Storie del passato castelbuonese: Antiche domeniche d’ottobre – seconda parte
Storie del passato castelbuonese: Antiche domeniche d’ottobre
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 1 Ottobre 1989]
[Seconda parte disponibile a questo link]
Il passatempo caratteristico di tutta la giornata della festa della Madonna del SS. Rosario era però ben altro.
In quei tempi u chianu dû Rusariu (oggi piazza Ten. Giovanni Schicchi) scendeva direttamente a precipizio nel burrone: non esistevano né le case dirimpetto alla chiesa, che si iniziarono ad edificare nei primi decenni di questo secolo, né lo stradale che dalla stazione ferroviaria conduce a Geraci, aperto nella seconda metà del secolo scorso. In questo dirupo avveniva a tirata ê addruzzi che, dopo la costruzione di dette case, in un secondo tempo, si trasferì in quella discarica di pietre e di terriccio, dove sono sorti oggi l’ufficio postale e l’edificio dei telefoni. Quest’ultimo spazio serviva pure, fino a qualche decennio addietro, in occasione della festa patronale di S. Anna e di quella del SS. Crocifisso, ppi sparari u iùocu fùocu. Comunque, o piovesse o tirasse vento, la domenica della Madonna del Rosario nessuno rinunziava a presenziare ed a partecipare â tirata ê addruzzi.
I contadini ne approfittavano per liberare il pollaio della massaia da un ospite «traditore», che mangiava a sbafo, e contemporaneamente cercavano di… venderlo … a caro prezzo. In quale maniera? C’era chi si offriva di ammazzarlo a colpi di pietra, poiché ognuna di quelle «tirate» veniva «pagata», seppure per pochi centesimi. Nel momento che si presentava un adolescente o un ragazzo l’offerta faceva sorridere il villano che era quasi sicuro che quello non ce l’avrebbe mai fatta: vero è che il gallo era legato ed ancorato saldamente ad un cavigliuni (piuolo), ma l’animale aveva ben poche probabilità di essere colpito per l’inesperienza del ragazzo: se veniva colpito a morte lo si doveva a pura e casuale fatalità: quindi l’offerta dell’adolescente era ritenuta un sicuro guadagno a poco rischio. Se si presentava invece un altro cliente adulto, specialmente se era un pastore o un capraio, il proprietario del galletto impallidiva in quanto sapeva che gli adulti, particolarmente pecorai, esercitati a correggere al pascolo gli animali anche a colpi di pietra, godevano di una fama di mira infallibile. Pertanto il prezzo per ogni colpo veniva alzato oppure si pattuiva un determinato numero di colpi per una cifra conveniente di modo che se il galletto avesse dovuto soccombere disgraziatamente nei primi colpi, restava pur sempre un buon margine di ricavo. E poi, fra l’altro, con certi tipi di clienti si stabiliva possibilmente che il tiro dovesse andare a segno all’urvisca (alla cieca), perché la testa del galletto, questa volta non legato e non ancorato ô cavigliuni, come si faceva con gli altri, veniva coperta dalla cùoppula del padrone; oppure il gallo veniva seminascosto darrìa u bizzùolu (dietro una piccola altura o dosso). Anche in queste condizioni era difficile colpire e ammazzare l’animale perché allo schizzare della pietra il gallo aveva modo di muoversi, con il berretto del padrone che in un certo qual modo lo proteggeva anche dalla violenza, attutendo l’arrivo del sasso. Negli ultimi tempi si usò pure buttare per aria il gallo mpasturatu e sparargli con la pistola o con il fucile da caccia. Come era nato questo passatempo? Secondo la tradizione comune anche ad altri luoghi della Sicilia sembra che questo divertimento abbia avuto origine al tempo della dominazione francese per astio verso questo popolo (i Galli furono anche abitanti della Gallia), e che poi si diffuse accentuandosi dopo i Vespri Siciliani, rancore che si manifestava anche nella fabbricazione dei fangùotti (larghi piatti rotondi di terracotta di S. Stefano e di Caltagirone) sul fondo dei quali veniva smaltato un gallo altero per significare che del francese il gagliardo siciliano ne avrebbe fatto sempre quattro bocconi e non solo metaforicamente …
Alla domenica della festa della Madonna del SS. Rosario seguiva la festa della domenica della Madonna della Provvidenza, che veniva celebrata nella chiesa di S. Maria dell’Itria o dell’Idria, appellata pure Madonna Odigitria (Guidatrice del cammino – che cadeva nel martedì dopo Pentecoste), chiesa semplicemente e comunemente indicata come a chiesa i l’Itria.
Questa chiesetta, molto caratteristica, oggi chiusa al culto perché in via di restauro, è molto spesso sulla bocca di tutti i popolani per quelle tre figure di terracotta poste sul portale d’ingresso. La figura del centro, a mezzo busto, rappresenta sicuramente la Patrona S. Anna; le altre due, secondo una tradizione tramandata da alcuni sacerdoti, sarebbero le statue di due personaggi della Bibbia: Abramo ed Elia. Ad Elia, qualche decennio addietro, un furioso colpo di vento, staccando una tegola dal tetto sovrastante, gliela fece precipitare proprio sulla testa danneggiandola irrimediabilmente. Il popolo li ha, invece, soprannominati i babbi i l’Itria, perché, secondo le apparenze stanno sempre lì, immobili ed insensibili, con aria riflessiva. Vengono appellati, quindi, di conseguenza, come babbi i l’Itria gli individui che stanno ad ascoltare con la faccia imbambolata ed addormentata. Spesso il castelbuonese si rivolge, ancora ai nostri tempi, all’interlocutore distratto ed inebetito con una frase ormai consolidata nell’uso comune: Ma u sai ca nn’hai assai dî babbi i l’Itria? oppure nn’hai assai di chiddri nfacci i Patàcchiu (soprannome dei commercianti che in tempi passati esercitavano nei negozi di fronte alla chiesa), per dire che la persona rassomiglia tanto alle statue poste dirimpetto ai locali di questi commercianti (già da tempo ormai scomparsi).
In questa chiesa, quando era rettore il Sac. Don Vincenzo Barreca, che faceva anche il maestro di scuola elementare, era stata promossa dallo stesso una iniziativa, divenuta poi usanza, che attirava molti fedeli. Infatti, possedendo una villetta alle Mandrazze con annesso un modesto ma ben tenuto vigneto, il sacerdote accantonava, al momento del raccolto, una parte delle uve per la sua chiesetta e, raccogliendone, con un poco di ritardo sull’abituale vendemmia, alcuni panieri, destinava ad ogni fin di messa un paniere di racimoli ai devoti della Madonna – che è raffigurata con alcuni grappoli di uva in mano. E la gente si soffermava sulla vicina piazza del Popolo (oggi piazza Matteotti) piluccando … con devozione e… con gusto gli ultimi acini d’uva di quei lontani autunni.
La terza domenica di ottobre era riservata alla festa di sant’Aloi – sant’Eligio vescovo di Noyon (590-660), che pur ricorrendo liturgicamente il primo dicembre, anniversario della morte, a Castelbuono veniva ricordata nella penultima domenica di ottobre, nella chiesa Madre della Natività di Maria Vergine, in quei tempi unica Parrocchia di tutti i castelbuonesi. Il rito più caratteristico era quello della benedizione dei quadrupedi da soma, essendo il Santo, invocato anche contro gli incendi dei fienili, proclamato protettore dei maniscalchi e degli animali ferrati – asini, muli, cavalli – che in quei tempi erano abbastanza numerosi (bisogna ricordare che fino agli anni trenta, a Castelbuono, ne circolavano oltre duemila). Oggi la cerimonia della benedizione di questi animali a Castelbuono è caduta in disuso, ma sussiste ancora in alcuni paesi della Francia, del Belgio e della Germania, dove è diventato anche il Santo protettore dei meccanici e dei garagisti. Secondo l’iconografia ufficiale il Santo è raffigurato, in riferimento alla tradizione, nell’atto di aiutare un fabbro a staccare una zampa ad un cavallo per ferrarlo con maggior esattezza e comodità per poi rimetterla perfettamente al suo posto.
Come dimenticare la ressa dei pastori, dei contadini, dei carrettieri, dei vetturali in Piazza Parrocchia, fino al 1925 sgombra del monumento ai Caduti? Fin dalle prime luci dell’alba i più mattinieri di questi lavoratori si presentavano con uno o più animali ed attendevano, pazienti e speranzosi, la fine della Santa Messa. Gli animali, in quel giorno, venivano preparati ed acconciati… per la festa. In questa occasione, infatti, si presentavano con mazzolini di marvuna (gerani doppi, rossi) sulla cavezza e qualche volta si carpiva l’occasione per fare sfoggio di qualche finimento nuovo, che per la circostanza veniva completato ed agghindato con infiocchettature e nastrini rossi: si mescolava così, contro l’ucchiatura (il malocchio), non si sa mai, un misto di sacro e di profano, attaccando poi, dopo la benedizione, anche l’immagine di sant’Eligio prima sulla fronte del quadrupede e poi sulla greppia della stalla.
Largo Parrocchia pullulava di cavalcature che venivano legate un po’ dovunque, specialmente alla cancellata del sacrato, che risultava così totalmente circondato dagli animali, ed agli anelli di ferro che in quei tempi ornavano sistematicamente i lati di ogni porta o portone delle case del paese. Mentre nell’interno era un susseguirsi di sante messe i quadrupedi scalpitavano ininterrottamente, lanciando di tanto in tanto, provocati ed istigati da qualche monello che si divertiva ad imitarne la voce, sonori ragli e prolungati nitriti, richiami che si estendevano facilmente alle altre bestie presenti e che si risolvevano in veri e propri concerti di musica … asinina. E mentre i padroni, villani, carrettieri e pastori scambiavano qualche parola sui raccolti dell’annata, sui prossimi lavori agricoli e sull’andamento delle vicende familiari, nell’aere autunnale si diffondevano potenti… profumazioni dovute ai bisogni… di liberazione intestinale degli animali. Ma niente preoccupazioni: in giro c’era con carteddra, pala e scupunieddru d’alastru la gna Giulianeddra soprannominata a puddrinita, una vecchiarella, che abitando in un vicoletto in quei pressi, provvedeva a pulire, da antesignana dei moderni operatori ecologici, ed a ripulire continuamente u chianu â Matrici, andando e venendo dalla stalla di casa sua, dove depositava carichi e carichi di letame, che poi provvedeva a barattare in prodotti agricoli con i contadini che avevano bisogno di preparare i fùossi ‘i favi. E quando, alla fine della messa, il sacerdote di turno si affacciava con l’aspersorio in mano sulla porta centrale della Matrice, seguito dal sacrestano che reggeva l’acquasantiera, si levava solenne il grido di E viva sant’Aloi, sempri comi oi (Evviva S. Eligio, sempre come oggi). E non essendovi, allora, altre messe nel pomeriggio, questa festa si concludeva a mezzogiorno.