sti chissi-chissi… a giebbia un c’è cchiù! vurricata sutta na muntagna i tirrenu… e ppua… e ppua… Signurì,… arrivau u mari a Liccia!…». (Signoria, l’albero del castagno grande è andato a finire, abbattuto per intero, in fondo al torrente… il casolare è stato scoperchiato dal vento e le travi, le canne e le tegole sono sparse un po’ dovunque… la vasca non c’è più: sepolta sotto una montagna di terreno… e poi,… e poi, … Signoria , il mare è arrivato a Liccia!»).

E non volle continuare perché attanagliato da un nodo alla gola!… La padrona, atterrita da queste agghiaccianti notizie, dopo alcuni penosi momenti di silenzio, non seppe dire altro che: Chi flagellu…, chi flagellu,… chi flagellu!…

Uscito dalla casa della padrona, il povero contadino non poteva darsi pace e, gironzolando, si fermava in tutti i capannelli, in tutti gli angoli del paese, dove la gente si attardava, in un clima di terrore, a raccontare, ognuno, i propri incredibili guai, commentandoli alla meno peggio.

U zzu Vanni intervenendo nelle discussioni, ancora scioccato e sempre sconsolato, alternava: Arrivau u mari a Liccia!… e Chi fracellu…, chi fracellu…, chi fracellu

Fu così che, poi, da quegli indimenticabili tempi, i paesani seppiru sèntiri comu u zzu Vanni Fracellu questo laboriosissimo agricoltore e, con lui, tutta la sua «razza».

Questa storia vera veniva raccontata da un sacerdote, maestro di scuola, che l’aveva appresa, sul finire dell’ottocento, da un bianco vegliardo, ormai ultimo discendente di un ramo della famiglia Fracelli, che, spesso, rimembrava in casa le lontane vicende. Sembra che il vero autentico cognome di questa bonaria, laboriosa, sensibile famiglia fosse Tumminello; ma di questo non si è sicuri.

Oggi la frase arrivau u mari a Liccia è quasi sempre sulla bocca di tutti i castelbuonesi con il significato di ‘è accaduto l’imprevisto e l’impossibile’.

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