Storie del passato castelbuonese: Antiche Domeniche d’Ottobre


Storie del passato castelbuonese: Antiche Domeniche d’Ottobre
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 15 Settembre 1989]

Erano i giorni in cui si rientrava dalla campagna per fine stagione di villeggiatura. Il tempo alternava gli ultimi doni in frutti ed in caldi raggi di sole con le turbolenti avvisaglie autunnali: primi nuvoloni, improvvisi o insistenti scrosci di pioggia, nebbia e bruma ai monti, rugiada nei campi, condizioni metereologiche variabili, si direbbe oggi. In questa incerta atmosfera si completavano gli ultimi lavori della vendemmia, iniziava a cutulata ‘i castagni e si partiva alla ricerca di verdure e di funghi scattati in seguito alle prime acque: mentre riaprivano le scuole che richiamavano all’appello la popolazione infantile, si arrivava già, quasi senza accorgersene, alla prima domenica del mese di ottobre. In questo giorno, che segnava una data attesa e memorabile, andavano osservate e rispettate alcune tradizioni paesane.

Intanto veniva festeggiata la Madonna del Rosario, invocata da san Domenico di Gusman, nel 1208, che, sebbene fissata poi nel calendario liturgico il giorno 7 del mese di ottobre – per ricordare i vittoriosi eventi storici della battaglia di Lepanto (1571) fra turchi e cristiani – veniva e viene solennemente celebrata a Castelbuono nella prima domenica di ottobre. La Compagnia del santissimo Rosario, i cui confrati vestivano allora una lunga e ampia cappa nera dalle applicazioni ed orlature indaco-violacee, avendo sede nella chiesa-oratorio del Rosario retta dai Padri Domenicani, si protendeva in doverose devozioni religiose non trascurando le manifestazioni laiche.

In chiesa, nelle ore antimeridiane, venivano celebrate tutte le sacre funzioni liturgiche che culminavano poi nel pomeriggio con la solenne processione del simulacro, tutt’ora esistente, della Vergine, proclamata compatrona di Castelbuono. Un gruppetto di confrati veniva distaccato fuori per le manifestazioni giocose. Particolare impegno veniva profuso nella preparazione della cursa ntê sacchi, che si svolgeva nella tarda mattinata, partendo dal punto piu alto della strata longa detto proprio per questo a punta ‘a cursa: decine di giovani con i piedi dentro i sacchi di iuta o di canapa trattenuti strettamente alle ginocchia gareggiavano saltellando e rotolando lungo il corso per arrivare fino alla chiesa del Rosario. I premi? Qualche liretta, un berretto nuovo (la misura non aveva importanza), una corda di salsiccia fresca, che, in quei tempi in cui si sconoscevano energia elettrica e, di conseguenza, i frigoriferi ed i tritacarne, veniva confezionata a capuliatu di carni e lardu ccu satuni ntô ccippu ‘i frassinu o ‘i rrùvulu ed insaccata poi, con l’imbuto infilato nel budello, a forza di spingere il pollice, che sembrava diventare anch’esso un altro rocchio di salsiccia: era la maniera per assaggiare anche piccole scaglie di legno!…

Questa cartolina, originariamente riprodotta in questo formato (cm 9X27), proprietà artistica riservata alla ditta Silvestre Zito, venne commercializzata intorno agli anni ’20. Uno degli ultimi esemplari, quando ormai era fuori commercio, nel 1950 venne offerto dal Cav. Silvestre Zito all’ins. Giuseppe De Luca. Si notano a sinistra il dirupo del Rosario, dove nei tempi antichi avveniva il tiro ai galletti e dove cominciano a sorgere le prime costruzioni edilizie; al centro la zona climatica, ancora povere di case e villette, ed a destra il rettifilo della Madonna del Palmento.

Era tradizione che i primi maiali si scannassero proprio per la festa della Madonna del Rosario. Nella stessa domenica o l’indomani venivano raccolte le olive bianche, alle quali la Madonna aveva fatto calari a prima grazia, olive che venivano messe in salamoia, negli ampi tinelli di legno, con acqua, pietre di salgemma di Petralia, spicchi di aglio, foglie di alloro, peperoncini e corone di finucchiedd’i timpa. Ad iniziare dal dopo Natale, queste olive avrebbero costituito quotidianamente un ottimo saporito companatico in tutte le famiglie, ma specialmente per i lavoratori agricoli e della pastorizia.

In quel giorno alcuni vecchi contadini, sistemandosi con le loro enormi pentole di terracotta coperte da un pesante coperchio della stessa materia, si collocavano nei punti strategici del corso e quivi vendevano per pochi centesimi le prime gustose castagne dei nostri boschi, fumanti ballotte che estraevano a pugni, infilando le mani callose nell’acqua ancora ben calda. Utilizzavano il ricavato per l’acquisto di qualcosa di prelibato da riservare per l’inverno incipiente: rrùotuli ‘i rrisuni, grosso riso che si vendeva al minuto, legumi, altra roba mangereccia; ma generalmente quel ricavato serviva per rinnovare… il lussuoso guardaroba personale: cùoppula, un paio di pidunetta (calze) per le feste, o altro indumento intimo. Se ne ricordano pure di quelli che si piazzavano sempre nello stesso posto: sul terrapieno della chiesa di sant’Antonio Abate (oggi Banco di Sicilia), che, in quell’epoca si presentava sotto diverso aspetto e dove nel secondo decennio di questo secolo venne aperta la prima pompa di benzina per le rarissime automobili di allora. Altro castagnaro sedeva sul terrapieno del Rosario, angolo via Giardini – oggi Via Enrico Bertola Gambaro – dove fiorivano alcune taverne; altro andava a mettersi sotto l’esonartece della Madrice Vecchia; e ce n’era uno che accoccolato sullo scalino della chiesa ‘i l’ìtria profittava di questa circostanza per vendere anche panieri e ceste e con quelle poche lirette si industriava di costituire una riserva di qualche tùmminu di fave, di anguzzi (cicerchie), di frumento o di ceci per l’inverno.

Qualche volta, ma non tutti gli anni, entrava nel repertorio dei festeggiamenti u iùocu ‘i pignati, che giovani bendati frantumavano a colpi di bastone per trovarvi cenere e sangunazzu, acqua e salsiccia, trucioli e stiglioli.

E qualche volta, ma non proprio spesso, veniva programmato un numero veramente straordinario: u iùocu ‘i pateddri. In che cosa consisteva? Si prendeva una mezza dozzina circa di padelloni da salsa, quelli usati in estate per la cottura del passato di pomodori da commutare in conserva d’estrattu, si affumicavano per benino sulla base esterna strofinandovi a lungo, specialmente sul fondo, pezzi di sughero bruciacchiati e, con la cera vergine, adoperata dai calzolai per consolidare lo spago e dai contadini per praticare l’innesto a cavigliuni (a spacco), vi si impostavano delle belle monete sonanti e luccicanti di argento e di nichelio, che vi risaltavano in contrasto col fondo fuligginoso: generalmente erano pezzi da cinque lire e da due lire e costituivano, in quei tempi, per certe povere tasche, autentiche somme favolose, veri tesori, se si pensa che una giornata lavorativa, non sempre disponibile, era retribuita all’incirca con tre lire ed un carretto trasportava sabbia dal mare fino in paese per 5 lire. Le padelle venivano allineate pendule ed oscillanti lungo una corda tesa fra due sostegni in modo da potersi offrire a portata di… denti e di bocca dell’aspirante giocoliere. Le brillanti monete facevano … brillare gli occhi particolarmente ad una torma di giovinastri, di braccianti campagnoli, di disoccupati, di diseredati, di derelitti, di miserabili, i quali si disputavano il privilegio di potere andare all’assalto del padellone piu ricco, onde potersi appropriare, distaccandole con i denti dal fondo affumicato, delle monete ben sfavillanti ed invitanti; le quali, però, si sapeva, con quella cera vergine che, per i primi freddi, si era maledettamente indurita, avrebbero resistito e resistito, ma poi non proprio tanto, all’abilità e furbizia personale ed a quella dentatura anch’essa nuova di zecca.

Ed ecco lo spettacolo! … Quando il pretendente, sollevandosi sulla punta dei piedi, si avvicinava con la bocca alla padella, tentando di riscaldare con il fiato la cera vergine e di addentare d’un colpo la moneta, ecco, proprio in quel momento, giungeva una leggera brezza, sì, solo quel soffio bastevole che serviva per muovere il bersaglio, il quale, inesorabilmente, sbatteva regolarmente sulle guance, sulla fronte e sul naso del giovane; costui, avendo le mani legate dietro la schiena, istintivamente cercava di manovrarle per provare ad aggiustarsi il padellone e contemporaneamente allontanava la testa evitando quanto possibile di scansare la fuliggine che, per il colpo, si spandeva nell’aria; ma, inevitabilmente ed insistentemente, il fondo dell’utensile tornava a sbattere un po’ dovunque sul suo viso, rendendo quel povero disgraziato simile ad un non ben identificato esemplare di una razza sconosciuta, né bianca, né nera, una razza antidiluviana: in quei tempi non si parlava ancora di marziani né di E.T.; oggi in questo modo, all’incirca, ma più elegantemente, si mimetizzano solo i soldati per le esercitazioni belliche notturne. A questo punto partivano dalla folla, che, spingendo per vedere meglio, lo circondava e lo assiepava, un coro di consolazioni ed un vocio assordante di ogni tipo di parole, anche insultanti, che lo incitavano a non desistere, ricordandogli che con quelle monete poteva comprare un bel po’ di vinuzzu, un rrùotulu di salsiccia, na sarvietta di italieddru, un fazzulittun’i cavatuna e, colmo dei colmi, addirittura una cùoppula nova perché di quella che teneva in testa meglio non parlarne. E quando il poveraccio con la bocca che sputava nero peggio di un’antica locomotiva a carbone, con il viso irriconoscibile, riusciva finalmente a staccare la moneta, era allora uno scoppio fragoroso di approvazioni e di felicitazioni che arrivavano fin nelle più lontane contrade della zona e toccavano quasi le nubi. Era un gaio pomeriggio di «circensi» (giuochi di circo) paesani: ad ogni tempo la sua moda, i suoi costumi, i suoi usi, le sue caratteristiche! …

«O tempora, o mores! »… avrebbe esclamato l’indimenticabile don Jachinu Pupillo, il quale ci insegnò anche che questa frase non significava affatto: «o temperi (la matita), o muori!…» ma voleva dire: «Che tempi! che usanze! »

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