Passato castelbuonese, «Villaneggiatura»… «Sbilliggiatura»… Villeggiatura… terza parte


«Villaneggiatura»… «Sbilliggiatura»… Villeggiatura…
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 1 Agosto 1989]
[Prima parte disponibile a questo link]
[Seconda parte disponibile a questo link]

…Ma restavano poi le persone… le quali partivano, successivamente, in altri «viaggi». L’uomo cedeva alla donna, galantemente e…cavallerescamente, il suo posto sul basto e introduceva la nidiata dei figli piccoli piccoli, a due a due o anche a tre, dentro i fiscini (cestoni) della vendemmia, che, richiamati anzitempo in servizio, servivano pure come punti di appoggio per le mani della donna “cavallerizza”. Però ai piccoli bisognava stare molto attenti, in quanto, si sa, sono irrequieti e poi… specialmente in certi particolari frangenti ed in certe situazioni: bisognava quindi riporli dentro con ponderato criterio, in giusto equilibrio, pp’un sbirsari (per non sbilanciare), altrimenti si sarebbero corsi enormi rischi.

E, finalmente, dopo le ultime raccomandazioni ai «cestonati», ai quali sembrava di spiccare quasi un primo volo, dopo rassicurate e rassicuranti occhiate, ci si incamminava… E mentre lui, davanti, circondato dai figliuoli più grandicelli, che tendevano ad afferrare almeno un palmo di redine, tirava, minacciandoli, questa corda, si lanciavano commossi arrivederci ai vicini di casa che restavano; attraversando le strade si scambiavano saluti ed effusioni con parenti e conoscenti, che, apprendendo al passaggio la lieta notizia del trasferimento in villeggiatura, facevano promessa di qualche visitina.

Dove si recavano costoro? Le case di villeggiatura, degne di questo nome, erano, allora, veramente pochine. Quasi tutte in pietra squadrata o a fabbrica rrutta: erano composte, in generale, di pochissimi vani: uno, centrale, con due porte opposte, serviva anche da «salone»; due, laterali, erano usati come stanze da letto. Erano ammattonati con parmarischi (rossi mattoni quadrati di terracotta) o con maduna a mitra (lunghi mattoni esagonali di terracotta). Coadiuvava e suppliva u spiazzu davanti â casa in terreno battuto o, nella migliore delle ipotesi, selciato con pietre poco lavorate e per niente squadrate, quasi tutte allo stato naturale: questo piano, integrato da qualche ticchiena (sedile in muratura), serviva all’occorrenza come salotto per saltuarie visite. Dietro la casa c’era u chianu darr’a casa, dove si faceva soggiorno e si abitava, lavorando: anche questo in terreno battuto: qui un paio di pietre, divaricate elegantemente ed affumicate vistosamente, servivano molto spesso per reggere la pentola o il padellone, mentre, sotto questo fucagnu, appiccicugli, frasche e legni scoppiettavano allegramente; esposto a tutti i venti, caldi e freddi, alle intemperie, agli acquazzoni estivi era anche qui, sempre pronto, il forno, all’aperto. Il tutto all’ombra di un frondoso, ricercato, pergolato. Raramente questo rustico soggiorno-cucina era integrato da una furnacella a carbone, ricavata da una latta vuota da petrolio, che, reggendo un contenitore di ghisa per il carbone e bucata lateralmente in una delle quattro facce per poterne estrarre la cenere, si proponeva come cucina di riserva.

Le suppellettili interne? Un non sempre resistente cordino, steso fra due chiodi a martello infissi a muro, sosteneva, fungendo da armadio, il poco vestiario di quell’epoca. Una tavola lunga e stretta, retta da due affusolate ravoglie (mensole) di ferro, custodiva in alto, quasi al soffitto, la cibaria: cesta del pane, sacco di farina, olio, vino. Un paniere che ciondolava appeso ad una trave del tetto salvaguardava formaggio e ricotta salata dai voracissimi topi di campagna e da formiche e furmiculicchi. Eppoi, con molto senno, si adibiva a frigorifero il pozzo, calandovi, dentro un paniere, a fior di acqua, cetrioli, il melone, la carne. I tralci delle viti sopportavano di tanto in tanto, rassegnati, l’ingombrante peso della biancheria sciorinata al sole, i cui capi ben aggrinziti dallo scirocco, venivano riutilizzati senza aver potuto assaggiare, purtroppo, le delicate sofisticatezze del ferro a vapore, ancora tutto da inventare e da scoprire…

Custicieddri di capra, di pecora, o di castrato fumavano supra un canali (tegola), posto sulla brace ardente, riempendo di invitanti e genuine fragranze primordiali tutta l’aria circostante.

Lume a petrolio, lumera ad olio, muzzuna ‘i cannila, lanterne rischiaravano le tenebre.

Il silenzio agreste era rotto solamente di tanto in tanto: dal canto di un gallo, dal chiocciare delle galline, dal belato di una pecora, dal campanaccio di una capra o di una mucca, dal raglio di un asino, dal nitrito di un cavallo, dal latrato di un cane, dalla melodia di un uccello, dal frinire delle cicale, dal cri-cri dei grilli.

Raramente qualche chitarra, strimpellata alla meno peggio, sferzava, unendosi ad un canto, quella pacata calma così naturale e, in queste condizioni, come doveva sembrare angosciosa ed inquietante, impaziente e snervante, dura l’attesa della deliziosa musica afro-americana, che, fortunatamente e puntualmente, sarebbe arrivata, però, con il progresso e la civiltà dei nostri giorni, per mettere in sesto, eccitandoli, timpani e temperamenti…

E, mancando, in quell’epoca, paletti di ferro, filo spinato, recinzioni, reticolati, staccionate, cancelli, cancelletti, cancellate, la gente spontaneamente, senza formalizzarsi, si cercava e si riuniva nelle ore libere, anche fino a tarda sera, sotto il chiar di luna, a chiacchierare in generale, senza sparraçìe, pensando ai fatti propri, senza invidiuzze, senza ombre di malignità e di ambiguità. Erano quasi sempre spassose casuali conversazioni intessute su nostalgici ricordi, su sinceri suggerimenti, su buoni propositi, su costruttive visioni, intrise di ingenui passatempi e di sane risate…

Le famiglie restavano in campagna, ppi guardari (di guardia) â rracina e i castagni e, talvolta, anche diverse settimane oltre: a vendemmia effettuata e dùoppu a cutuliata ‘i castagni, quannu rrumpieva u tìempu e i primi acqui lavàvanu e arrifriscavanu l’ària, rientravano in paese.

Sebbene, in quei tempi, non fossero di moda diffusi sfinimenti ed insopportabili esaurimenti, con quel sistema, lavorando, senza ricercati appagamenti, mangiando pochi ma genuini alimenti, si trovava il rimedio pratico, nella ruralità, per rigenerarsi, per ritemprarsi, per rinvigorirsi…per continuare a vivere il più serenamente possibile…

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